sabato 13 dicembre 2014

Nietzsche e l'eterno ritorno

Continuo a preferirgli una bella donna, ma il fascino che Nietzsche esercita su di me supera di gran lunga la semplice infatuazione. Del resto, se è vero che una fragorosa esplosione provoca una reazione più veemente rispetto a quanto non faccia un'armoniosa melodia, nessuno più di Nietzsche può vantarsi di essere riuscito, con il proprio pensiero violento e insieme rivoluzionario, nella non facile impresa di sconvolgere il mondo della filosofia occidentale. In molti possono dargli del pazzo, forse per alcuni ciò è più edificante, ma come spesso avviene, definire qualcuno folle equivale ad ammettere che questi abbia ragione. Così parlò Zarathustra è un testo troppo geniale per pensare di poterlo comprendere pienamente, e infatti quando penso di averlo finalmente domato, Nietzsche non perde occasione per ricordarmi che il coltello dalla parte del manico lo impugna ancora lui.
Quella dell' "eterno ritorno" è un'elaborazione filosofica gigantesca, e lo è ancor di più se la consideriamo quale parte di un disegno più ampio e complesso. Giocando su un terreno minato, Nietzsche rifiuta l'eventualità che la realtà possa essere valutabile dall'esterno, poiché esclude categoricamente l'esistenza di criteri che possano consentire una simile operazione; a conti fatti dunque, qualunque giudizio morale su di essa non può avere alcun fondamento in quanto la morale altro non è, a suo giudizio, se non una mera invenzione umana. Chi osserva la realtà intravedendovi un finalismo inoltre, commette un errore clamoroso, in quanto essa è e sarà sempre senza scopo, e Nietzsche, troppo scaltro per lasciarsi sfuggire l'occasione, colpisce a morte gli ideali ad essa correlati, ritenendoli subdole creazioni di individui che per mezzo di questi si illudono di poter effettivamente vivere la propria vita. La realtà nel suo divenire non ha un senso compiuto, non è un disegno in cui la causa e l'effetto si concatenano tra loro in un indissolubile legame, ma soltanto un insieme di eventi non classificabili gerarchicamente, poiché tutti validi alla stessa maniera. In altri termini, tutti gli eventi, proprio in virtù della loro inclassificabilità, mantengono secondo Nietzsche una sorta di innata verginità che li rende appunto privi di determinatezza e senso compiuto. È ciò che Nietzsche, con una scelta tatticamente perfetta, chiama "innocenza del divenire". 
Nietzsche non offre molta scelta all'individuo, il cui unico atteggiamento possibile di fronte alla realtà è la sopportazione; ma il verbo "sopportare", in questo caso, non contiene intrinsecamente concetti quali la passiva rassegnazione e l'annullamento di sé, quanto piuttosto serve ad indicare una vera e propria reazione attiva alla realtà, attraverso la netta imposizione dei propri istinti vitali, accompagnata dal conseguente rifiuto delle tanto numerose quanto futili costruzioni illusorie. L'esito delle nostre azioni, qualunque esso sia, va accettato senza condizioni, rifiutando con veemenza, inutile dirlo, di attribuirne i meriti alla divinità o ai suoi surrogati. Pur responsabilizzandolo, Nietzsche non è certo indulgente con il genere umano, ed infatti dinanzi alla realtà l'individuo è solo, isolato nella propria condizione. 
Filosoficamente, è risaputo, Nietzsche è un pensatore dalle concezioni piuttosto elitarie, ed infatti riconosce a pochi eletti la facoltà accettare l' "innocenza del divenire", soltanto a coloro che sono disposti ad accettare senza condizioni la ripetizione degli eventi in eterno. Esprimere un dubbio rispetto a tale accettazione tradisce l'insoddisfazione di un individuo che non ha vissuto pienamente la propria esistenza, denota una fiducia nel futuro che però, in quanto tale, implica speranza, quella che secondo Nietzsche è la nemica giurata della vita. Chi spera infatti, non vive qui e ora, ma rinvia nell'illusoria attesa di tempi e condizioni migliori. La speranza va violentemente abbattuta, vivendo la propria vita desiderando riviverla in eterno, auspicando che si ripeta nel tempo, esattamente così com'è già stata. È l' "eterno ritorno dell'uguale", che mostra quanto Nietzsche, come di consueto filosoficamente violento, scavalcando con un balzo deciso la concezione lineare del tempo, scelga di imporre una concezione circolare che abbia nella perpetua ripetizione la propria ultima essenza. Non è semplice comprendere appieno la portata di una simile costruzione filosofica in quanto, come detto, essa può avere compiutezza soltanto se inserita entro quel tortuosissimo dedalo che è il pensiero nietzscheano. Qui sarebbe doveroso aprire una parentesi, che aprirei volentieri se non fossi assolutamente certo di correre il serio rischio di non chiuderla se non in tempi lunghissimi. Ci troviamo infatti in presenza di una teorizzazione enormemente complessa e straordinariamente affascinante: pensare al "ritorno dell'uguale" è una tappa necessaria nel cammino che conduce al ben noto "oltreuomo", un cammino che ancora oggi pare purtroppo una meravigliosa utopia.

Matteo Andriola

martedì 2 dicembre 2014

Nuove prospettive leopardiane

Quando si decide di avventurarsi nel complesso e apparentemente inestricabile universo leopardiano, oltre ad attingere al residuo coraggio intellettuale di cui si dispone, si deve obbligatoriamente accettare la condizione di doversi confrontare con l'ostico e al contempo fascinoso concetto di "Pessimismo". Il termine, benché criticamente corretto e diffusamente accettato, è però senz'altro soggetto alla possibilità di una facile travisazione, al rischio cioè di non essere percepito per ciò che, rapportato a Leopardi, effettivamente significa. Se ci concentrassimo esclusivamente sul significato intrinseco e decontestualizzato del termine, converremmo sul fatto che esso venga correntemente utilizzato per indicare la tendenza a ritenere elevata la probabilità che gli eventi futuri siano destinati ad una conclusione negativa. Da qualunque angolazione la si osservi però, una simile interpretazione, pur scolasticamente rigida e rigorosa, non può che risultare superficiale e dunque filosoficamente inadatta ai fini di un'adeguata valutazione del pensiero del recanatese; se così fosse, infatti, le sue teorizzazioni si ridurrebbero banalmente ad una pura e semplice tendenza al negativo. Fossilizzarsi su tale lettura però, non sarebbe soltanto riduttivo, sarebbe clamorosamente sbagliato, e non ci consentirebbe una corretta e lucida valutazione della filosofia leopardiana. Per scavalcare l'idea, sarebbe in realtà sufficiente ricordare che mai Leopardi, filosofo prim'ancora che poeta, ricorse al termine "pessimismo" in riferimento al proprio pensiero, né del resto ciò sarebbe stato possibile. Ed il punto focale di una dissertazione intorno all'opportunità dell'utilizzo di tale termine in riferimento alle straordinarie elucubrazioni di Leopardi, consiste proprio nello stabilire anzitutto cosa lui pensasse del proprio pensiero; del resto, sarebbe ottuso ritenere che la concezione che egli stesso possedeva del proprio intelletto debba piegarsi alle esigenze della critica anziché viceversa. Delle proprie costruzioni filosofiche egli non avrebbe neppure lontanamente potuto concepire la definizione di "pessimismo", in quanto ciò sarebbe equivalso ad accettarne un'intrinseca soggettività, peraltro condizionata e limitante se consideriamo la costante pretesa di universalità del pensiero stesso. Così come lo concepiamo correntemente, il concetto indica fondamentalmente la convinzione di un'ipotetica posteriorità negativa, che mal si sposa con un pensiero assolutamente sentenziante come quello di Leopardi che, dal canto suo, sentenzia. Sentenzia sempre. A ben guardare, il suo pensiero si sorregge per certi versi proprio in virtù della stessa costante ricerca di universalità, ed è da escludere che egli potesse avere percezione di se stesso come pessimista poiché, contrariamente a quanto si possa pensare, fin da giovane non aveva esitato a mostrare una piena consapevolezza della grandezza del proprio ingegno. Pur provandoci, non sono mai riuscito a immedesimarmi in Leopardi, tuttavia lo conosco a sufficienza per sapere quanto pretendesse da se stesso, e se è vero che l'aspettativa tradisce consapevolezza, allora non possiamo negare di trovarci di fronte ad uno degli individui più consapevoli di cui si possa avere memoria.
I Canti sono sublimi, ma Leopardi è più grande nella prosa che nei versi, e di fronte alla straordinaria lungimiranza delle Operette Morali non posso fare a meno di chinare la testa, e chiunque sia dotato di buonsenso dovrebbe fare altrettanto. Quest'opera non finirà mai di sorprendermi, ma ciò che ricavo dal suo studio è la netta convinzione che Leopardi sia definibile in molti modi, ma sicuramente non come pessimista nell'accezione corrente del termine. Se è vero che per lui il passato costituiva uno strumento imprescindibile per la comprensione del proprio presente, un termine di paragone impietoso per giudicare la società umana, è altrettanto vero che ogni sua valutazione, per quanto proiettata verso il futuro, dovesse ai suoi occhi apparire come un lucido e concretissimo "Realismo". Non va infatti dimenticato che Leopardi fu un osservatore del presente, del suo presente, straordinariamente attento e acuto e quindi, ogni accusa di "tendere al negativo" come naturale inclinazione di spirito, non potrebbe che sminuire semplicisticamente quella valutazione critica di una contemporaneità, secondo lui inesorabilmente destinata a involvere in maniera razionale e quasi matematica. Il presente e il futuro dovevano apparire agli occhi di Leopardi in strettissimo contatto, quasi in un rapporto di causa-effetto ineludibile e impossibile da superare. Lo sguardo che Leopardi volge al presente di una società a lui contemporanea, ma paradossalmente da lui separata da una distanza incolmabile ( e il caos intellettuale dello Zibaldone ce lo dimostra inequivocabilmente ), è lucidamente scisso da un'esperienza di vita che, al contrario, tendenzialmente dovrebbe influenzare anche il più attento osservatore. In altri termini, sebbene sia innegabile che l'esperienza condizioni l'individuo, in Leopardi il dramma umano concorre a plasmare il suo "modus cogitandi", ma non il suo punto di vista; egli infatti, pur elaborando filosoficamente in virtù dell'esperienza, acquisendo peraltro una capacità di analisi assolutamente fuori norma, non risulta mai e poi mai condizionato nel pensiero giudicante dal proprio vissuto; l'esperienza conferisce sensibilità e illimitatezza all'ingegno di Leopardi, senza che esso però subisca quell'influenza che normalmente, a causa di uno o più contraccolpi psicologici, condurrebbe a quella già citata tendenza al negativo che al recanatese non appartiene, né apparterrà mai. Si assiste dunque a una scissione tra ciò che Leopardi è e ciò che Leopardi pensa, tra un "io corporeo" è un "io pensante" che, proprio in virtù di tale dualismo, conferisce di diritto pretesa di onniscienza alle teorizzazioni leopardiane. L'onniscienza in questione, però, si configura qui come una reale e concreta capacità di elevarsi sulla realtà e giudicarla, proprio in virtù della scissione, da una posizione del tutto privilegiata.
Come accennato, l'esperienza in Leopardi interviene immediatamente sulla sua capacità di erigere costruzioni mentali, ma non su quello che effettivamente è il suo pensiero. Se una scissione è una divisione, allora Leopardi risulta da subito diviso da una "alterità" e del resto, vivendo una giovinezza dedita allo studio "matto e disperatissimo", a causa di un vissuto castrante e limitante, si divide fin da subito da quella realtà che lui, soltanto più tardi, proprio in virtù di questa iniziale divisione da essa, riuscirà a giudicare con maniacale meticolosità e lucidissima imparzialità. Le pareti della biblioteca tanto maniacalmente allestita dal mediocre Monaldo, i limitanti confini del "carcere recanatese", scavano un primo profondissimo solco tra il filosofo e tutto ciò che è altro, e i fratelli, oltre ai genitori, divengono i suoi unici interlocutori, i quali però, vivendo entro il medesimo angusto contesto, non possono che risultare uno sbiadito riflesso di ciò che egli stesso è e percepisce di essere. Essi infatti non possono né mai potranno porsi come "alterità", semmai soltanto come comparse sgambettanti all'interno di un palcoscenico che in quel momento è anche e soprattutto quello di Leopardi. La biblioteca nella quale trascorre interminabili giornate di studio diviene per lui, quasi paradossalmente, il luogo deputato all'evasione intellettuale, il primo microcosmo nel quale rifugiarsi entro una solitudine che, di fatto, diverrà presto un elemento imprescindibile nella sua ricerca di universalità.
Tale fittizio universo costituisce, di fatto, la prima scissione tra Leopardi e ciò che pare adeguato definire "altro da lui", ed è peraltro una scissione che non ho mai faticato a ritenere consapevole. Che sia consapevole, anche se non volontaria infatti, lo si evince piuttosto nitidamente dallo smodato zelo con cui, anima e corpo, si dedica ad uno studio che, per quanto vivamente caldeggiato, non può dirsi effettivamente imposto, poiché, se così fosse, risulterebbe inspiegabile quell'onnivoro desiderio di sapere che caratterizzerà sempre il genio recanatese, e che lo porterà a profondere uno sforzo fisico oltre che intellettuale sulle ben note "sudate carte"; al contempo però, tale inusitata bramosia, lo renderà consapevole di una diversità di pensiero che quindi, a conti fatti, risulta vera e propria concausa della scissione in questione. La frattura fra Leopardi e tutto ciò che, a tutti gli effetti, è un "non io", non è da intendersi ingenuamente però, si badi bene, come una frattura fra lui, rigidamente ateo, e la Natura onnipotente; quest'ultima infatti, campo di ricerca privilegiato di tutte le ricerche leopardiane, severa interlocutrice dell'islandese delle Operette, è qui ancora lontana dal configurarsi come oggetto d'analisi. Inizialmente infatti, questa "alterità" esterna a Leopardi è semplicemente qualcosa d'altro, qualcosa che si colloca palesemente al di fuori, e che si oppone ad un "io" consapevole in un rigoroso sistema dialettico in cui "io" e "non io" si oppongono, portando il primo ad esclude il secondo nello stesso istante in cui lo contempla. Leopardi, la cui enormità non è ancora sta del tutto compresa, non considera la realtà a lui esterna come un elemento partecipante, ma al contrario, soltanto come un elemento "al di fuori" che, proprio in virtù di tale estraneità con l'io pensante, ne afferma la solidissima consistenza. Va però puntualizzato che il processo mentale in questione si realizza non tanto come opposizione della "alterità", quanto come opposizione alla "alterità". In altri termini, non è il "non io" ad opporsi al già menzionato "io", quanto piuttosto il contrario. Leopardi infatti scinde se stesso percependosi come diverso, fors'anche come escluso, in quanto tale diversità diviene il primo elemento attraverso cui egli riesce ad affermare se stesso in una realtà nella quale, altrimenti, sarebbe impossibilitato ad imporre la propria essenza. La presa di coscienza di una diversità apre in Leopardi un fondamentale squarcio su quello che è il suo reale ed effettivo "io"; egli infatti non è ne sarà mai "parte di", ma sempre è soltanto "sustanza" di se stesso.

Matteo Andriola