venerdì 29 agosto 2014

Nel vortice nichilista

Non scommetterei un centesimo su questa società, non lo farei nemmeno sotto tortura perchè sono certo che perderei. Di occasioni per la redenzione la Storia ne ha offerte parecchie, ma il percorso involutivo non si è fermato e la spinta individualista ha corroso con pazienza e metodo la struttura portante di una società che si è abbandonata alla deriva nichilista non concedendo neppure l'onore delle armi. Senza sconfinare nello storicismo, non possiamo negare di essere figli della Storia, e in particolar modo non possiamo negare di esserlo del Novecento ben oltre l'aspetto anagrafico, e a conti fatti, il centennio passato ci ha tolto molto più di quanto ci abbia dato. Non si può neppure dire che sia stato magnanimo lasciandoci in eredità quel sostrato individualista che di fatto è il primo responsabile del colpo mortale inferto all'etica.
Il secolo scorso ha avvolto nelle proprie spire tutto il percorso umano che l'ha preceduto, esacerbando l'inclinazione contraddittoriamente individualista dei membri del tessuto sociale, fungendo da detonatore per una situazione sociale irrimediabilmente esasperata e progressivamente crepata nelle fondamenta da incrinature insanabili. Superando l'impatto emotivo dei casi specifici, non ho remore nell'indicare proprio nell'uccisione dell'etica il crimine più grave commesso dal Novecento che, negando definitivamente l'inalienabilità del diritto alla vita, ha abbandonato l'individuo in balia del proprio becero ed effimero individualismo, privandolo conseguentemente di certezze etiche e valori stabili. Che l'avvento del capitalismo abbia delle responsabilità è innegabile, ma sarebbe riduttivo ritenerlo la causa unica di quella degenerazione che, affondando le proprie radici nell'individualismo, ha inaugurato la lunga e tuttora inconclusa stagione nichilista. Caposaldi e certezze etiche hanno perso consistenza come neve al sole e l'ideale contratto teorizzato da Rousseau e Locke è soltanto un ricordo lontano, tanto che quella stipula ha lasciato il posto ad una società fondata su una perenne lotta senza quartiere, in cui ogni mezzo è giustificato dal fine. Dal canto suo, il laicismo, pur responsabilizzando l'individuo, ne ha al contempo palesato l'impossibilità di vivere senza la fede e l'incapacità propugnare "motu proprio" una morale cui assoggettarsi. Negando l'inalienabilità del diritto alla vita e subordinandolo al fine individuale, la società ha estrinsecato una tendenza nichilista che ha poi visto, per inevitabile effetto domino, sgretolarsi ogni certezza. Il relativismo ha un'importanza filosofica più grande di quanto si possa credere, ma i suoi più accaniti teorizzatori falliscono nel voler relativizzare anche il diritto alla vita, che non potrà mai e poi mai essere valutato in relazione al contesto. Non posso e non voglio concedere attenuanti ad una società in cui la vita è diventata una merce, un oggetto di scambio il cui valore è oramai drammaticamente quantificabile numericamente. Violando l'inalienabilità del diritto alla vita, viene a cadere la costruzione etica che necessariamente su di essa deve poggiare e la conseguente disgregazione dei valori è la logica conseguenza di un vorticoso processo nichilista richiusosi su se stesso. Qualcuno potrebbe sostenere che non sia mai stato diverso e magari potrebbe chiamare in causa Platone, ancora lui, che in tempi non sospetti aveva anticipato tutti con il mito della caverna: a cosa reagisce infatti lo schiavo liberato, se non a un nichilismo ante litteram? La strada che porta a raggiungere e superare Nietzsche sarebbe troppo lunga da ripercorrere ora, ma ritengo doveroso sottolineare come il diritto alla vita abbia visto nel tempo mutare drasticamente la propria consistenza valoriale. Fintanto che esso veniva immolato in nome di un ideale, condivisibile o meno, lo si inseriva entro una dimensione eticamente aulica che per certi versi ne nobilitava il sacrificio. Molti sacrifici del passato venivano alimentati da un fine eticamente nobile almeno in teoria, e la vita diveniva spesso l'estremo mezzo con cui affermare valori altrimenti inaffermabili e irraggiungibili. Il tempo però ( e il Novecento in particolar modo ) ha vilipeso la dignità della vita azzerandone il valore attraverso sacrifici che non ritrovano il proprio motivo se non nella ricerca dell'utile individuale. L'eroica morte degli spartani alle Termopili e il suicidio di Catone a Utica sono purtroppo oramai aneddoti per sciorinare in pubblico la propria cultura, ma il loro significato è andato irrimediabilmente perduto.
Smentendo la tanto decantata evoluzione intellettuale, gli orrori del Novecento ( dai genocidi alle condanne capitali, dalle guerre di espansione alle persecuzioni razziali ) denunciano a gran voce la sconfitta dell'etica, precipitata oramai nel tritacarne nichilista. L'involuzione individualista ci presenta un individuo che non può risultare vittima, bensì più che mai colpevole in quanto artefice della società, e dunque direttamente responsabile della caduta nichilista. Per quanto mi sforzi, la sua colpevolezza mi impedisce di riporre nell'individuo la speranza di una radiosa rinascita di nietzscheana memoria, e il nichilismo, anziché un ostacolo da superare, ben presto verrà definitivamente accettato come un compagno di viaggio col quale convivere.

Matteo Andriola

sabato 23 agosto 2014

Il dialogo interreligioso è auspicabile da tutti, atei compresi

Se osservato da una diversa angolazione, un filosofo notoriamente ateo come Karl Marx può offrire un interessante punto di partenza per introdurre una disamina di tipo religioso. Riconosco che ciò possa apparire strano, ma se definendola "l'oppio dei popoli", Marx certamente tenta di infliggere un colpo mortale alla religione, al contempo ne afferma l'influenza, chinando la testa di fronte al suo enorme potere persuasivo che neppure lui, ateo, può riuscire a negare. Per quanto possibile, affronterò la questione senza ricorrere all'esempio specifico, cercando di non cedere alla tentazione di togliermi qualche sassolino dalla scarpa, in quanto ritengo il dialogo interreligioso una necessità anzitutto concettuale. 
Neppure ad un osservatore disattento può sfuggire quanto la religione condizioni la vita di una società umana sempre più multietnica e multiculturale, e sebbene le divinità greche ci sembrino lontanissime e le scomuniche medioevali anacronistiche, sarebbe ottuso credere che la religione abbia visto nei secoli ridimensionarsi il proprio ruolo. Nel tempo essa è mutata, spesso nella forma ma non nella sostanza, in funzione di un esercizio sempre più saldo delle proprie funzioni. Non mi interessa ora addentrarmi in una pur sempre stimolante argomentazione teologica, né tantomeno intendo chiarire in questa sede la mia posizione al riguardo; al momento mi preme soltanto intervenire riguardo all'opportunità del dialogo interreligioso in relazione al ruolo che la religione ricopre oggi all'interno della società. Che occupi un posto di prim'ordine del resto, neppure da posizioni agnostiche o atee lo si potrebbe negare, ed infatti ribadisco come Marx stesso sia in definitiva incapace di negarne l'enorme potere trainante.
Imbarcarsi in una riflessione di argomento religioso è però sempre questione delicata, e fondamentalmente credo che l'errore oggi più comune consista nell'osservare la religione assumendo sempre e comunque una posizione di partenza, che necessariamente finirà per influenzare la valutazione fin dai suoi primi passi. Essa è una realtà radicata nella società umana, a prescindere dal credo e dal "credere", e come tale dev'essere valutata. In altri termini, ci si potrà interrogare circa la natura o l'esistenza stessa della divinità, ma non circa l'effettiva presenza della religione all'interno della società. Come pretesto o come causa, il confronto religioso da sempre origina laceranti contrasti, qualunque sia la posizione che ognuno decida di assumere. Apparentemente, l'affollamento di chiese, moschee, templi e sinagoghe parrebbe riconoscere alla religione un saldissimo valore aggregante, ma rovesciando la medaglia non si può fare a meno di notare quanto essa ne possieda al contempo uno disgregante e laddove origina aggregazione, troppo spesso getta il seme per disgregare, generando divisione profonda appena al di fuori dei luoghi di culto. La millenaria storia delle religioni le ha sovente incanalate su binari rigorosamente conservatori, escludendole da una modernità che forse per certi aspetti non potrebbero neppure possedere, ma in un'epoca in cui il concetto di nichilismo è ritornato terribilmente attuale, ciò non dovrebbe precludere la possibilità di un costruttivo dialogo interreligioso, che dovrebbe essere auspicabile da tutti, atei e agnostici compresi. La religione, con atto di maturità, dovrebbe non soltanto raccogliere gli onori, ma anche accollarsi gli oneri che qualunque potere necessariamente deve sobbarcarsi, agendo in funzione aggregante, responsabilmente consapevole della propria capacità di spostare gli equilibri, guidando una società umana che non perde occasione per dimostrare di non essere autonoma.
Se si crede per convinzione, indubbiamente si crede anche per necessità e, senza entrare nel merito della fondatezza del credo o più in generale del "credere", non è un mistero che la religione abbia assolto nei secoli e assolva tuttora un ruolo consolatorio, offrendo ai moltissimi fedeli una ragione di vita che certo potremmo valutare in molti aspetti ma non potremmo mai arrivare a negare. A prescindere dalla loro fondatezza, le religioni svolgono anche il sempre allietante incarico di deresponsabilizzare l'individuo, rendendogli sopportabili i dolori terreni. Amo morbosamente Dostoevskij e quando Ivan Karamazov afferma "se Dio non esiste, tutto è permesso" non posso che inchinarmi di fronte all'enormità del narratore russo, che con una frase secca e concisa riesce a sintetizzare, come meglio non si potrebbe, l'essenza ultima della fede religiosa. Che esista o meno la divinità, l'uomo non è pronto per sopravvivere rinunciando ad essa e alla sua forza consolatrice, e proprio per tale motivo il dialogo interreligioso rappresenterebbe in questo momento storico uno strumento di straordinaria modernità in una società in cui il progresso scientifico è inversamente proporzionale a quello etico.
Oggi come ieri, la religione è un potere politico non meno che spirituale e come tale, modernizzandosi, dovrebbe agire. Trovo contraddittorio combattere sotto il vessillo di un dio, giustificando posizioni e gesti in nome della fede, eppure, assieme al denaro, la religione è causa, concausa o pretesto della stragrande maggioranza dei conflitti della storia. Ancora oggi, tra le religioni vi è un abisso molto più profondo di quanto si voglia ammettere e l'apertura al dialogo, nella maggior parte dei casi, si configura come mera disponibilità di convenienza, che però ai miei occhi altro non fa se non scavare tra di esse un solco sempre più profondo. Anziché ridurre la fede alla pura militanza, le religioni dovrebbero agire consapevoli del proprio potere trainante, ricercando e promuovendo un dialogo che non sia diretto ad affermare il proprio primato sulle altre, ma che sia propedeutico al raggiungimento di una cooperazione che prescinda dalle diversità. Le alte sfere religiose, nessuna esclusa, ben consapevoli della forza persuasiva esercitata dal proprio credo, non dovrebbero ricorrere alla predicazione per convertire e affermare la propria superiorità, bensì per unire in un costruttivo confronto. Per il nobile fine che si pone del resto, persino dal punto di vista dell'ateo un dialogo religioso è sempre auspicabile. Ovunque, il potere spirituale ha un'innegabile influenza temporale e la comunicazione interreligiosa diverrebbe un vero e proprio strumento unificante in una società che, mai come oggi, avrebbe bisogno di un saldo bastone su cui poggiarsi.
In questo senso, fede, ateismo e agnosticismo si collocano sullo stesso piano nel valutare l'opportunità di un dialogo che non snaturerebbe affatto le religioni in questione, ma anzi, paradossalmente, ne affermerebbe il valore anche agli occhi di chi non è un fedele. In tale prospettiva, la questione relativa all'esistenza della divinità diverrebbe superflua perchè, che essa esista o meno, la religione rimarrebbe comunque un' innegabile realtà.

Matteo Andriola

lunedì 18 agosto 2014

La caverna di Platone è più affollata che mai

Durante le sue lezioni, quello che poi sarebbe diventato il mio relatore di tesi, compiacendosi della grandezza della propria disciplina, era solito ripetere che se non avessimo capito il pensiero di Platone non avremmo capito neppure la Filosofia successiva. Al tempo credevo calcasse volutamente la mano, abbandonandosi ad un aristocratico snobismo accademico di maniera, ma non impiegai molto tempo per ritornare sui miei passi e capire che in realtà aveva ragione lui. Non so se Platone sia stato il più grande filosofo esistito, probabilmente no, ma sicuramente è quello che maggiormente ha condizionato i pensatori successivi: lo ritrovo in Leibnitz, in Kant, in Schopenhauer e persino in Nietzsche. Il fatto che Platone sia stato allievo di Socrate poi, ci impone di considerarlo con riverenza religiosa quasi a prescindere.
La società cui Platone si rivolge, per svariati motivi è una società molto diversa dalla nostra, e il ricorso ai miti aveva molto più senso allora di quanto non ne avrebbe oggi, tuttavia commetteremmo un grave errore se considerassimo il mito alla stregua di una semplice storiella coreografica. Ammetto di non essere mai stato un accanito sostenitore dell'attualizzazione del passato e penso che chi lo sia, molto spesso con il proprio sforzo finisca per travisare ciò che sta inopinatamente tentando di attualizzare. Chiunque abbia studiato la Repubblica di Platone però, giunto al libro VII deve necessariamente aver sussultato almeno una volta di fronte al mistero filosofico del mito della caverna; io non faccio eccezione, ed anzi ancora oggi non posso fare a meno di stupirmi davanti alla sua modernità. Se c'è una cosa che ho imparato dai miti, è che essi hanno sempre un'interpretazione generale indipendente che precede quella particolare, e la seconda necessariamente dipende dalla prima. Platone, che del ricorso al mito è un maestro, lo sapeva bene, ed anzi confidava proprio sul fatto che il lettore fosse consapevole dell'esistenza di differenti livelli interpretativi gerarchicamente ordinati. Ha ragione Nicola Abbagnano quando sostiene che la versione razionale completa di ogni mito sarebbe un controsenso e credo di non sbagliare indicando proprio in questa peculiarità la forza persuasiva dei racconti platonici.
Ritornando nello specifico del mito della caverna, dopo averlo velocemente ripercorso, credo sia opportuno osservarne alcuni aspetti. Platone immagina che alcuni schiavi si trovino incatenati sul fondo di una caverna, rivolti contro la parete e impossibilitati a voltarsi. Davanti a loro si muovono le ombre di alcune statuette mosse alle loro spalle da uomini accovacciati dietro ad un muretto. Dietro di esse, un fuoco proietta le ombre. Uno schiavo, liberatosi dalle catene, riesce a voltarsi e, risalendo la caverna, scopre che ciò che fino a quel momento aveva potuto vedere non era la realtà, ma soltanto una sua fittizia rappresentazione. Uscito dalla caverna, la luce del sole gli si manifesta in tutta la sua luminosità, rivelandogli la verità. Lo schiavo liberato ha scoperto la verità, ma è reticente di fronte alla possibilità di rientrare nella caverna per rivelare a quelli che un tempo erano i suoi compagni di prigionia che fino a quel momento sono stati ingannati da una menzogna e che quelle ombre non sono altro che un'illusione. Teme che questi, non credendogli, dopo averlo deriso lo uccidano.
Esistono diverse letture del mito, che dev'essere obbligatoriamente affrontato tenendo in considerazione la ben nota "teoria delle idee", ma come anticipato è ora di mio interesse concentrarmi sulla sua genericità anziché sulla sua specificità. Platone è troppo intelligente per lasciarsi sfuggire l'occasione di offrire un pronto riscatto alla memoria del suo maestro, ed infatti dietro allo schiavo liberato non possiamo fare a meno di intravedere Socrate, simbolo di un'auspicata emancipazione intellettuale, condannato a morte perchè, intellettualmente libero, rifiuta di scendere a compromessi. In altri termini, tralasciando i diversi piani di lettura, la liberazione dalla prigionia intellettuale diviene una necessità sociale e Socrate più di chiunque altro può rappresentare la coraggiosa scelta di chi rifiuta la costrizione della schiavitù ed esce dalla caverna alla ricerca della verità, anche a costo della vita. Socrate paga cara la propria emancipazione, ma agli occhi di Platone ( ed anche ai miei ) è un vero e proprio eroe perchè rifiuta le catene dell'ignoranza. 
Anche sforzandomi di non farlo, non posso fare a meno di notare come la società attuale abbia incatenato molti schiavi sul fondo di quella caverna, costringendoli ad una cattività forzata che pone davanti ai loro occhi soltanto ombre, subdole menzogne travestite da realtà. Interi popoli ridotti in schiavitù intellettuale, resi incapaci di ribellarsi ad una cattività che troppo spesso viene confusa con la libertà. Oggi, la caverna raccontataci da Platone è più affollata che mai, ed è affollata da schiavi che colpevolmente coltivano la propria condizione come una virtù, convinti che la catena sia il normale prezzo da pagare per vivere in società, una società che addita ogni schiavo liberato con disprezzo, accusandolo di essere un pericoloso sovversivo. Se siamo schiavi politicamente ed economicamente, lo siamo perchè anzitutto siamo soggiogati intellettualmente, felici di ammirare ombre danzanti sulla parete della caverna, protetti dal vincolo della catena. Se solo ce ne rendessimo conto, scopriremmo di aver fino ad oggi creduto a delle menzogne e iniziando a considerare la libertà dell'intelletto come un bisogno vitale, capiremmo come Socrate non sia in realtà il simbolo della ribellione, ma piuttosto il simbolo di quella stessa libertà intellettuale che dovrebbe essere imprescindibile prerogativa di ognuno e che invece, oggi più di ieri, è un'assente ingiustificata all'interno della società.

Matteo Andriola

lunedì 11 agosto 2014

Sulla pena capitale

Dopo aver pugnalato a morte Marat nella vasca da bagno, Charlotte Corday dichiarò di aver ucciso un uomo per salvarne centomila. Mi ha sempre affascinato questa fanciulla che, ironia della sorte, perse la vita quattro giorni dopo aver ottenuto l'immortalità storica per aver compiuto un gesto sicuramente "più grande di lei". La lama della ghigliottina, infatti, sentenziò senza condizioni la sua colpevolezza. Pur non condividendolo, posso tranquillamente dire di comprendere il gesto della Corday, che doveva certo nutrire profondo odio verso Marat, ma ancor più doveva avere a cuore quei "centomila" che col suo gesto intendeva salvare. Più o meno direttamente, Jean Paul Marat era stato il responsabile di moltissime esecuzioni e la Corday non aveva a disposizione molti mezzi per rendere inoffensivo quello che ai suoi occhi doveva apparire né più né meno di un assassino. Al contrario, alla sua esecuzione esisteva l'alternativa del carcere, che però non venne neppure contemplata.
La ghigliottina è oramai un oggetto da museo, ma la pena capitale continua ad essere in vigore in diversi Paesi e il dibattito generato dalla legittimità di uno strumento di giustizia che impone una morte "non necessaria" ha prodotto una letteratura così vasta da far scricchiolare gli scaffali più resistenti delle biblioteche. Non entrerò in questa sede nell'analisi dei casi specifici, in quanto è ora mio interesse analizzare la problematica nel suo complesso, focalizzandomi esclusivamente sull'esercizio di una pratica che ritengo illegittima senza condizioni. La questione presenta certo numerose implicazioni etiche, ma quando mi viene chiesto di indicare il motivo per il quale io sia drasticamente contrario alla pena capitale, senza esitazioni indico nella sua concettuale contraddittorietà la motivazione predominante. Essendo la vita un diritto inalienabile, non esiste oggi società regolamentata da leggi scritte ( incluse quelle in cui vige la pena capitale ) che non annoveri fra i reati l'omicidio volontario, e alla Giustizia si riconosce, tra gli altri, l'ingrato compito di comminare sanzioni proporzionate ai reati commessi, affermando la superiorità della Legge sul singolo individuo. Non si può negare che le sanzioni concorrano a rendere solide le fondamenta di una società che si è irrimediabilmente spogliata dell'etica, ma la pretesa di adottare la pena capitale facendone un esempio di giustizia, a ben vedere, non può che sconfinare nel territorio della contraddittorietà. Se da un lato infatti si dovrà obbligatoriamente riconoscere alla Legge un razionale primato gerarchico sul reato, dall'altro non si potrà fare a meno di negare la razionalità di un provvedimento che "legalmente" punisca un crimine ricorrendo a un altro crimine. Permeata di contraddittorietà e irrazionalità, la pena capitale testimonia l'irrimediabile fallimento civile della società che la applica. 
Ho perso da tempo la stima nel genere umano per illudermi che le leggi vengano rispettate per ossequio, perciò non esiterei a scommettere parecchi soldi sul fatto che gli uomini, nella stragrande maggioranza dei casi, non delinquano soltanto per paura delle conseguenze. In considerazione di ciò, piuttosto che come strumento di giustizia, la pena capitale si configura come strumento deterrente, barbaro ammonimento di ciò che potrebbe accadere ai responsabili di determinati crimini. Nella sua funzione deterrente che la relega a mero strumento punitivo e intimidatorio, non posso fare a meno di individuare un intrinseco potere disgregante, capace di far decadere il compito più nobile che alla Legge si dovrebbe riconoscere, quello educativo. Non è accettabile che la Giustizia, peraltro contraddittoriamente, violi l'inalienabile diritto alla vita e se, pur non giustificandolo, non fatico a comprendere le motivazioni di un genitore che impulsivamente decide di farsi giustizia uccidendo l'assassino della figlia, non riesco a concedere attenuanti a un'istituzione che, ergendosi sui singoli, per sua stessa essenza dovrebbe esercitare le proprie funzioni razionalmente e nel rispetto di quella morale di cui per sua natura dovrebbe essere il più affidabile garante. Sostituendosi a una punizione che non contempli la lesione del diritto alla vita ( come ad esempio, la detenzione ), la pena capitale non ha funzione riparatrice, non ristabilisce lo status quo precedente il delitto per cui è stata comminata, ma punendo con la morte il condannato, sostituisce soltanto un crimine con un altro. Il perverso sollievo che genera in coloro che la sostengono poi, rende la pena capitale una cartina tornasole utile per comprendere la reale natura dell'animo umano, che non è affatto desideroso di giustizia come invece si potrebbe pensare. Sono infatti sempre più convinto che l'individuo, oggi più di ieri, non brami realmente il trionfo della Legge, ma senta soltanto l'esigenza di illudersi che ciò avvenga. Nell'immaginario collettivo, il cattivo deve perdere e la sua sconfitta definitiva può essere sancita soltanto dalla morte, che in realtà altro non è se non l'emblema di una clamorosa sconfitta etica. La collettività, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, non desidera la giustizia, in quanto, se così fosse, non esiterebbe a proclamarsi unanimemente contraria ad una pratica eticamente ingiusta e concettualmente contraddittoria, e caldeggerebbe la sua abolizione auspicandone la sostituzione con la detenzione. Quest'ultima, la cui durata dovrebbe certamente essere regolata dal diritto, punirebbe ugualmente il colpevole, e lo renderebbe inoffensivo senza ledere l'inalienabile diritto alla vita. La "non necessaria" morte del condannato, invece, appaga soltanto il desiderio di una folla irrazionale che si convince che un efferato criminale possa ottenere ciò che merita soltanto salendo sulla forca.
Se mi venisse offerta la possibilità di invitare a cena un personaggio del passato, senza esitazioni inviterei William Shakespeare, per potergli chiedere come sia riuscito a conoscere così perfettamente la natura umana. Nessuno meglio di lui infatti è riuscito a rappresentare i reconditi meandri dell'animo umano e certo non è ricorso a molta immaginazione quando, scrivendo Il mercante di Venezia, ha caratterizzato il personaggio di Shylock, il degenere usuraio che accetta di prestare del denaro a Bassanio, a condizione che Antonio, garante del suo debitore, gli conceda una libbra della propria carne in caso di mancato pagamento del debito; con le tasche vuote ma moralmente appagato dal solo sacrificio umano. La libbra di carne Shylock non la otterrà, ma se ipoteticamente potessimo invitarlo ad esprimere un parere sulla legittimità della pena capitale, certamente deciderebbe di sedersi "dalla parte del torto", per citare Brecht. Purtroppo, rischierebbe di non trovare posto.

Matteo Andriola

venerdì 8 agosto 2014

A proposito di Nietzsche

Se fossi stato un ligio credente di un villaggio prussiano e durante la mia passeggiata quotidiana mi fossi imbattuto in Nietzsche che annunciava a squarciagola la morte di Dio, probabilmente avrei rischiato un mancamento e avrei additato quel baffuto figuro come un pazzo o, peggio ancora, come il demonio in persona. Possiamo facilmente immaginare che una simile reazione l'abbiano avuta in molti tra i contemporanei del filosofo di Rocken, o perlomeno tutti coloro che sentivano di non poter vivere senza un dio da venerare, la cui esistenza non era oggetto di discussione. Nietzsche sapeva che non avrebbe trovato particolare indulgenza nei suoi confronti, tanto era provocatoria la portata del suo annuncio, e soltanto la più o meno diffusa laicizzazione della società ha consentito la corretta ricezione del suo messaggio che, contrariamente a quanto si possa pensare, non può certo considerarsi un mero invito all'ateismo. La perentorietà dell'annuncio giustifica almeno in parte coloro i quali, in buona fede, hanno equivocato il messaggio nietzscheano. Per quanto stimolante, studiare Nietzsche è tutt'oggi un'impresa faticosa e l'impressione che se ne ricava è quella che il filosofo prussiano abbia ancora qualcosa da dirci e che si riprometta di farlo la prossima volta che torneremo sui suoi scritti. Ci ho fatto il callo e non mi fido di lui al punto da poter dire con sicurezza che il suo pensiero non ci nasconda ancora qualcosa, per cui ogni volta mi aspetto di trarre nuovi spunti dai suoi scritti. Che il suo messaggio fosse destinato a sconvolgere l'allora vigente morale religiosa del resto, Nietzsche lo sapeva benissimo; e in realtà era proprio ciò che voleva.
Nel 1882, quando nella Gaia scienza annuncia la morte di Dio, è già un filosofo maturo con alle spalle scritti di importanza capitale ( primo fra tutti, La nascita della tragedia ), e dunque il suo grido assordante si deve considerare come il frutto di un pensiero meticolosamente costruitosi nel tempo. Come anticipato, sarebbe errato ricondurre il clamoroso annuncio nietzscheano al mero e semplice ateismo, in quanto esso racchiude in se stesso significati molto più ampi. Con Socrate prima e Platone poi, secondo Nietzsche, ha avuto inizio un lento e inesorabile declino che ha portato all'ossessiva ricerca della verità, una verità che però neppure la vita e la natura possono conoscere. Nietzsche non era certo tipo da lasciarsi condizionare dal timore reverenziale ed infatti condanna senza appello Socrate e Platone, rei di aver diviso l'essere in due parti: una parte sensibile e illusoria, l'altra trascendente e irraggiungibile. Accettare che la verità risieda nell'irraggiungibile mondo trascendente però, significa anche ammettere di vivere in un mondo privo di senso e consistenza. La religione ( il Cristianesimo in particolare ) ha poi fatto il resto, prosegue il filosofo, portando a un definitivo sovvertimento gerarchico della morale, affermando il primato dei valori antivitali dei più deboli ( gli "schiavi" ) su quelli vitali dei più forti ( i "signori" ), in vista di un indimostrabile premio ultraterreno. La classe sacerdotale, debole e colma di risentimento verso quella dei signori, non potendo competere nel campo dei valori vitali ( come la forza e il coraggio ), ha messo in atto un meticoloso lavoro di avvelenamento, introducendo valori antivitali ( come la rinuncia e il sacrificio ) che la potessero rendere competitiva. Annunciandone la morte, Nietzsche non nega Dio, ma ne sentenzia soltanto la fine: la fine della religione cristiana e con essa il crollo di tutti quei valori illusori sui quali fino a quel momento si era retta la civiltà. La svalutazione del mondo terreno e dei suoi valori vitali ha disgregato tutte le certezze, generando nell'individuo il più completo senso di smarrimento dettato dal suo essere in balia di incerte e illusorie credenze. Una mancanza assoluta e totale di valori e certezze che si definisce "nichilismo". Col consueto fervore, Nietzsche condanna l'individuo moderno e il suo maldestro tentativo di liberarsi dal nichilismo sostituendo ai vecchi valori dei semplici surrogati, come ad esempio la fiducia nel progresso: lo scienziato, sia pure quello ateo, ricerca una verità spinto dalla "fede" di poterla trovare, sostituendo di fatto una fede con un'altra. Secondo Nietzsche, occorre prendere atto della morte di Dio e obbligatoriamente rinunciare alla ricerca della verità ( che non può essere raggiunta ), partecipando attivamente, secondo quello che lui definisce "nichilismo estremo", alla distruzione di tutte quelle illusioni alle quali fino a quel momento l'individuo, vittima della sua stessa debolezza, si era saldamente aggrappato. E Dio è l'emblema di tutte queste illusioni.
Tra il 1883 e il 1885, Nietzsche scriverà Così parlò Zarathustra, proseguendo nella propria analisi approfondendo il tema dell'oltreuomo. Avremo modo di parlarne.

Matteo Andriola

mercoledì 6 agosto 2014

Riflessioni mattutine intorno al conflitto tra Israele e Palestina

Come ogni giorno da circa un mese, l'argomento cui i quotidiani dedicano il maggior numero di pagine è la guerra tra Israele e Palestina. Mi rendo perfettamente conto che la complessità della questione sia tale da non poter essere analizzata nelle poche righe che un blog mette a disposizione, e peraltro rimango dell'idea che probabilmente non sarebbe neppure la sede opportuna. Tuttavia, non posso sottrarmi alla tentazione di esprimere un parere al riguardo. La vicenda storica è quanto mai complessa e troppi sono gli interessi in gioco per poter valutare questa guerra soltanto indicando con l'indice teso la parte del torto e quella della ragione. Israele ha assunto una posizione di assoluto predominio nello scacchiere mondiale, divenendo un interlocutore che sovente siede capotavola al tavolo delle trattative mondiali, un tavolo che, come noto, è tutt'altro che rotondo. Di fatto, il peso politico ed economico raggiunto è sufficiente ad Israele per collocarsi in una posizione di privilegio, un privilegio tale da rendere tollerabile se non addirittura legittima l'invasione della Palestina agli occhi dell'ONU, che si limita timorosamente ad invitare alla moderazione. Come se ciò fosse sufficiente per rifarsi quella verginità morale che le Nazioni Unite hanno perduto oramai da tempo.
Per chi come noi lo osserva da lontano, il conflitto, con le sue innumerevoli vittime civili, è emotivamente d'impatto e lascia spazio alle più svariate considerazioni e prese di posizione. La mediazione degli Stati Uniti è insolitamente mite, ma non sorprende se consideriamo gli stretti rapporti economici e non solo che li legano a Israele; l'ONU si defila affidando a Ban Ki-moon parole a dir poco sconcertanti per mitezza e qualunquismo. Le tregue a ore, parentesi ironicamente tragiche che sentenziano come la guerra sia oramai la drammatica costante, spezzano la monotonia di una quotidianità che ha nella morte il proprio motivo dominante.
Sto con Vattimo, del quale ho infinita stima intellettuale, quando nel condannare le violenze di Israele si appella alla Storia, sottintendendo che un popolo che ha subito l'orrore dell'Olocausto dovrebbe aver raggiunto una maggiore maturità civile. Non condivido però la posizione di coloro i quali, nella condotta bellica israeliana, intravedono un pretesto per dedicarsi alla purtroppo sempre frequente attività di revisionismo storico, un revisionismo teso a ridimensionare ciò che la memoria storica ci ha consegnato come uno dei più grandi crimini dell'umanità che, senza condizioni, tale deve restare. Che nel conflitto contro la Palestina, Israele non reciti il ruolo di vittima è cosa fin troppo evidente, ma tale valutazione deve obbligatoriamente spogliarsi di facili dietrologie. Non so se il Professor Vattimo, che certamente la Storia la conosce molto bene, condanni Israele in virtù del suo passato; francamente non credo. Osservo disorientato ciò che avviene nella striscia di Gaza, la smobilitazione delle truppe israeliane lascia dietro di sé un numero impressionante di interrogativi, ma un numero ancor più elevato di vittime, civili per lo più, che sono solo e soltanto vittime, a prescindere dalla bandiera avvolta attorno alla bara. La Storia, in questo caso, non ci potrà aiutare a comprendere i motivi di una carneficina, ammesso che ve ne siano, ma ci potrà semmai spiegare le ragioni del conflitto. Già Nietzsche del resto, con lo scritto Sull'utilità e il danno della Storia per la vita del 1874, si scagliava contro lo storicismo, accusandolo di annientare l'uomo atrofizzandone la creatività nel presente. Lo storicismo, quello rigoroso, sa essere deresponsabilizzante e, spesso, è il più grande giustificazionista degli orrori del presente. Cadere nella sua rete è molto, troppo facile. 

Matteo Andriola

lunedì 4 agosto 2014

"Non hanno pane? Dategli le brioches!"

Probabilmente Maria Antonietta non ironizzò testualmente, ma mi piace titolare questo post, ricorrendo a ciò che questa spezzante battuta, seppur con tutta probabilità mai pronunciata dalla regina di Francia, intrinsecamente significa. È opinione comunemente diffusa che un governo, qualunque governo, a prescindere dalla sua natura e dall'orientamento politico, debba esercitare le proprie funzioni ponendosi l'obiettivo di soddisfare le esigenze del popolo sul quale esercita la propria autorità. Di qualunque governo si tratti, pare ragionevole riconoscergli questo onere-onore, almeno in teoria. Come frequentemente avviene, la teoria, che pure si colloca al di sopra della pratica, da quest'ultima, all'occasione, viene prevaricata. Senza negare la validità teorica del precetto secondo cui un governo dovrebbe soddisfare le esigenze dei cittadini o sudditi che siano, la Storia ci ha mostrato troppe volte ( e continua a mostrarcelo ) come esso, nella pratica, sia stato contraddetto con incredibile regolarità. Senza focalizzarci ora sui casi particolari, occorrerà analizzare il problema nella sua essenza. La soddisfazione di un popolo è, e sarà sempre, proporzionale al livello di soddisfazione fino a quel momento raggiunto; in altri termini, se un popolo ha sempre vissuto nell'agio e nella ricchezza, non troverà appagamento in un provvedimento che non gli conferisca uguale o maggiore agiatezza. Certamente, entro i limiti del possibile, un "buon governo" dovrebbe adoperarsi per una crescita esponenziale del livello di soddisfazione dei governati, ma ciò, senza entrare nello specifico, richiederebbe ai governanti capacità politiche e morali che la Storia ci ha insegnato essere merce rarissima, o perlomeno ci ha mostrato come sia molto difficile veder convivere nel medesimo individuo entrambe le qualità. La drammatica situazione socio-economica attuale, più o meno diffusa, se escludiamo eccezioni sociali precise, non si deve considerare come il fallimento delle varie strategie politiche dei governanti, quanto piuttosto come la loro perversa vittoria. Infatti, abbassando la soglia del benessere, i vari governi hanno al contempo abbassato la soglia della soddisfazione. Un popolo affamato si accontenterà del pane, un popolo agiato pretenderà diritti. E i diritti, si sa, sono molto difficili da concedere, soprattutto per coloro che non dispongono contemporaneamente delle due capacità sopraccitate.

Matteo Andriola