tag:blogger.com,1999:blog-82492106762760897882024-03-19T12:48:38.802+00:00Il blog di MATTEO ANDRIOLA, filosofo e libero pensatore.Il blog di MATTEO ANDRIOLA, filosofo e libero pensatore.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.comBlogger33125tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-78641518032555055442016-11-11T11:30:00.002+00:002016-11-11T11:30:19.261+00:00Che Paese, l'America<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://hslda.files.wordpress.com/2015/08/donald-trump-candidates-on-common-core-2-andrew-mullins-hslda-blog.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="213" src="https://hslda.files.wordpress.com/2015/08/donald-trump-candidates-on-common-core-2-andrew-mullins-hslda-blog.jpg" width="320" /></a></div>
Secondo un noto proverbio americano, il voto dell'Ohio corrisponde al voto della nazione, e infatti anche stavolta la tradizione è stata rispettata. Saggezza popolare a parte però, è innegabile che l'elezione di Donald Trump abbia sconvolto non poco un'opinione pubblica ancora poco propensa ad accettare l'esito di queste elezioni, anche se a bocce ferme il risultato appare in realtà meno clamoroso di quanto si voglia far credere. Al netto delle posizioni xenofobe e delle dichiarazioni sessiste, il magnate ha demolito con la retorica populista un'avversaria che della retorica e del populismo ha sempre fatto il proprio cavallo di battaglia; certamente il populismo è un'arma elettorale molto efficace a qualunque latitudine, e tutti coloro che si candidano ad occupare una poltrona sono sempre ben contenti di distribuirne a piene mani e senza limitazione. Il fallimento dei democratici è però il fallimento di un'idea che in questa società oramai fatica a reggersi in piedi, un'idea per cui la politica diventa un mestiere molto ben retribuito a prescindere dai risultati concretamente ottenuti; ma la debacle di Hillary Clinton coincide senza dubbio ( sarebbe stupido negarlo ) col fallimento della presidenza Obama, costruita attorno a simboli ideologici, grandi aspettative e succulente promesse mai mantenute.</div>
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Gli Stati Uniti in fin dei conti sono un Paese profondamente conservatore, in cui le pistole sono diffuse quanto i portachiavi e dove la pena capitale è da molti ritenuta uno strumento di giustizia legittimo e civile, una nazione nella quale per quarantadue volte ( prima di questa ) il presidente eletto è stato un maschio bianco. Hillary dunque, al contrario di quanti potessero credere, partiva ad handicap, ma se molti operai le hanno preferito un miliardario, evidentemente il suo programma avrebbe dovuto essere decisamente più convincente e accattivante per sperare di invertire una tendenza estremamente radicata. La posizione assunta in seguito allo scandalo che ai tempi coinvolse il marito poteva fare il suo gioco in un Paese troppo spesso contraddittoriamente bacchettone come l'America, ma se escludiamo l'impatto emotivo esercitato dalla Clinton, le proposte democratiche sono risultate troppo garantiste e inconsistenti per far presa su una popolazione evidentemente esasperata da lacerazioni sociali che ormai hanno raggiunto il parossismo. Non è difficile rendersi conto di come Trump abbia cavalcato un'onda certamente mai così propizia per chi come lui, in tempi diversi non avrebbe neppure mai lontanamente potuto pensare di candidarsi. Il miliardario repubblicano ha saputo toccare quelle corde che gli americani speravano venissero toccate, a prescindere da quello che si rivelerà l'effettivo mantenimento delle promesse; promettendo occupazione, lotta all'immigrazione clandestina e sicurezza, Trump ha probabilmente venduto un'illusione, ma Hillary nel frattempo è riuscita a vendere solamente la solita stucchevole retorica buonista. Trump ha vinto perchè lei ha perso, Trump è presidente perchè gli americani evidentemente credono che la malattia sia più tollerabile degli effetti collaterali di quella che troppo frettolosamente è stata spacciata per una miracolosa medicina. Chiamato a giocare al gioco della torre, il popolo "a stelle e strisce" ha scelto di lasciar cadere Hillary, preferendo scommettere sui proclami aggressivi di un magnate gonfio di dollari e "politicamente scorretto", piuttosto che accettare una maschera della virtù lungamente tollerata e oramai fin troppo ben conosciuta. Il tempo risponderà a molti interrogativi, ma l'impressione è che la montagna sia destinata a partorire un piccolo topo.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-58899170519982549842016-07-19T09:12:00.000+00:002016-07-19T09:12:10.261+00:00Non un golpe, ma una farsa<div style="text-align: justify;">
Che la Turchia fosse una polveriera era cosa nota, ma paradossalmente il tentato golpe ( anche se di questo non si è certo trattato ) mostra quanto quella realtà, nell'immaginario collettivo apparentemente così lontana culturalmente, sia in realtà poco dissimile da quella che si respira in molti paesi occidentali. Senza ipocrisie di sorta, è giusto riconoscere che tutti inizialmente, convinti che si trattasse effettivamente di un golpe e quasi affascinati dall'improbabile eventualità di un viandante del cielo che elemosinava asilo politico, abbiamo creduto che il grande architetto di questo tentativo sovversivo si trovasse comodo e pacifico a Mosca. Tutto assolutamente plausibile se si considera che Putin ha da tempo, per motivi peraltro mai taciuti, il dente avvelenato contro Erdogan, reo soprattutto di aver assunto una posizione decisamente ambigua nei confronti del terrorismo islamico. Le modalità, la durata e il fallimento del presunto golpe però, hanno rivelato in tempi brevissimi la verità, ossia hanno dimostrato che di golpe non si trattava affatto e che Putin, per grande fortuna del presidente turco, proprio nulla in tal senso aveva pianificato. I tempi del resto sono cambiati, e nella società attuale i rudimentali colpi di Stato di stampo sudamericano non sarebbero più neppure lontanamente ipotizzabili. Inoltre, non va dimenticato che Ankara, per dimensione e popolazione, non è propriamente il piccolo villaggio di Stepancikovo raccontato Dostoevskij e dunque, anche fingendo di credere che si sia trattato di una reale sovversione, non esiste sforzo di immaginazione in grado di farmi accettare l'idea che si sia potuto ristabilire l'ordine in un tempo così breve e in maniera tutto sommato indolore. Che Erdogan, nemico giurato della democrazia ( nonché vergognosamente negazionista circa il genocidio degli armeni ) si sia appellato proprio ad essa per riportare la situazione alla normalità è poi apparso subito contraddittorio, e la gestione del presunto problema ha aperto in tempi brevissimi uno squarcio su quella che di fatto era ed è la realtà dei fatti, ossia quella di una farsa finalizzata a consolidare agli occhi del cittadino medio la figura di un leader dal curriculum fin troppo eloquente in negativo. Erdogan, riportando l'ordine, in un sol colpo ha fornito una prova di forza e offerto una dimostrazione, evidentemente fasulla, di quanto egli sia un acceso sostenitore di quella democrazia che in realtà il suo governo certamente non incarna, a meno che con tale termine non si indichi qualcosa di diverso da ciò che con lo stesso gli antichi Greci intendevano. La posizione dei cosiddetti potenti della Terra, sempre molto attenti a non varcare i confini del "politicamente corretto", non è sorprendente purtroppo, ma mostra ancora una volta quanto la cricca ( Obama, Merkel e Hollande in testa ) sia più unita che mai nel gestire un equilibrio fondato scientificamente sul disordine; tutti cauti a pseudo golpe in corso, tutti sostenitori di un governo democraticamente eletto a farsa conclusa.</div>
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La Storia non mente, e qualunque colpo di Stato effettivamente tale si vada a ricercare entro i suoi meandri rivelerà caratteristiche del tutto diverse rispetto a ciò che per alcune ore in Turchia è stato ritenuto tale. Ora Erdogan, dopo aver puntato il dito contro l'odiato Gulen, conscio del potere deterrente della violenza e della paura, con il benestare di tutti punirà in maniera esemplare coloro che lui ha deciso di sacrificare in nome di questa infame recita funzionale al suo progetto, "signori nessuno" destinati in tempi brevissimi al dimenticatoio. A bocce ferme non si può fare a meno di constatare come il piano di Erdogan sia purtroppo perfettamente riuscito, in un colpo solo ha "riempito la botte" e "ubriacato la moglie"; che i potenti sempre molto puntuali quando si tratta di sfilare a braccetto e con volto costernato in ipocriti cortei d'occasione, siano conniventi è il "segreto di Pulcinella", anche perchè la Turchia pesa molto dal punto di vista militare, è una risorsa enorme per la NATO, e ciò purtroppo vale molto più della vita di una manciata di innocenti strumentalizzati e funzionali a un disegno più grande di loro. Nulla di democratico sotto il sole.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-74886951463245973902016-05-27T06:00:00.000+00:002016-05-27T21:21:58.445+00:00Per uno studio su Giacomo Leopardi<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://oubliettemagazine.com/wp-content/uploads/2012/01/giacomo-leopardi-324.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://oubliettemagazine.com/wp-content/uploads/2012/01/giacomo-leopardi-324.jpg" /></a></div>
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I tentativi di ascrivere il pensiero di Giacomo Leopardi entro una determinata categoria filosofica risultano del tutto impossibili, un'impresa destinata a risolversi in completo e misero fallimento. Del resto, quale potrebbe essere la ragione per pensare soltanto di delimitare entro predeterminati confini un simile potenziale intellettuale, sapendo di trovarsi di fronte all'ingegno di quello che è indubbiamente uno dei maggiori e più completi pensatori che la Storia possa ricordare? Non può sorprendere che Giordani avesse intravisto uno smisurato talento in quel giovane certo al tempo ancora acerbo ma che, pur nella reclusione del "natio borgo selvaggio", iniziava a dar prova di una clamorosa conoscenza del mondo e soprattutto di una società che evidentemente comprendeva benissimo pur senza averla direttamente mai conosciuta. Soffermarsi su tale aspetto dell'analisi leopardiana è indubbiamente interessante e al contempo sorprendente, poiché uno sguardo attento può già notare negli scritti del giovane Leopardi una precocissima capacità di analisi di ciò che in effetti ancora non poteva conoscere, clamorosamente lucida e lungimirante al punto da risultare fin da subito talvolta addirittura profetica.</div>
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Senza lo <i>Zibaldone</i>, oggi non avremmo la fortuna di conoscere Giacomo Leopardi quanto effettivamente lo conosciamo, ma l'idea di questo diario, di questo "caos ordinato", pur ispirata dall'acuto consiglio del Vögel, deve aver attecchito immediatamente in un terreno che evidentemente doveva risultare fertile al punto da risolversi in un'enorme esternazione di ciò che il suo autore provava, e in definitiva di ciò che egli intrinsecamente era. Chi ritenesse le quasi cinquemila pagine di questo monumentale scritto alla stregua di una mera raccolta di pensieri "in libertà" commetterebbe un errore madornale, poiché nelle trame di un apparentemente caotico groviglio intellettuale si riscontra un'innegabile coerenza in grado di travalicare l'ordine strettamente cronologico di eventi e sensazioni, capace di configurarsi come vera e propria rappresentazione di un'interiorità desiderosa di esondare da quegli argini che la cattività familiare gli aveva forzatamente imposto e che la favola puerile <i>L'Ucello</i>, pur filtrata dai naturali limiti di una giovinezza non solamente anagrafica ma anche è soprattutto letteraria, inequivocabilmente tradiva. Il giovane Leopardi è proiettato all'infinito pur nella certezza di doversi continuamente confrontare con il limite invalicabile della crudele realtà, e non si rischia certo di cadere in contraddizione sostenendo ciò, in quanto la potenzialità del giovane è fin da subito destinata a fare i conti con una realtà che in tempi brevissimi gli presenta un dazio molto salato da pagare, e di conseguenza ciò che ci si ostina a considerare pessimismo è semmai un eccesso di realismo, ciò che oggi molti definiscono in maniera troppo sbrigativa "cinismo". La vicenda umana di Giacomo Leopardi non può essere sottovalutata, né si può azzardare un'analisi di ciò che il suo intelletto ci ha lasciato senza contemplare gli aspetti strettamente umani che soprattutto negli anni giovanili hanno scavato un solco profondissimo tra Leopardi e tutto ciò che si collocava al di fuori di lui. I <i>Puerili</i> in questo senso costituiscono almeno in parte un grido d'aiuto che però a Recanati nessuno poteva né voleva ascoltare, e analizzando la sconfinata letteratura leopardiana si dovrà convenire sul fatto che in ogni singola riga vi sia sempre e comunque l'autore al centro di un disegno ( qualunque esso sia ) in continua evoluzione e in perenne movimento. L'interiorità di Leopardi dunque, intimo palcoscenico in cui la Natura ha sconfitto senza difficoltà la divinità, è la pietra angolare di un percorso che si sviluppa seguendo linee direttrici inscindibili e indivisibili: quella letteraria e quella umana, salde in un rapporto simbiotico in cui la seconda sostiene la prima quasi fosse il suo scheletro portante. Non è ardito considerare dunque le opere della maturità ( soprattutto quelle in prosa ), prime fra tutte le <i>Operette Morali</i>, figlie di una gestazione lunga e complessa, iniziata in un periodo in cui Leopardi era soltanto un giovane di Recanati, colui che il Giordani chiamava affettuosamente "Contino".</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-91160457135748542572016-02-08T09:21:00.001+00:002016-02-10T00:56:50.126+00:00Cosa resta del contemporaneo?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTqcKJxbbhJYxkQAKpkWdopKY8pu03A0_nzj6l_E9t294u4fF2-EJnEpxWnNCZTdjb-2SQ-cq-XNA6fvDEH9Cajf84s-kXso0nlHCFTyt6NfkEE5vXg6cNxoCQioASPbxP0UC65MfeLiBu/s1600/Bosch_inferno.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="238" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTqcKJxbbhJYxkQAKpkWdopKY8pu03A0_nzj6l_E9t294u4fF2-EJnEpxWnNCZTdjb-2SQ-cq-XNA6fvDEH9Cajf84s-kXso0nlHCFTyt6NfkEE5vXg6cNxoCQioASPbxP0UC65MfeLiBu/s1600/Bosch_inferno.jpg" width="320" /></a></div>
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Epoche come quella che stiamo attraversando possiedono il non trascurabile vantaggio di prestarsi sempre e comunque ad analisi critiche, anche e soprattutto in virtù della tanto evidente quanto preoccupante latitanza di quella che molti chiamano etica, dispersa nella melma nichilista che Leopardi e Nietzsche, in tempi più o meno sospetti, avevano ampiamente previsto con lucida lungimiranza. Immolando la morale sull'altare dell'egoismo, si è colpevolmente accettato un collettivo tuffo nel precipizio del non ritorno, anteponendo sempre e comunque l'interesse del singolo a quello della società. Che la si osservi con l'occhio dell'ateo o meno, la società appare comunque senza un dio, assente più o meno giustificato, a seconda del punto dal quale ci si sforzi inutilmente di intravederlo. I conflitti religiosi tra monoteismi esagitati e belligeranti non sono nuovi nella loro essenza pretestuosa, e l'inconsistenza politica di potenze ( o presunte tali ) conniventi fondate sull'ipocrisia è quanto mai allarmante poiché conficca con decisione i chiodi nella bara di una speranza già da tempo morta e sepolta; alla faccia di Kant e della sua pace perpetua. L'individuo però non ha attenuanti, e certo non è meno colpevole accettando ovunque una spersonalizzazione metodica e costante capace di annichilire l'essenza stessa di ciò che ogni singolo e ogni società dovrebbero essere; gli ideali ( cosa poi saranno mai questi ideali? ), i cari vecchi ideali ai quali in periodi di crisi tutti si sentono in dovere di appellarsi, non vengono in ultima istanza mai neppure sfiorati. Sono scomparsi, spariti, decapitati dalla roncola di una contemporaneità che vende un "nulla" spacciandolo per un "tutto", che mercifica qualunque cosa, che toglie la speranza sostenendo ipocritamente di distribuirla. Ciò che per le bocche dei benpensanti prezzolati dovrebbe nobilitare l'uomo, in realtà è divenuto ciò che lo priva dell'unica cosa effettivamente in grado di nobilitarlo, ossia la libertà.</div>
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George Orwell fu profetico ipotizzando ( in questo caso in tempi evidentemente sospetti ) una società controllata dall'occhio del padrone, e mai come oggi <i>1984 </i>dovrebbe diventare un testo obbligatorio per tutti, da leggere, rileggere e conservare gelosamente. La contemporaneità, questa ignobile contemporaneità fondata sul compromesso, ha avuto partita facile a insinuarsi subdolamente e proliferare in una società che si è imperdonabilmente negata sia la cultura sia quella bellezza che secondo il principe Myskin avrebbe presto o tardi salvato il mondo. Rileggendo <i>L'idiota </i>sono più che mai convinto che il protagonista del romanzo, evidentemente pervaso da immotivato ottimismo, abbia commesso un errore macroscopico ricorrendo al futuro anziché al condizionale; la bellezza semmai "salverebbe" il mondo, a condizione che questo si lasciasse però salvare. È fin troppo evidente però che il mondo, popolato da perversi demagoghi abilissimi a rovesciare la gerarchia delle priorità in nome di personali interessi, abbia scelto una lenta e dolorosa agonia, preferendola a una salvezza che forse sarebbe troppo responsabilizzante e faticosa da supportare. In tema di diritti assistiamo a sconcertanti scenari in cui la menzogna è divenuto lo strumento più utilizzato, e in cui il "politicamente corretto" assurge a nauseante e ipocrita consuetudine: all'occorrenza, tutti uniti e solidali in corteo, ma immediatamente pronti a divorarsi l'un l'altro il giorno successivo. Non esiste accettazione dell'altro, ma spesso neppure volontà di ottenere accettazione, non esiste realtà che non contempli la violenza come strumento risolutivo, non esiste società che non si fondi contemporaneamente sull'incoerenza e la contraddizione. Non potendo certamente scommettere su un presente indiscutibilmente e inesorabilmente nichilista, la fiducia nel futuro appare l'unica possibilità, anche se purtroppo ritengo sia obiettivamente mal riposta. Scegliere di sguazzare passivamente e arrendevolmente in questa contemporaneità è colpevole e intellettualmente abietto, ma al contempo è certamente la scelta maggiormente inflazionata, una scelta direttamente responsabile di un declino oramai inevitabile. Nessuno farà nulla per cambiare questa società, i gesti eroici sono materia di un'epica cronologicamente e concettualmente troppo lontana. Ci limiteremo, consapevolmente inconsapevoli, a osservare senza muovere un dito perchè, come sintetizzato dal sempre illuminante Guido Ceronetti: "Siamo come quelli delle Termopili. Sappiamo che i persiani passeranno ma noi restiamo lì".</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-10571161750486738962015-11-19T21:53:00.000+00:002015-11-19T21:53:35.132+00:00Kant e quelle tre prove che non valgono nulla<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8a/Kant_Kaliningrad.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8a/Kant_Kaliningrad.jpg" width="211" /></a></div>
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Filosoficamente parlando, salire sul carro di Kant è sempre conveniente perchè si può star certi di arrivare a destinazione avendo guadagnato molto più di quanto si possedeva in partenza. Non mi stancherò mai di esaltare l'intelletto straordinario di Immanuel Kant, e al contempo non posso fare a meno di sorprendermi sempre di fronte alla vastità e alla completezza del suo pensiero. Il dibattito circa l'esistenza della divinità è da sempre pane quotidiano per la filosofia, e nel corso della storia ha spesso e volentieri animato confronti accesi ai quali è ancora oggi difficoltoso se non impossibile sottrarsi. Proprio l'illuminismo aveva minato le fondamenta delle teorizzazioni religiose e Kant, che dell'illuminismo è innegabilmente figlio, decise di confrontarsi col problema, come del resto molti suoi contemporanei. Quella dell'esistenza di Dio era questione piuttosto spinosa e appunto dibattuta, e fondamentalmente si reggeva su tre fondamentali e consolidate dimostrazioni filosofiche di esistenza che Kant, pur non intendendo escludere la fede, decise smontare meticolosamente nella sezione della <i>Critica della ragion pura</i> denominata <i>Dialettica trascendentale</i>, sostenendo appunto non tanto l'inesistenza di Dio, quanto l'assoluta impossibilità di provarne scientificamente l'esistenza. In questo senso, il percorso kantiano prende le mosse dalla cosiddetta "prova ontologica" ( teorizzata per la prima volta, come noto, da Anselmo d'Aosta ) che secondo il filosofo risulta limitata in virtù del suo essere erroneamente aprioristica. Infatti, secondo tale dimostrazione, la sola definizione di Dio quale entità perfetta ne implicherebbe l'esistenza senza possibilità di smentita poiché, se mancasse dell'esistenza, all'entità in questione verrebbe meno quella perfezione che invece, a priori, le deve invece essere intrinseca. A parere di Kant però, l'errore fondamentale di tale prova risiede essenzialmente nell'assoluta impossibilità di estrapolare una realtà da un semplice concetto nudo e crudo, e per avvalorare la propria posizione ricorre al celeberrimo esempio monetario, sostenendo che l'acquisizione del concetto di cento talleri, non sia sufficiente per renderli reali e sonanti nelle tasche dei pantaloni di colui che riesce a concepirli concettualmente. La seconda prova con la quale Kant si confronta è quella "cosmologica", che dal canto suo procede in senso inverso ( ossia a posteriori ), sostenendo che la divinità sia necessaria poiché logicamente pretesa dalla contingenza del mondo. Anche questa teorizzazione però, secondo Kant presenta un nervo scoperto facilmente individuabile, consistente specificatamente nel fatto che dimostrare la necessità di un ente non necessariamente ne implica l'effettiva l'esistenza; in altri termini, è possibile teorizzare la necessità di un ente, ma la teorizzazione di fatto non contribuisce in alcun modo a renderlo effettivamente esistente. La terza prova che Kant demolisce, quella "fisico - teleologica", è di fatto la più antica e considerata nella storia della Filosofia, e poggia sulla presunta necessità di un'esistenza ordinatrice, intrinseca al creato. Kant confuta la tesi secondo cui il tutto necessiterebbe di una causa infinita e assolutamente perfetta, sostenendo che l'ordine del tutto sia "relativamente" perfetto, negando dunque che le sue regole possano valere universalmente, in tutti i casi e senza condizioni. Ipotizzare la perfezione assoluta di un'entità creatrice, significa balzare in un sol colpo dal finito della natura all'infinito di Dio. E ciò non è possibile.</div>
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L'approccio di Kant al problema generato dalle tre dimostrazioni è in linea con il suo consueto modus operandi filosofico, e se da un lato il taglio empirico dato all'analisi della problematica pare stridere con una questione che dovrebbe a rigor di logica essere affrontata in maniera differente, dall'altro dimostra la straordinaria unicità di un pensatore in grado di sconfinare a piacimento in qualunque territorio filosofico. Chapeau.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-38462235513599923582015-11-15T09:39:00.000+00:002015-11-16T15:49:51.518+00:00Riflessioni sulla tragedia parigina<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBWAFdNQZv037bD60rHA0ztpqHiU3YUusp5OtU_qnoSSNM2AKQ6Q7VaFigwDmFXUWst5EpwmZaYMOd5NDpJZDl8hY9QIOowj-K2cvyftDv8bwIYywQ_gbP0AihCsx31-BnL0kzd30UptVq/s1600/jean_jullien_eiffel_tower.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBWAFdNQZv037bD60rHA0ztpqHiU3YUusp5OtU_qnoSSNM2AKQ6Q7VaFigwDmFXUWst5EpwmZaYMOd5NDpJZDl8hY9QIOowj-K2cvyftDv8bwIYywQ_gbP0AihCsx31-BnL0kzd30UptVq/s1600/jean_jullien_eiffel_tower.jpg" /></a></div>
Coloro che possono vantarsi di possedere buona memoria storica, sicuramente non perderanno tempo per appellarsi alle inaudite violenze di crociati, conquistadores e inquisitori, rispolverando un termine di paragone sempre valido quando si tratta di confrontarsi con aberrazioni perpetrate in nome di un dio, simili a quella accaduta in una Parigi ancora scossa dall'attentato alla sede del periodico <i>Charlie Hebdo</i>. La reminescenza storica è sempre una valida alleata quando si tratta di cercare di comprendere il presente, in questo Machiavelli aveva certamente ragione, ma in casi come questo non sarà in grado di fornire molti appigli per giustificare qualcosa che non potrà mai conoscere attenuanti né motivazioni valide, e del resto, lo sterminio di innocenti non punisce singoli colpevoli, ma nelle intenzioni colpisce soltanto i membri di un paese colpevole o presunto tale. Chiamare in causa una divinità prima del sacrificio ricorda gli epici scontri narrati da Omero, ma sotto le mura di Troia gli dei richiedevano la violenza poiché quella determinata società la contemplava come strumento necessario e comunque per certi versi anche rituale, e dunque collettivamente la accettava e tollerava. Il mondo moderno ha perduto la ritualità e il valore simbolico della violenza, di pari passo con la proliferazione delle religioni monoteiste nelle quali le divinità, dovendo in se stesse racchiudere tutte quelle qualità estremamente positive che la società desidererebbe ardentemente riconoscersi, si trovano ad escludere dalla propria essenza aspetti meno nobili, possibili di fatto solo ed esclusivamente col frazionamento della divinità stessa. Contrariamente a quanto si possa credere, non è necessario essere atei per sposare la tesi di Marx secondo cui la religione sarebbe l'oppio dei popoli, e la Storia, sempre generosa in fatto di esempi, ha confermato la validità del suo pensiero al riguardo, sancendone l'assoluta veridicità senza possibilità di smentita ed eccezione. Anche profondendo un immane sforzo, è difficile intravedere motivazioni strettamente religiose in una violenza che non ha vincitori né vinti, ma soltanto carnefici e vittime che, inneggiando ora al proprio dio, ora agli aleatori concetti di uguaglianza e giustizia, non fanno altro che perpetrare nel tempo una violenza sempre più gratuita e insensata che, al rovescio della medaglia, presenta il becero volto dell'intolleranza e dell'odio. Certamente non è difficoltoso comprendere come gli interessi in gioco siano di natura diversa da quanto in realtà si vorrebbe far credere e, paradossalmente, episodi simili lo dimostrano inequivocabilmente anziché smentirlo.</div>
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Culturalmente però, entrambe le fazioni ne escono con le ossa frantumate, poiché la cultura ( e con essa la capacità di analisi ), unico strumento realmente in grado di consentire all'umanità un salto qualitativo capace di eliminare quell'inaccettabile intolleranza che anima entrambi gli schieramenti che occupano le due opposte posizioni della barricata, viene purtroppo ogni giorno declassata come superflua e non necessaria. La pace perpetua sognata da Kant era ed è purtroppo destinata a rimanere un'utopia, ma la teorizzazione della stessa rimane un bene necessario per tentare almeno di incanalare la morale sociale sul giusto binario, comprendendo quanto la linea di demarcazione tra ciò che è giusto è ciò che è sbagliato debba spesso essere molto più netta di quanto invece non sia. La violenza è l'eclatante valvola di sfogo di un enorme problema socioculturale che oramai domina una società che ha eretto i palazzi del potere sulle fondamenta dell'odio e dell'intolleranza, subordinando inalienabili diritti quali la vita e la libertà intellettuale a interessi di natura certamente diversa. </div>
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L'epoca nichilista annunciata a gran voce da Nietzsche è in realtà appena iniziata, e come sostiene Vattimo, dopo averne preso atto è inevitabile conviverci, accettandolo come condizione ineluttabile della moderna esistenza umana; le manifestazioni e i proclami che seguiranno questa ingiustificabile tragedia non sono altro che il consueto corollario ad episodi di questo tipo, e certamente in breve tempo si attenueranno fino a dissolversi precipitando nell'oblio del dimenticatoio, in attesa di ricomparire puntualmente all'occorrenza.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-20804005186244713952015-10-16T18:52:00.001+00:002015-10-16T19:52:03.726+00:00Fichte e i tre principi<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3nraNXLQMe6M8FeMlag-E1xS7aL0IxbOX8TyB_yRNUFCVkGN8NwFkh2NGmhBSNT2eENPVzB8ec469Tp5cTzXczjGpok3Pq4bId_J_N0xekDKKclgbFMC8PQ_-HLKiQtTUXXdSPHhjSV9R/s1600/Johann+Gottlieb+Fichte.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3nraNXLQMe6M8FeMlag-E1xS7aL0IxbOX8TyB_yRNUFCVkGN8NwFkh2NGmhBSNT2eENPVzB8ec469Tp5cTzXczjGpok3Pq4bId_J_N0xekDKKclgbFMC8PQ_-HLKiQtTUXXdSPHhjSV9R/s1600/Johann+Gottlieb+Fichte.gif" width="266" /></a></div>
Pur non risultando affatto semplice stabilire se sia Fichte ad essere in debito con Kant o viceversa, si è costretti a riconoscere che Johann Gottlieb Fichte, straordinario esponente dell'idealismo tedesco, si sia audacemente assunto una responsabilità notevole decidendo di risolvere l'annosa questione filosofica del "noumeno" nella maniera più netta e drastica possibile, ovvero eliminando quella "cosa in sé" che gli appariva una scoria dogmatica pervasa di intollerabile indimostrabilità. In realtà, la sua scelta, ponderata e motivata, prende le mosse da un problema effettivamente reale, ossia dall'impossibilità di poter dimostrare l'esistenza prescindendo dalla coscienza. Fichte intravede nella coscienza un innegabile potenziale attivo, e ritiene che all'interno di essa si giochi la partita relativa all'esistenza della realtà; in altri termini, partendo dall'assunto che la realtà esista in quanto produzione della coscienza, quest'ultima, producendo attivamente la propria rappresentazione della realtà, si trova secondo Fichte ad agire attivamente su di essa, anziché subirla. Definendo la coscienza attiva con il termine "io", egli afferma che l'esistenza stessa della coscienza sia il presupposto indubitabile dal quale è assolutamente impossibile prescindere, e partendo da tale tesi stabilisce i principi logici su cui, a suo giudizio, si fonderebbe il sapere. Il primo caposaldo della logica fichtiana, espresso dal postulato "l'io pone se stesso", asserisce che se la coscienza non si affermasse, ponendosi cioè autonomamente come attività rappresentativa, sarebbe di fatto impossibilitata a rappresentare; non sarebbe infatti pensabile che una coscienza potesse rappresentare senza aver anticipatamente preso coscienza di sè. Ma c'è di più. Il secondo principio, espresso dal postulato "l'io pone un non-io", merita grande attenzione, poiché ciò che Fichte definisce "non-io" sta a indicare una qualunque realtà esterna all'io, ossia dunque esterna alla coscienza; porre un "non-io" è secondo il filosofo una conditio necessaria affinché l' "io" possa affermare anzitutto se stesso, ma se ciò è indiscutibilmente vero, ne consegue obbligatoriamente che le due attività debbano essere non soltanto inconsce ma anche e soprattutto unitamente contemporanee, poiché soltanto avendo al contempo coscienza di un qualcosa d'altro, l' "io" può da esso distinguersi affermandosi come autonoma entità. L'unità dei due momenti è del resto saldamente ancorata a fondamenta logiche in quanto, se vi fosse un rapporto di subordine, l' "io" sarebbe impossibilitato a porsi poiché, mancando un'alterità, verrebbe meno la sua possibilità di distinguersi e autoaffermarsi rispetto a tutto ciò che è appunto altro da lui; la concomitanza dei due momenti dunque, esclude ogni ipotesi di subalternità, riducendoli senza possibilità di smentita ad un unico e inscindibile momento dialettico. Presupponendo unità, i due momenti richiedono una logica conciliazione, che secondo Fichte scaturisce da un rapporto dialettico fondato sulla limitazione ( o negazione che dir si voglia ) reciproca. Per ricorrere all'esempio concreto, un "non-io" limita un "io" non in quanto suo opposto ( e ciò del resto sarebbe impossibile ), ma in virtù del suo essere altro; un albero non è la limitazione totale di un "io", ma soltanto una limitazione parziale, poiché "non è" l' "io" pur tuttavia non essendo neppure il suo opposto. Ed infatti, tale limitazione è possibile soltanto se ciò che ad essa è soggetto risulta divisibile in parti. Proprio tale divisibilità ( che di fatto corrisponde alla possibilità di essere frazionabile ) rende possibile l'opposizione tra "io" e "non-io", evitando un reciproco annullamento; se per assurdo infatti l' "io" opponesse a se stesso tutto il "non-io" creerebbe una dialettica fra opposti con conseguente annullamento delle due parti. Non esistendo nella realtà soggetto e oggetto assoluti, la limitazione può avvenire soltanto fra parti; inoltre, l'opposizione fra "io" e "non-io" non può che avvenire entro la coscienza finita poiché nella realtà ogni rappresentazione appartiene a un soggetto concreto e non certo assoluto. Molteplici realtà limitano ogni coscienza ( o se si preferisce, molteplici "non-io" limitano ogni "io" ) in quanto le si oppongono come qualcosa d'altro che, sebbene non sia, come detto, a lei opposto, le si contrappone parzialmente proprio in virtù del suo essere parte di un'entità divisibile ( appunto il "non-io" ). Ciò spiega il terzo principio della logica fichtiana, espresso dal postulato "L'io oppone nell'io a un io divisibile un non-io divisibile".</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-74470330140433411532015-09-03T11:36:00.000+00:002015-09-03T11:52:41.804+00:00Era un bambino con una maglietta rossa<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://media3.s-nbcnews.com/j/newscms/2015_36/1204391/150903-standards-inline-use-no-cover-no-social-migrants-baby-jpo-439a_2e31375a1f47211840b4548c6067a181.nbcnews-ux-2880-1000.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://media3.s-nbcnews.com/j/newscms/2015_36/1204391/150903-standards-inline-use-no-cover-no-social-migrants-baby-jpo-439a_2e31375a1f47211840b4548c6067a181.nbcnews-ux-2880-1000.jpg" height="157" width="320" /></a></div>
Neppure disponendo di cinismo in sovrabbondante misura sarebbe possibile rimanere insensibili di fronte alle drammatiche immagini che in questi giorni hanno consentito al mondo di apprendere l'esistenza della città turca di Bodrum; l'immagine di un bambino il cui corpo privo di vita viene restituito dalle onde quasi fosse il relitto di una nave, si è imposta con una violenza inaudita agli occhi di una società che ancora una volta non si è lasciata sfuggire l'occasione per mostrare la più assoluta mancanza di coscienza. Non può esistere posizione politica in situazioni simili, e di fronte a quella vita ingiustamente spezzata possono trovare spazio soltanto il dolore, la pietà e la rabbia per un innocente che, come la maggior parte dei suoi piccoli coetanei, in spiaggia si dovrebbe spensieratamente divertire con paletta e secchiello. Eppure, sebbene certamente la vicenda riesca a far breccia nella sensibilità di ogni essere umano, essa è una medaglia che al rovescio presenta la faccia di quell'ipocrisia che oramai ammorba senza distinzione una società che ha colpevolmente deciso di consegnarlesi senza neppure l'onore delle armi. Soltanto l'immagine della morte, sempre di sicuro impatto, riesce a far si che chi osserva da privilegiato la vicenda metta momentaneamente da parte l'umano rancore e il colore della propria fazione, decidendo di affacciarsi fugacemente alla finestra per gettare lo sguardo su un dramma di cui quella morte ingiustificabile è in definitiva solamente un abominevole emblema. La gestione di una situazione di tale drammaticità dovrebbe richiamare all'ordine coloro che, in un modo o nell'altro, avrebbero il dovere adoperarsi per tentare di risolvere un problema che invece si preferisce mantenere in vita in nome di interessi non meglio specificati; non sta a me indicare quale possa essere la possibile soluzione, non è il mio mestiere, eppure mi trovo costretto a constatare quanto le lacrime per quella vita prematuramente spezzata siano nella maggior parte dei casi figlie dell'impatto di un'istantanea, poiché se quotidiani e notiziari si fossero limitati a darne solamente la notizia, comunicando il decesso di quel povero bambino senza colpa, nessuno già se ne ricorderebbe, e l'eco della notizia non sarebbe diverso da quello provocato da una qualunque altra notizia. E infatti non serve certo una straordinaria capacità di analisi per rendersi conto della veridicità di tutto ciò, giacché ogni giorno vengono recuperati tra l'indifferenza generale cadaveri di persone che, partite alla ricerca della speranza, l'hanno perduta ancor prima di illudersi di poterla trovare.<br />
Dostoevskij aveva ragione nel ritenere la sofferenza l'origine della coscienza, ma temo che in casi come questo il dolore non abbia originato proprio nulla, semmai la reazione dell'uomo comune di fronte all'immagine di un piccolo corpo inerme con la testa rivolta alla sabbia, si riduce a una poco edificante partecipazione convenzionale, e unirsi idealmente in cordoglio convince l'individuo di possedere quella coscienza di cui invece troppo spesso dimostra di non disporre. Provo disgusto di fronte agli annunci di quegli ipocriti benpensanti che, balzando indignati sulla propria poltrona per una vicenda figlia della diseguaglianza sociale, si rifiutano di ammettere che l'etica abbia molte più responsabilità della politica, poiché non occorrerebbe neppure essere troppo lungimiranti per comprendere come la morte di innocenti sia soltanto la logica conseguenza di un problema come quello cui stiamo da tempo assistendo. L'interesse politico - economico getterà in tempi brevi nel dimenticatoio quella creatura, e la sua maglietta rossa diverrà al più l'immagine per un libro di Storia; senza un salto qualitativo culturale, la situazione non migliorerà di certo, e quella coscienza troppo frequentemente invocata a sproposito che dovrebbe imporsi in ogni singolo per poi propagarsi al suo esterno divenendo coscienza sociale, rimarrà purtroppo ancora a lungo tristemente nascosta. Trovo sia addirittura superfluo indicare la nazionalità di quel bambino, poiché il valore della vita deve obbligatoriamente prescindere dal luogo di provenienza, e il sentimento della pietà non potrà mai dipendere dall'orientamento religioso; quel piccolo corpo rappresenta solo e soltanto la sconfitta di una società che, indignandosi per qualche istante, nella convinzione di essersi ripulita la coscienza dimostra solamente per l'ennesima volta di non possederla.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-76909884136912644832015-08-03T13:11:00.001+00:002015-08-03T14:16:01.313+00:00Giusto e sbagliato: un'analisi concettuale <div style="text-align: justify;">
<b>Qui di seguito viene riportato un estratto di uno studio al quale da tempo mi sto dedicando, in vista di un'esposizione seminariale</b></div>
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Giusto e sbagliato sono concetti dei quali troppo frequentemente si tende ad abusare, tirandoli in ballo spesso senza particolare cognizione di causa. La stessa Filosofia è da sempre foriera di intuizioni e teorizzazioni più o meno significative al riguardo, ma la necessità di districarsi entro il meraviglioso ginepraio della teoria rende il lavoro, sebbene complicato, decisamente dinamico e stimolante; Platone, Aristotele, Rousseau, Kant, Beccaria, Rawls e molti altri si sono interessati al problema della giustizia, elaborando, come vedremo, teorie a volte divergenti, a volte convergenti. Da tempo, anch'io mi sto interrogando circa il reale valore di tali concetti e il loro intrinseco significato, e il mio interesse filosofico ha in questi tempi svoltato in tale direzione. Non posso negare che l'osservazione corra sempre in mio aiuto, offrendomi spesso validissimi strumenti per aprire nuovi squarci sulla tela della ricerca. L'universalità è merce molto rara, e troppo spesso si deve arrendere di fronte al predominio del particolare, il quale, poggiando sulla concretezza, riesce sempre ad articolarsi in molteplici esempi di natura più diversa. Non ho mai pensato che negare la loro dignità di esistenza nel campo dell'universale sia un grande azzardo, poiché non serve spingersi verso lidi troppo lontani per veder confermata tale ipotesi. Il passaggio dalla teoria alla prassi è però in questo caso doveroso per introdurre al problema, e a tal proposito gli esempi indubbiamente si sprecano, ma dovendo scegliere un caso emblematico, ritengo la pena capitale possa assolvere adeguatamente il compito. Prescindendo dalla posizione che chiunque possa avere al riguardo, è ora sufficiente constatare come la pratica in questione sia, a seconda del contesto e dei singoli individui, ritenuta una soluzione ( e dunque giusta ) oppure un'aberrazione ( e dunque sbagliata ); più banalmente, vita quotidiana non può sottrarsi all'annosa questione relativa a ciò che è giusto e ciò che non lo è, e in nome di tali concetti ogni individuo effettua o non effettua quotidianamente le proprie scelte, anche quelle apparentemente più insignificanti.</div>
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L'antiteticità delle posizioni parrebbe gettare confusione sulla ricerca in questione, eppure, a ben osservarla, essa è in grado di offrire un quadro piuttosto esplicativo di una problematica sempre dinamica e meritevole di ricerche filosofiche. È assolutamente evidente che un concetto quale la giustizia, e dunque anche quale il suo contrario, debba entrare entro la sfera legislativa di una società, inclusa un'ipotetica società anarchica ( la cui stessa costituzione sarebbe ritenuta nella fattispecie assolutamente giusta e inviolabile ai fini del mantenimento della società in questione ), nonché entro la sfera decisionale di ogni singolo soggetto. La convivenza di società e soggetti regolati da differenti sistemi normativi mostra chiaramente quanto la strada del giusto e dello sbagliato non sia benedetta dall'evidenza, e rende difficoltoso comprendere come si possa giungere a dirimere la questione. Certo non è semplice, ma non ho molti dubbi nell'indicare la strada della morale come l'unica eventualmente percorribile; ritengo sia insindacabile che qualunque normativa atta a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è infatti, necessiti di un precedente inquadramento morale. Per punire un reato occorre prima determinarlo come tale, stabilendo cioè che esso vada a ledere un qualche diritto che, al contrario, sarà da ritenersi imprescindibile oltre ogni ragionevole dubbio. Ad esempio, si è generalmente concordi nell'indicare nel furto la violazione di un diritto, e dunque si è ben disposti nel riconoscerlo come sbagliato, considerando di conseguenza come giusta la punizione per un ladro; eppure, se qualcuno sottraesse un qualcosa precedentemente sottrattogli, decidendo di riappropriarsene sarebbe ugualmente un ladro? In caso di risposta negativa, solamente il primo furto sarebbe sbagliato, mentre il secondo diverrebbe addirittura giusto, il che invaliderebbe di fatto la tesi del furto come atto universalmente sbagliato. Analogamente, il comportamento del singolo non potrà esimersi da una ponderazione precedente la messa in atto dello stesso. Senza sciorinare ora una miriade di esempi pratici, è doveroso aggiungere che chiunque, singolo o società che sia, nella valutazione morale di giusto e sbagliato subisca, come si vedrà in seguito, l'influenza del proprio filtro ( culturale o religioso che sia ) rimanendone irrimediabilmente condizionato. Ne consegue però che, a seconda del suddetto filtro, ogni azione, decisione o valutazione possa apparire in molti modi, senza per questo poter essere appunto valutata come intrinsecamente giusta o intrinsecamente sbagliata, impossibilitata a presentarsi con un unico volto. La stessa vita è un diritto inalienabile certo, ma provocatoriamente si può anche asserire che lo sia in determinati contesti e situazioni; qualora infatti l'uccisione di un despota consentisse di salvare un'intera società, la violazione del diritto alla vita sarebbe ancora da considerarsi assolutamente sbagliata? O piuttosto i concetti in questione non sono altro che un'elaborazione figlia del particolare? Già ora potrei riportare molti esempi ( del resto l'excursus potrebbe essere interminabile ), ma sono assolutamente certo che tutti concorrerebbero a consolidare la risposta affermativa a quest'ultimo interrogativo.</div>
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La questione è spinosa, anche perchè non si può neppure negare come i due concetti, per acquisire effettivamente valore, richiedano un'unanime accettazione all'interno della società poiché, a conti fatti, da questo e solo da questo dipende il loro eventuale rispetto. Questo è un aspetto non meno importante del problema che prenderò in esame. Ma com'è possibile ottenere accettazione alla luce di una totale mancanza di universalità? Ammetto di essere in difficoltà di fronte al quesito, ma se dovessi indicare un solo strumento di accettazione, non avrei dubbi a puntare il dito in direzione dell'abitudine. Un gruppo di singoli infatti, più o meno numeroso, riterrà giusto o sbagliato ciò che la consuetudine gli avrà insegnato ad accettare come tale, e ciò, in definitiva, altro non è se non un'ulteriore dimostrazione di quanto i concetti di giusto e sbagliato possano esistere soltanto in relazione a un contesto, di quanto difettino di quell'universalità che sarebbe la loro condizione necessaria di esistenza e validità. Ma procediamo con ordine...</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-28324442803970864922015-07-08T12:25:00.000+00:002015-07-08T12:25:14.599+00:00Husserl e l'innovazione fenomenologica<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://www.filosofia-italiana.net/wp-content/uploads/2014/04/foto-di-Husserl.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.filosofia-italiana.net/wp-content/uploads/2014/04/foto-di-Husserl.jpg" height="320" width="229" /></a></div>
Filosoficamente, il Novecento inizia con la pubblicazione da parte di Edmund Husserl delle <i>Ricerche</i> <i>logiche</i>, un testo spartiacque destinato a determinare la nascita della fenomenologia. Il termine in realtà era già stato introdotto da Hegel, ma l'accezione husserliana è decisamente diversa, poiché ora la fenomenologia si assume il compito di porsi come filosofia prima avente per oggetto di analisi i fenomeni. A Husserl, per il quale sarà determinante l'incontro con Franz Brentano, va riconosciuto di aver infuso dinamismo a una ricerca che sembrava aver esaurito la propria spinta propulsiva con le teorizzazioni di Kant e Schopenhauer che avevano avuto, tra gli altri, l'incomparabile merito di essersi dedicati alla ricerca intorno al concetto di fenomeno inteso come ciò che si manifesta o appare.</div>
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Approfondendo la questione, il fenomeno però, secondo Husserl, non si riduce solamente a ciò che viene percepito attraverso i sensi, ma è anche ciò che si manifesta astrattamente nel ricordo oppure ciò che si configura come evidentemente vero ( ad esempio l'aritmetica ) o anche solamente come apparentemente vero ( ad esempio confondere un'immagine per un'altra ). Iniziare col piede giusto non è semplice, poiché occorre accettare di considerare l'individuo intendendolo in quanto coscienza che, nella concezione husserliana, instaura con un determinato dato un rapporto che è il frutto dell'interazione tra il dato stesso e quello che viene definito "modo di datità", ossia il modo in cui il dato "si concede" al soggetto. Tale interazione viene da Husserl definita "intenzionalità", e di conseguenza lo studio della fenomenologia si deve considerare a tutti gli effetti come lo studio di tutti i "fenomeni intenzionali", quelli cioè vissuti dalla "coscienza intenzionale".</div>
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Husserl è consapevole di dover fronteggiare il passato filosofico più o meno recente, e inizia la propria opera sfidando a duello lo "psicologismo logico", colpevole di ricondurre la logica alla psicologia, riducendola a mero fenomeno naturale. Egli non ha riserve nel ritenere assurda tale posizione, sostenendo che i fautori dello psicologismo, filosoficamente parlando, peccassero gravemente nel momento in cui si rifiutavano di tener in conto la sostanziale differenza tra l'atto psichico in cui il pensiero si concretizza e il contenuto cui l'atto si riferisce. È innegabile infatti che possano esistere migliaia di atti psichici senza che il contenuto cui essi si riferiscono subisca la benché minima variazione ( un'espressione matematica può essere svolta innumerevoli volte da soggetti diversi, ma il risultato corretto rimarrà sempre il medesimo ) e ciò avverrebbe, secondo Husserl, in virtù del fatto che gli atti psichici sussistono idealmente, indipendentemente dall'evento psichico sensibile che li rende manifesti ( ed è impossibile non scorgere la filosoficamente onnipresente ombra platonica in tale posizione ). Nello specifico, l'errore imperdonabile consiste nell'identificare il dato col già menzionato "modo di datità". Addentrarsi entro un simile ginepraio filosofico però, è tanto stimolante quanto pericoloso e se Husserl si limitasse ad affondare il coltello nel corpo dello psicologismo, rischierebbe una condanna non meno severa di quella che lui stesso gli voleva infliggere. Infatti, il mosaico fenomenologico può completarsi solamente trovando una soluzione alla questione relativa all'accesso del soggetto alla dimensione ideale e Husserl, gettando sul tavolo la carta della cosiddetta "visione eidetica", ossia quell'intuizione che si genera in noi dalla visione di oggetti considerati indipendentemente dalla loro natura strettamente formale ( ad esempio, osservando un gruppo di quattro persone, cogliamo il numero quattro benché questo fisicamente non sia presente ), riesce a incastrare magistralmente l'ultima tessera.</div>
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Entro i confini della fenomenologia dunque, il concetto di fenomeno non si riduce ad essere soltanto ciò che appare, ma anche il suo modo di manifestarsi, che di fatto non risulta immediatamente evidente né tantomeno soggettivo. In altri termini, sostiene Husserl, ciò che il soggetto ha davanti è anzitutto un qualcosa di indipendente e possiede determinate caratteristiche che non dipendono in alcun modo da colui che le percepisce, e in questo senso, il filosofo introduce il concetto di "senso oggettuale" per indicare quelle peculiarità assolutamente proprie dell'oggetto e assolutamente indipendenti dal soggetto. Fondamentalmente l'innovativo squarcio aperto dalla fenomenologia consiste nell'aver inteso il fenomeno come il frutto di un'indissolubile sintesi tra "dato" e "modo di datità", e in virtù di ciò ne consegue che il fenomeno possa essere colto solamente con "atteggiamento fenomenologico", considerando cioè l'indissolubile sintesi appena menzionata. Per fare ciò però, sarà necessario sospendere ( "epochè fenomenologica" ) il senso oggettuale per concentrarsi sulla correlazione tra "dato" e "modo di datità", riconoscendo di fatto alla coscienza un ruolo di preponderante.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-64332043332727387792015-05-04T15:12:00.002+00:002015-05-04T17:15:05.406+00:00Teoria e prassi nel pensiero di Jürgen Habermas<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://www.x-pressed.org/wp-content/uploads/2013/08/getFile-317.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.x-pressed.org/wp-content/uploads/2013/08/getFile-317.jpg" height="234" width="320" /></a></div>
Tra i filosofi viventi, una particolare attenzione la merita senza alcun dubbio Jürgen Habermas, pensatore in grado come pochissimi di analizzare criticamente la realtà, osservandola quanto mai lucidamente in una maniera che quasi ossimoricamente amo definire come conservativamente lungimirante. Mi sono avvicinato alla sua filosofia con la giusta dose di scetticismo, ma ho conosciuto un pensatore clamorosamente all'avanguardia, degno collante tra le teorie filosofico-politiche passate e la freneticamente instabile modernità. Affrontando il pensiero di Habermas, si è inevitabilmente costretti a confrontarsi ripetutamente con le teorie di Marx ( dal cui determinismo tuttavia, a mio parere a ragione, prende le distanze ) cui innegabilmente deve moltissimo, e a parer mio non è neppure possibile negare l'influenza esercitata dal pensiero di Kant sul suo modus cogitandi, ma è sorprendente riscontrare come, pur rimanendo saldamente ancorato a concezioni filosofiche a lui precedenti ( su tutte quelle di Marx e Weber ) egli riesca a modellare un pensiero in grado di adattarsi quasi sartorialmente a una società in continuo mutamento. Non va dimenticato che Weber fu anzitutto un sociologo, peraltro di gran lunga superiore a quanto si sia disposti a riconoscere, e le sue teorie si fondavano sulla metodica osservazione di una società che vedeva la borghesia recitare indiscutibilmente il ruolo del protagonista dell'epocale cambiamento socio-economico che allora si stava verificando. A mio giudizio, Habermas è spesso troppo accademico, ma il suo contributo appare subito fondamentale in quanto la sua vanga filosofica si preoccupa di smuovere un terreno che, a mio giudizio, alla luce delle contingenze sociali, culturali ed economiche attuali, non potrebbe mai e poi mai essere lasciato a maggese. Trovando nella prassi un valido alleato, Weber aveva teorizzato che il denaro fosse, al pari del potere, l'elemento in grado di condizionare maggiormente i comportamenti umani, veicolandoli verso punti d'arrivo precisi e mirati, e che il capitalismo borghese avesse irrimediabilmente virato con grande decisione in direzione del consumismo. Quest'ultimo, in una logica perversa, avrebbe poi portato all'idealizzazione del possesso materiale e del suo susseguente consumo, divenendo a tutti gli effetti il termometro del benessere personale all'interno della società contemporanea. Accanto al consumismo, sosteneva Max Weber, la burocrazia aveva assunto un ruolo preponderante, divenendo la forma attraverso la quale il potere si esercitava trovando concretizzazione. Il denaro e il potere quindi, nella visione weberiana, concorrevano alla frantumazione della tanto ambiziosa quanto necessaria pretesa di individuare un senso alla vita dell'individuo, che di conseguenza però, si risolveva ad essere a tutti gli effetti uno strumento in vista di un fine. Weber aveva fatto centro, e oggi non possiamo non rendercene conto. Habermas non può fare a meno di riprendere tali punti di vista, peraltro difficilmente negabili, ma lavorandoci alacremente ( e attingendo anche al pensiero di Husserl ) vi integra concetti nuovi individuando all'interno della società contemporanea l'esistenza di due veri e propri livelli costituenti: il "sistema" e il "mondo della vita". Il primo coincide con l'aspetto rigidamente strumentale e prescrive azioni finalizzate al raggiungimento di precisi scopi quali ad esempio il possesso e il potere. Il secondo livello riguarda una sfera differente, ossia quella costituita dai valori e dalle tradizioni caratterizzanti una determinata società ( intesa però quale gruppo umano ) ed esprimibili attraverso il linguaggio.</div>
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Secondo Habermas, il capitalismo, con il suo sistema politico-economico, mediante il denaro e il potere, interferisce subdolamente con questa seconda sfera, non limitandosi a veicolarne i valori, ma di fatto addirittura determinandoli, tracciando vere e proprie linee guida, in grado di generare i caratteri peculiari del consumatore in quanto tale. Le necessità di quest'ultimo si traducono nella domanda che, attraverso i mezzi di diffusione, conia una forma mentis collettiva e irrimediabilmente standardizzata. La deriva irrazionale, di conseguenza, diviene inevitabile poiché tale irrazionalità è data proprio dal fatto che il sistema politico-economico, anziché uno strumento, diviene il solo e unico fine, che all'appagamento del bisogno, preferisce il mantenimento di se stesso ad oltranza. Habermas rivolge la propria attenzione anche all'opinione pubblica, che a suo giudizio si è nel tempo decisamente ridimensionata e snaturata, divenendo un mero strumento mediatico capace addirittura di rinnegare la propria essenza di pensiero comune. Se ciò è vero, allora sarà impossibile per chiunque non constatare la vittoria della ragione strumentale, cui il "mondo della vita" appare, oggi più che mai, totalmente asservito e subordinato. Non credo sia il caso di deporre le armi, ma vorrei avere lo stesso ottimismo di Habermas quando, complice il suo continuo richiamo all'Illuminismo, lascia uno spiraglio alla società, considerandola un insieme di individui capaci di relazionarsi attraverso un agire comunicativo in virtù del quale sarebbe potenzialmente ancora in grado di intervenire sull'agire strumentale invertendo la tendenza. Responsabilizzare l'individuo può essere una grande idea, ma purtroppo, anche considerando l'abissale distanza intellettuale che ci separa dall'Illuminismo, può esserlo soltanto nel meraviglioso mondo della teoria.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-73045920022105943912015-04-28T11:53:00.000+00:002015-04-28T11:56:56.205+00:00Introduzione a Sartre<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://reasontostand.org/wp-content/uploads/2011/08/sartre.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://reasontostand.org/wp-content/uploads/2011/08/sartre.jpg" height="213" width="320" /></a></div>
Recentemente mi è stato chiesto di introdurre il pensiero filosofico di Jean Paul Sartre, presentando i caratteri fondamentali del suo esistenzialismo, evidenziandone la struttura e gli eventuali limiti. Certo di non sbagliare, ho sempre ritenuto <i>L'essere e il nulla</i> un'opera straordinaria, in grado di aprire fondamentali squarci nella tela di una ricerca filosofica tanto attuale e dinamica quanto intricata e complessa, meritevole di continui approfondimenti, termine di paragone irrinunciabile in questioni di esistenzialismo.</div>
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Analogamente ad Heidegger, Sartre concentra la propria ricerca sul concetto di essere, distinguendone due fondamentali manifestazioni: come essere "in sé" e come essere "per sé". Il primo si riduce a tutto ciò che è sprovvisto di coscienza ma con cui la coscienza continuamente si rapporta, ossia il mondo; il secondo invece, è l'essere presente a se stesso consapevole della propria individualità. Addentrandosi approfonditamente nella questione, entro la teorizzazione di Sartre, "in sé" e "per sé" si oppongono l'uno all'altro generando un rapporto in cui il primo risulta coincidere con tutto ciò che non è coscienza, ovvero il mondo inteso esclusivamente nella sua immutabile staticità. In altri termini, ciò che si oppone alla coscienza risulta irrimediabilmente identico a se stesso senza eccezioni, e tale condizione, non soggetta a mutamento, vincola alla mera immediatezza ogni dato esterno alla coscienza. Sartre sa bene di essersi incamminato su uno tra i sentieri filosofici più impervi che siano mai stati tracciati, e sceglie di procedere per gradi attribuendo all'essere "per sé" la responsabilità maggiore, ossia quella di attribuire senso e significato a quel mondo che gli si oppone esclusivamente con la sua pesante e immutabile staticità. La coscienza infatti risulta essere intrinsecamente "possibilità" e, in quanto tale, mutamento e perpetuo superamento; l'uomo conferisce significato all'essere "in sé" mediante la potenzialità nullificatrice della coscienza che possiede appunto la peculiarità di rendere nulla l'immediatezza di un dato, manipolandola al fine di mutarne senso e significato. Sartre, lo si capisce perfettamente, deve moltissimo ad alcune teorizzazioni a lui precedenti ma del resto, addentrandosi nei meandri dell'essere, sapeva bene che prima o poi si sarebbe dovuto confrontare con le gigantesche teorizzazioni di Heidegger, Husserl e Parmenide; tuttavia, non è possibile fare a meno di notare come egli riesca nel non facile compito di integrare una ricerca filosofica fondamentale, facendo perno proprio sul potenziale nullificatore della coscienza per giungere addirittura a far coincidere quest'ultima con il nulla. Secondo Sartre infatti, l'uomo risulta egli stesso un nulla, poiché la sua coscienza non può prescindere da quel processo di nullificazione che è l'imprescindibile innesco del processo conoscitivo: il "per sé" infatti può rapportarsi solo e soltanto a ciò che "non è" coscienza e che ad essa si oppone. Il discorso è ampio e complesso, ma questa teorizzazione preparatoria spiana la strada all'introduzione dell'illuminante concetto di libertà in quanto, secondo Sartre, l'uomo risulta libero soltanto in virtù di questo suo essere coscienza, poiché la libertà coincide proprio con la possibilità di attribuire significato e senso a qualcosa ( l'"in sé" ) che intrinsecamente non ne avrebbe. È questa dunque la libertà nella filosofia di Sartre, una libertà attorno alla quale ruota il suo esistenzialismo, che inevitabilmente responsabilizza l'individuo anteponendone clamorosamente l'esistenza alla stessa essenza: l'uomo infatti, in virtù della propria libertà, altro non è se non ciò che liberamente sceglie di essere. Attingendo ancora una volta al pensiero di Heidegger, Sartre intravede però nella libertà una vera e propria condanna poiché l'uomo, destinato ad affermare dinamicamente la propria libertà, può di fatto riuscirci solamente attraverso il continuo e perenne superamento di ciò che esiste, mediante la propria potenzialità di scegliere. Perpetrare la scelta a oltranza è di fatto la vera essenza dell'uomo in quanto egli è ciò che è soltanto in virtù della propria perpetua scelta che, contrariamente a quanto si possa credere, non è secondo Sartre facoltativa, bensì inevitabile e impossibile da negare. Vittima della condanna ad affermare la propria libertà mediante la scelta, l'uomo si riduce a scegliere continuamente, e di fatto, in virtù di ciò, risulta sempre e comunque responsabile senza condizioni. Osservandola attentamente però, la medaglia della libertà rivela al suo rovescio le fosche tinte del concetto dell'angoscia. Uscendo dalla metafora, Sartre sostiene in definitiva che l'uomo si riduca ad essere ciò che non è, poiché la libertà intesa come scelta implica una progettazione in costante divenire in cui la perennemente instabile possibilità d'essere vanifica la stabilità del presente. In altri termini, condannato al continuo mutamento attraverso la scelta, l'individuo risulta costretto a convivere con l'aspettativa di divenire ciò che ha progettato, vivendo uno stato di perenne e angosciante attesa derivante dalla presa d'atto dell'incompiutezza di un'esistenza dominata dal perpetuo superamento del senso e del significato. Ci sarebbe molto da aggiungere.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-76297468876075106772015-03-16T14:36:00.000+00:002015-03-16T15:18:28.707+00:00Kierkegaard e il problema della scelta<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://jaddeyekabir.files.wordpress.com/2014/11/soren.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://jaddeyekabir.files.wordpress.com/2014/11/soren.gif" width="320" /></a></div>
Ho sempre considerato Søren Kierkegaard come un filosofo anomalo, un pensatore illuminato e affascinante, poco propenso a fornire soluzioni e risposte, quanto piuttosto orientato verso la spiegazione e l'analisi di problematiche e situazioni che lo conducono a erigere strutture di pensiero sempre figlie di profonde osservazioni e meticolose elaborazioni. Spesso per tale motivo, a torto, lo si ritiene lontano dalla grandezza di altri filosofi, ma personalmente ho sempre visto in lui un pensatore straordinario, moderno e conservatore al tempo stesso, in grado di fornire continuamente fondamentali argomenti d'indagine. Quello della "scelta" è sicuramente uno di questi.</div>
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Partendo dall'assunto che l'esistenza umana si riduca fondamentalmente alla "possibilità", in <i>Enten-Eller</i>, cui la comune traduzione <i>Aut-Aut</i> non rende completamente giustizia, il filosofo danese presenta la celeberrima contrapposizione tra i due ideali di condotta di vita: quello estetico e quello etico. Nella vita estetica, incarnata dalla figura di Don Giovanni, dominano la fugace ricerca del piacere e dell'estemporanea ebbrezza quali condizioni tese a impedire l'incanalamento dell'esistenza verso finalità concrete e definite, strumenti atti a evitare una qualsivoglia concretizzazione dell'esperienza vitale. L'esteta infatti, di fronte alla possibilità, di fatto rinuncia a scegliere, coltivando esclusivamente l'interessante, subendo passivamente la bellezza anziché dominarla attivamente. È proprio questa vita inconcludente e incompiuta ad appagare l'esteta, che ha nella rinuncia alla scelta in luogo del godimento dell'istante, la propria esaltante vittoria. La non scelta però, teorizza Kierkegaard, violenta se stessa nel momento in cui subentra nell'esteta la consapevolezza che rifiutarsi di scegliere sia in realtà l'innesco di un rovesciamento dell'essenza stessa della possibilità che, proprio in virtù della non scelta, diviene di fatto impossibile e dunque, ciò che in prima istanza appariva appagante, in realtà non risulta tale proprio perchè irresoluto e incompiuto. Senza concretizzazione, la possibilità genera quindi angoscia, e la ripetitività dell'incompiutezza vanifica un percorso, quello estetico, che porta l'esteta a "non essere" o, se si preferisce, a "poter essere" in eterno.</div>
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Kierkegaard, sulla cui filosofia le personali tribolazioni religiose e sentimentali lasciano un segno molto più netto di quanto si voglia ammettere, sviluppa una teorizzazione che spesso, troppo frettolosamente si crede di aver dominato. Infatti, occorre uno sforzo intellettuale significativo per comprendere come il pensatore danese non cada in contraddizione sostenendo che, contrariamente alla concezione che in origine convince l'esteta della propria assoluta indipendenza, la libertà risieda in definitiva proprio nella scelta che inizialmente rifuggeva, nel poter scegliere in vista di una realizzazione individuale; il soggetto estetico, se vorrà realizzare se stesso e la propria essenza, rinunciando alla condotta estetica, non potrà fare a meno di svoltare in direzione etica. La virata etica non deve ritenersi però la tappa di un naturale e progressivo percorso, quanto piuttosto un cambiamento drastico ed emotivamente violento, una presa di coscienza del nulla insito in sé o, se si preferisce, va inteso come quella scelta che l'individuo, fintanto che si trovava a vivere lo stadio estetico, rifiutava a priori e di cui in realtà era assolutamente incapace. Tra le possibilità che gli si prospettano, l'uomo etico, incarnato dalla figura del marito, diviene tale proprio sgombrando il campo dalle opzioni e decidendo di scegliere una e una sola via, quella che gli permetterà di dare concretezza a se stesso, divenendo ciò che è. Strumento determinante affinché l'esteta possa virare in direzione etica è la disperazione, quel sentimento generato dalla presa di coscienza della propria nullità. La disperazione dunque, nella concezione kierkegaardiana si configura come condizione necessaria e per certi aspetti addirittura positiva, in quanto la sola a permettere all'esteta la piena comprensione del valore della scelta. La scelta etica però, a conti fatti, è a sua volta un palliativo poiché non necessariamente salva l'individuo dall'errore del peccato, in quanto il rispetto delle norme vigenti nella società in cui vive diviene, in seguito alla scelta, una nuda e cruda conformazione alle consuetudini, un moralismo figlio di un senso del dovere scaturente dal fatto che quella determinata società impone "conditio sine qua non" il rispetto aprioristico di determinate norme. L'obbligatorietà dell'allineamento a una norma però non rende necessariamente il suo rispetto un ossequio, quanto piuttosto soltanto un accettabile compromesso, un viatico per poter vivere entro quella società che porta però l'individuo etico a sprofondare nell'abisso dell'universalità, anziché in quello della singolarità come avveniva per l'esteta. Neppure l'ideale etico dunque può considerarsi un traguardo accettabile, e il ripiegamento su Dio diviene, a giudizio di Kierkegaard, inevitabile, anche se certamente non privo di difficoltà. È ancora una volta la disperazione, peraltro consapevole, a generare quell'insoddisfazione necessaria per gettarsi a capofitto nella scelta religiosa. Si tratta della svolta più difficile e coraggiosa in quanto richiede il totale annichilimento della ragione in luogo dell'assurdo, del paradossale e dell'incomprensibile; in altri termini, la scelta religiosa richiede un totale annullamento di sé, paradossalmente funzionale all'affermazione della propria individualità. Nella fede infatti, pur ritrovando la propria individualità, occorre spogliarsi di qualunque residuo di razionalità e lanciarsi nell'abisso dell'incomprensibile, nel profondo e spiazzante abisso di Dio. Secondo Kierkegaard infatti, Dio chiede ossequio incondizionato verso qualcosa che alla ragione non può che apparire assurdo e irragionevole se misurato secondo un criterio razionale, in quanto si sottrae completamente al suo metro di valutazione. Occorre credere a Dio, e per certi versi fidarsi di ciò che chiede senza condizioni accettando l'imperscrutabile e l'incomprensibile. Soffermiamoci infatti sull'episodio del sacrificio di Isacco: cosa ci può essere di razionale nella richiesta avanzata da Dio ad Abramo? Come può la ragione comprendere una richiesta così terribile e razionalmente ingiustificabile? Non la può comprendere, ma la svolta religiosa richiede accettazione e solitudine.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-52113793548688740562015-02-28T09:30:00.002+00:002015-02-28T09:30:37.289+00:00Dentro alla morale kantiana: il concetto di imperativo<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://i1.wp.com/gabriellagiudici.it/wp-content/uploads/2012/04/Kant.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://i1.wp.com/gabriellagiudici.it/wp-content/uploads/2012/04/Kant.jpg" height="185" width="320" /></a></div>
Lo ammetto, davanti alla vastità del pensiero di Immanuel Kant provo sempre una sensazione di soggezione, un timore reverenziale che a volte mi spaventa. Posso provarci, ma non riuscirò mai, almeno credo, a comprendere come la mente umana possa giungere a una teorizzazione tanto smisurata e complessa. Anche se Nietzsche non sarebbe d'accordo, so bene di trovarmi di fronte a quello che, filosoficamente parlando, è senza dubbio un genio strutturale, né del resto posso negare di aver conosciuto Konigsberg per il fatto che questa cittadina gli abbia dato i natali, ma non esagero se sostengo pubblicamente di poterne argomentare a buon diritto. Kant infatti è tradizionalmente ostico per tutti, ma personalmente, pur essendo convintamente nietzscheano, ho sempre trovato un particolare feeling con la sua filosofia, e per quanto lui abbia sempre tentato di mettermi in difficoltà, senza presunzione posso affermare che, pur essendoci spesso riuscito, non abbia mai ottenuto il mio scalpo. Il suo criticismo è una brutta gatta da pelare, ma se si riesce a comprenderne l'intelaiatura, allora sarà impossibile negarne la grandezza, e sarà molto difficile evitare di tenerselo come compagno di viaggio per tutti gli studi filosofici successivi. Kant è sfuggente, è vero. Anzi, è un filosofo che difficilmente si piega al volere di chi lo studia, ma se gli si è fedeli, certamente si verrà ripagati con la stessa moneta.</div>
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Il mare magnum kantiano è molto pescoso, ma scegliere il punto in cui gettare l'amo non è semplice. Ho sempre trovato illuminante la teorizzazione kantiana relativa alla morale e per questo, evitando preamboli potenzialmente fuorvianti, decido di addentrarmi nella <i>Critica della ragion pratica</i>, analizzando i sempre fondamentali concetti di imperativo ipotetico e imperativo categorico. Nella sezione denominata <i>Analitica</i>, Kant, animato dal desiderio di individuare i principi in grado di regolare la volontà, effettua la distinzione tra "massime" e "imperativi". Entro il suo sistema, le massime si configurano come precetti dal valore meramente soggettivo, mentre gli imperativi, di valore oggettivo, hanno pretesa di universalità, sono cioè validi senza esclusione né condizione per tutti gli esseri razionali.</div>
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Da buon illuminista Kant, comprendendo che la teorizzazione necessiti di fondamenta più che mai solide, desume che la sensibilità e la ragione procedano su binari decisamente separati, in cui la prima possa piegarsi solo forzatamente ai comandi della seconda, proprio grazie all'autorità degli imperativi, che impongono all'inclinazione sensibile una regola universalmente valida. Nella sua analisi del resto, è certamente il primo a rendersi conto di percorrere una strada più volte battuta e, fedele alle ben note biforcazioni costanti nel suo pensiero, effettua una distinzione all'interno del concetto stesso di imperativo: l'imperativo può essere ipotetico ( se l'azione è rivolta a un fine ed è condizionata dal fine in questione ) o categorico ( se comanda incondizionatamente a prescindere da un fine, valevole cioè oggettivamente ). Secondo Kant, tra ragione e sensibilità esiste un insolubile intrinseco contrasto, e solo un comando della ragione può riuscire a piegare la sensibilità e condurre all'universalità. Tutto ciò concorre ad escludere la possibilità che la legge espressa dall'imperativo categorico possa essere per così dire "materiale", e ci impone di considerarla solo e soltanto dal punto di vista "formale". Kant esclude dunque che essa possa prescriverci cosa fare, sostenendo invece che ci debba semmai indicare come comportarsi al fine di realizzare un'azione moralmente corretta. Prendendo le mosse dalla formula generale, l'imperativo categorico ha tre svincoli fondamentali che ne strutturano il percorso ampliandone sempre più la completezza. La formula generale impone di agire secondo una massima che si vuole assuma validità universale. È chiaro ed evidente che il principio che ci guida debba portarci ad analizzare i limiti e gli estremi della sua portata, debba cioè portare ad interrogarsi se si tratti di una massima o di un imperativo. E fin qui va bene. Kant però inizia ad articolare il postulato generale, asserendo che si debba agire come se la massima in questione dovesse diventare un'universale legge della natura, riconoscendole di fatto la capacità di sconfinare nell'universo sensibile. La formulazione prosegue con un'ulteriore integrazione che prescrive di agire intendendo sempre come fine e mai come mezzo sia la propria persona, sia quella di ogni altro, in quella che si configura come una vera e propria affermazione della dignità. L'ultimo passaggio prescrive di agire in modo tale che la volontà, relativamente alla massima, possa riconoscere a se stessa un'universale capacità legislatrice. Questa terza formulazione può ritenersi il punto d'arrivo del percorso in quanto essa, di fatto, giunge ad affermare un caposaldo imprescindibile della morale kantiana, ossia l'autonomia, che dunque, proprio in virtù di se stessa, è e sarà sempre libera.</div>
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La vera moralità però, per essere realmente tale, deve necessariamente obbedire per ossequio alle leggi che essa stessa si impone, e non rispettare prescrizioni esterne soltanto per paura delle conseguenze che la loro trasgressione comporterebbe. In questo senso, la "soprasensibilità" di cui parla Kant altro non è se non la capacità dell'uomo morale di imporsi leggi in grado di assumere valore universale proprio perchè indipendenti dalla sfera sensibile e, proprio per questo, ad essa applicabili. Nel riconoscere la superiorità della ragione però, Kant non può negare che l'uomo agisca comunque anche nell'universo sensibile, soggiacendo conseguentemente a inclinazioni e desideri appunto sensibili; ciò di fatto lo porta a constatare come l'uomo possa rispettare le leggi morali soltanto riuscendo ad accettarle come un mero dovere. Infatti, non è proprio dell'essere umano, semmai di un santo, seguire spontaneamente una legge morale; essendo però impossibile la santità terrena, la ragione dovrà riuscire a imporre alla sensibilità il proprio primato, costringendola di fatto a piegarsi forzatamente al suo cospetto. Ed infatti, secondo Kant, l'azione morale è proprio quell'azione in cui la ragione, ergendosi sulla sensibilità, le impone il proprio primato gerarchico. Ci sarebbe molto altro da aggiungere.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-89753967958021445082015-02-05T22:31:00.000+00:002015-02-06T22:43:14.536+00:00Spinoza e l'unicità della sostanza<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.varesepolis.it/wp-content/uploads/2015/01/spinoza.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.varesepolis.it/wp-content/uploads/2015/01/spinoza.jpg" height="180" width="320" /></a></div>
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Baruch Spinoza è un filosofo molto pretenzioso, richiede sempre grande impegno e costanza, ma se si è disposti a concedergli il massimo sforzo, saprà ripagare con gli interessi la fatica profusa. Rifiutare una cattedra ad Heidelberg per salvare la propria autonomia intellettuale dice molto di questo straordinario filosofo olandese scomunicato dalla comunità ebraica con l'infamante accusa di eresia. Non è semplice inquadrare un pensatore tanto controverso, eppure la sua filosofia è tra le più ambiziose e al contempo coraggiose che si possano studiare.</div>
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Spinoza erige il proprio sistema filosofico sull'unico caposaldo a suo dire impossibile da scardinare: Dio. Il Dio di Spinoza è dotato di infiniti attributi infinitamente perfetti, e al di fuori di esso non può esserci assolutamente nulla. In altri termini, se si ammette che Dio sia tutto, esso dovrà allora necessariamente coincidere con la Natura, in quanto la sua totalità, per ovvie ragioni, escluderebbe senza appello una sua separazione dal creato, che quindi con esso si troverebbe armoniosamente a coincidere. Tale panteismo si identifica come un ordine necessario, e peraltro, elemento non trascurabile, geometricamente strutturato. L'<i>Etica</i> del resto, ci si presenta da subito proprio con un'architettura geometrica, e la sua suddivisione in definizioni, assiomi, proposizioni, dimostrazioni e scoli altro non è se non la prova che per Spinoza tutto, senza eccezioni, derivi da Dio secondo un rigido rapporto di causa - effetto. Nella sua teorizzazione però, Spinoza, che innegabilmente deve moltissimo a Parmenide, non può sottrarsi al confronto con quello che ai miei occhi è destinato a rimanere uno dei filosofi più sopravvalutati di sempre, ossia Cartesio. Analizzandone il pensiero, Spinoza aveva coraggiosamente puntato il dito contro il suo sistema, accusandolo di essersi colpevolmente e imperdonabilmente contraddetto. Ho sempre sposato con convinzione la teoria di Spinoza e ritengo che abbia ragione nell'individuare una una falla macroscopica nel dualismo cartesiano. Infatti, se da un lato Cartesio affermava che Dio per esistere non necessitasse di nulla se non di se stesso, dall'altro definiva contraddittoriamente sostanze anche la "res cogitans" e la "res extensa" che però, dipendendo da Dio, non potevano in realtà avere dignità di sussistenza. Spinoza, che filosoficamente vale molto più di Cartesio, individua in Dio l'unica e sola sostanza ( in quanto causa di se stesso, infinito ed eterno ), affermandone l'unicità relegando la "res cogitans" è la "res extensa" a meri attributi di esso e i singoli pensieri e corpi a semplici accidenti.</div>
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In maniera logicamente conseguente poi, Spinoza nega senza esitazione la possibilità che il finito possa essere sostanza, e dunque nega pure l'eventualità che possa esserlo l'uomo. Quest'ultimo infatti altro non è se non il risultato di un connubio tra mente e corpo, in cui la mente però, risulta essere soltanto l'idea del corpo o, se si preferisce, la conoscenza dell'estensione corporea. Secondo Spinoza, l'immanenza di Dio implica il fatto che la realtà non derivi, ma proceda da esso poiché, in quanto sostanza, Dio risulta essere tanto "res cogitans" quanto "res extensa". A ben guardare, ne consegue che le singole idee e i singoli corpi non possano interagire tra loro, ma al contrario possano soltanto procedere parallelamente in un lungo percorso privo di interazione, trovando coincidenza solo e soltanto in Dio.</div>
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Agli occhi di molti, Spinoza sarà pure stato un eretico, ma agli occhi miei il suo pensiero reciterà sempre un ruolo da protagonista nello sconfinato universo filosofico. Cartesio non sarebbe d'accordo.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-7240105944510245802015-01-14T12:52:00.000+00:002015-01-15T15:16:42.594+00:00Nessun dio può odiare una matita <div style="text-align: justify;">
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<a href="http://www.250news.com/wp-content/uploads/2015/01/MAC2601v.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="Http://www.250news.com/wp-content/uploads/2015/01/MAC2601v.jpg" height="320" width="224" /></a></div>
Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, probabilmente non esagero ritenendo la satira lo specchio della libertà di un Paese. Tristemente attuale, il dibattito relativo agli eventuali limiti che essa dovrebbe imporsi tiene banco in maniera piuttosto vigorosa. La presenza di un limite negherebbe il concetto stesso di satira, questo è vero, ma ciò che spesso, troppo spesso, viene sottovalutato è il fatto che non sia possibile né corretto fare i conti esclusivamente con il livello di tolleranza del proprio Paese o della propria confessione, facendone l'unico termine di paragone. La recente tragedia cui abbiamo assistito impotenti, altro non è se non l'ennesima dimostrazione di quanto la vita sia oramai subordinata ad interessi differenti, un valore non più inalienabile e imprescindibile, quanto piuttosto una merce di scambio da utilizzare in una guerra destinata a concludersi senza vincitori né vinti. Le vittime del terribile attentato al periodico <i>Charlie Hebdo</i> pagano un dazio infinitamente salato, capri espiatori di una situazione di esacerbata intolleranza che li ha visti diventare un subdolo e abietto pretesto nelle mani di un fanatismo sempre più becero e ingiustificabile.</div>
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In situazioni come questa, la banalizzazione e la generalizzazione sono i nemici più ostici da fronteggiare, e l'ignoranza induce sempre più di frequente a ritenere che il colpevole di un gesto tanto efferato quanto vigliacco non sia il singolo in quanto tale, ma piuttosto ciò che esso rappresenta.</div>
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La Storia è però una maestra troppo autorevole e competente quando si tratta di fornire un insegnamento, e con il consueto rigore didattico ci ricorda come la religione, anche quella cristiana, abbia mietuto vittime con clamorosa regolarità nel corso dei secoli. Gli esempi sono troppi e sarebbe impossibile riportarli tutti in questa sede, ma pescando in un passato neanche troppo lontano, credo che alle popolazioni centroamericane massacrate dai conquistadores, i cattolici Cortes e Pizarro non dovessero apparire molto diversi da come appaiono oggi coloro che si rendono colpevoli di ingiustificabili barbarie in nome di un profeta che non può neppure essere raffigurato. Gli spagnoli tuttavia, e non è un mistero, non avrebbero neppure levato un'ancora se nel nuovo mondo non vi fosse stata l'opportunità di allungare le mani su enormi quantitativi d'oro, né i crociati dal canto loro avrebbero preso la strada di Gerusalemme se a Roma non avessero intravisto in questi pellegrinaggi armati la possibilità di un lauto guadagno. La religione, oggi come allora, a conti fatti, risulta il pretesto più valido e facilmente vendibile, in grado di rendere accettabile anche ciò che razionalmente non potrebbe mai esserlo. Il ricordo dell'attentato alle torri gemelle o le sconvolgenti immagini delle decapitazioni dell'ISIS sono ancora davanti agli occhi di tutti, e per quanto mi sforzi di trovare un senso a tutto ciò che da sempre accade, concludo sempre la mia ricerca a mani vuote. Tutti agiscono in nome di un dio, qualunque sia, caritatevole e misericordioso, ma per soddisfare le sue richieste, travisando e maneggiando ad arte il suo messaggio, ricorrono al contraddittorio strumento della violenza. Il superamento di Dio auspicato da Nietzsche, in questo senso, prescindendo dalla posizione religiosa di ciascuno, responsabilizzerebbe l'individuo, ponendolo di fronte a se stesso senza condizioni, privandolo di uno strumento che, snaturandosi, troppo spesso si tramuta in pretesto. Non è oggetto dell'intervento l'opportunità di credere o meno, ma partendo dal presupposto di scegliere la strada della Fede, qualunque essa sia, non si potrà fare a meno di constatare come nessun dio possa pretendere il sacrificio del sangue, di cui è invece perennemente assetato soltanto l'uomo, capace di perpetrare orribili violenze in nome di un credo, senza voler ammettere che il reale problema risieda in realtà nell'innata inclinazione dell'individuo a non accettare l'altro poiché ritenuto diverso, e di conseguenza inferiore. L'impressionante manifestazione di solidarietà tenutasi a Parigi dovrebbe configurarsi non come una manifestazione anti islamica, quanto piuttosto come una presa di posizione contro una situazione insostenibile in cui sono sempre gli innocenti a fare le spese di un disegno perverso in cui potere e interessi scavalcano con inconcepibile noncuranza il valore di quella vita che ogni uomo dovrebbe amare più di qualunque altra cosa, sia che creda sia che non creda. Come accennato, non mi preme in questa sede entrare in merito alla questione della Fede, poiché credo di non aver titolo se non per sostenere la mia intima posizione al riguardo; quello della Fede è un argomento delicato, la cui verità, come sosteneva Kierkegaard, è un discorso del singolo, suo e soltanto suo. Da qualunque angolazione la si osservi però, la violenza come strumento religioso risulta una contraddizione nei termini, e un mondo che si professa civile e moralmente evoluto, non può fare a meno in nessun caso di poggiare sulle solide fondamenta della tolleranza, in cui il rispetto della vita altrui è e sarà sempre il viatico migliore per raggiungere il rispetto di se stessi. In un Paese laico e democratico, la scelta religiosa rappresenta uno straordinario esempio di libertà che tutti dovrebbero proteggere gelosamente, ma la società ha sprecato troppo spesso l'occasione per riscattarsi e temo se la lascerà sfuggire anche questa volta, calpestando il prossimo e il diritto di espressione, preferendo mantenere in vita una tensione sempre più pericolosa e retrograda. Nel riscontrare il potenziale ottenebrante della religione, Marx colse nel segno definendola "oppio dei popoli", e mai come oggi tale espressione risulta di sconvolgente attualità. Non mi illudo che la situazione possa cambiare, poiché non riconosco al genere umano la preziosa dote della tolleranza, ma sono certo di non sbagliare sostenendo che nessun dio, qualora dovesse esistere, possa accettare che un suo figlio muoia a causa di un disegno, a causa di una matita. Per quanto io mi possa sforzare, non intravedo nulla di religioso in ciò che sta accadendo, né riuscirò mai a convincermi del fatto che un dio possa pretendere ciò che la Storia ha voluto e vuole farci credere che pretenda.</div>
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L'Illuminismo ci ha lasciato in eredità molte teorizzazioni, ma il suo merito più grande è stato quello di rifiutare l'accettazione passiva di convinzioni secolari, e nessun filosofo del tempo potrebbe sentirsi offeso per il fatto che, per l'occasione, io scelga di rispolverare Voltaire, che sarebbe sicuramente sceso in piazza per manifestare la propria solidarietà alle vittime della tragedia parigina e che, senza remore né timori di sorta, avrebbe certamente ripetuto, gridandola a squarciagola, una delle più note affermazioni a lui attribuite: "Non sono d'accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee".</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-14147542311777619302014-12-13T16:10:00.002+00:002014-12-13T16:13:48.913+00:00Nietzsche e l'eterno ritorno<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://i0.wp.com/www.petersaysstuff.com/wp-content/uploads/2014/01/Friedrich_Nietzsche_by_ThorStrongStone1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://i0.wp.com/www.petersaysstuff.com/wp-content/uploads/2014/01/Friedrich_Nietzsche_by_ThorStrongStone1.jpg" height="320" width="250" /></a></div>
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Continuo a preferirgli una bella donna, ma il fascino che Nietzsche esercita su di me supera di gran lunga la semplice infatuazione. Del resto, se è vero che una fragorosa esplosione provoca una reazione più veemente rispetto a quanto non faccia un'armoniosa melodia, nessuno più di Nietzsche può vantarsi di essere riuscito, con il proprio pensiero violento e insieme rivoluzionario, nella non facile impresa di sconvolgere il mondo della filosofia occidentale. In molti possono dargli del pazzo, forse per alcuni ciò è più edificante, ma come spesso avviene, definire qualcuno folle equivale ad ammettere che questi abbia ragione. <i>Così parlò Zarathustra</i> è un testo troppo geniale per pensare di poterlo comprendere pienamente, e infatti quando penso di averlo finalmente domato, Nietzsche non perde occasione per ricordarmi che il coltello dalla parte del manico lo impugna ancora lui.</div>
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Quella dell' "eterno ritorno" è un'elaborazione filosofica gigantesca, e lo è ancor di più se la consideriamo quale parte di un disegno più ampio e complesso. Giocando su un terreno minato, Nietzsche rifiuta l'eventualità che la realtà possa essere valutabile dall'esterno, poiché esclude categoricamente l'esistenza di criteri che possano consentire una simile operazione; a conti fatti dunque, qualunque giudizio morale su di essa non può avere alcun fondamento in quanto la morale altro non è, a suo giudizio, se non una mera invenzione umana. Chi osserva la realtà intravedendovi un finalismo inoltre, commette un errore clamoroso, in quanto essa è e sarà sempre senza scopo, e Nietzsche, troppo scaltro per lasciarsi sfuggire l'occasione, colpisce a morte gli ideali ad essa correlati, ritenendoli subdole creazioni di individui che per mezzo di questi si illudono di poter effettivamente vivere la propria vita. La realtà nel suo divenire non ha un senso compiuto, non è un disegno in cui la causa e l'effetto si concatenano tra loro in un indissolubile legame, ma soltanto un insieme di eventi non classificabili gerarchicamente, poiché tutti validi alla stessa maniera. In altri termini, tutti gli eventi, proprio in virtù della loro inclassificabilità, mantengono secondo Nietzsche una sorta di innata verginità che li rende appunto privi di determinatezza e senso compiuto. È ciò che Nietzsche, con una scelta tatticamente perfetta, chiama "innocenza del divenire". </div>
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Nietzsche non offre molta scelta all'individuo, il cui unico atteggiamento possibile di fronte alla realtà è la sopportazione; ma il verbo "sopportare", in questo caso, non contiene intrinsecamente concetti quali la passiva rassegnazione e l'annullamento di sé, quanto piuttosto serve ad indicare una vera e propria reazione attiva alla realtà, attraverso la netta imposizione dei propri istinti vitali, accompagnata dal conseguente rifiuto delle tanto numerose quanto futili costruzioni illusorie. L'esito delle nostre azioni, qualunque esso sia, va accettato senza condizioni, rifiutando con veemenza, inutile dirlo, di attribuirne i meriti alla divinità o ai suoi surrogati. Pur responsabilizzandolo, Nietzsche non è certo indulgente con il genere umano, ed infatti dinanzi alla realtà l'individuo è solo, isolato nella propria condizione. </div>
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Filosoficamente, è risaputo, Nietzsche è un pensatore dalle concezioni piuttosto elitarie, ed infatti riconosce a pochi eletti la facoltà accettare l' "innocenza del divenire", soltanto a coloro che sono disposti ad accettare senza condizioni la ripetizione degli eventi in eterno. Esprimere un dubbio rispetto a tale accettazione tradisce l'insoddisfazione di un individuo che non ha vissuto pienamente la propria esistenza, denota una fiducia nel futuro che però, in quanto tale, implica speranza, quella che secondo Nietzsche è la nemica giurata della vita. Chi spera infatti, non vive qui e ora, ma rinvia nell'illusoria attesa di tempi e condizioni migliori. La speranza va violentemente abbattuta, vivendo la propria vita desiderando riviverla in eterno, auspicando che si ripeta nel tempo, esattamente così com'è già stata. È l' "eterno ritorno dell'uguale", che mostra quanto Nietzsche, come di consueto filosoficamente violento, scavalcando con un balzo deciso la concezione lineare del tempo, scelga di imporre una concezione circolare che abbia nella perpetua ripetizione la propria ultima essenza. Non è semplice comprendere appieno la portata di una simile costruzione filosofica in quanto, come detto, essa può avere compiutezza soltanto se inserita entro quel tortuosissimo dedalo che è il pensiero nietzscheano. Qui sarebbe doveroso aprire una parentesi, che aprirei volentieri se non fossi assolutamente certo di correre il serio rischio di non chiuderla se non in tempi lunghissimi. Ci troviamo infatti in presenza di una teorizzazione enormemente complessa e straordinariamente affascinante: pensare al "ritorno dell'uguale" è una tappa necessaria nel cammino che conduce al ben noto "oltreuomo", un cammino che ancora oggi pare purtroppo una meravigliosa utopia.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-86423191566476741352014-12-02T22:43:00.000+00:002014-12-02T23:29:13.320+00:00Nuove prospettive leopardiane<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://luniversale.you-ng.it/wp-content/uploads/sites/15/2014/04/Scultura-Giacomo-Leopardi-1366193645.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://luniversale.you-ng.it/wp-content/uploads/sites/15/2014/04/Scultura-Giacomo-Leopardi-1366193645.jpg" height="175" width="320" /></a></div>
Quando si decide di avventurarsi nel complesso e apparentemente inestricabile universo leopardiano, oltre ad attingere al residuo coraggio intellettuale di cui si dispone, si deve obbligatoriamente accettare la condizione di doversi confrontare con l'ostico e al contempo fascinoso concetto di "Pessimismo". Il termine, benché criticamente corretto e diffusamente accettato, è però senz'altro soggetto alla possibilità di una facile travisazione, al rischio cioè di non essere percepito per ciò che, rapportato a Leopardi, effettivamente significa. Se ci concentrassimo esclusivamente sul significato intrinseco e decontestualizzato del termine, converremmo sul fatto che esso venga correntemente utilizzato per indicare la tendenza a ritenere elevata la probabilità che gli eventi futuri siano destinati ad una conclusione negativa. Da qualunque angolazione la si osservi però, una simile interpretazione, pur scolasticamente rigida e rigorosa, non può che risultare superficiale e dunque filosoficamente inadatta ai fini di un'adeguata valutazione del pensiero del recanatese; se così fosse, infatti, le sue teorizzazioni si ridurrebbero banalmente ad una pura e semplice tendenza al negativo. Fossilizzarsi su tale lettura però, non sarebbe soltanto riduttivo, sarebbe clamorosamente sbagliato, e non ci consentirebbe una corretta e lucida valutazione della filosofia leopardiana. Per scavalcare l'idea, sarebbe in realtà sufficiente ricordare che mai Leopardi, filosofo prim'ancora che poeta, ricorse al termine "pessimismo" in riferimento al proprio pensiero, né del resto ciò sarebbe stato possibile. Ed il punto focale di una dissertazione intorno all'opportunità dell'utilizzo di tale termine in riferimento alle straordinarie elucubrazioni di Leopardi, consiste proprio nello stabilire anzitutto cosa lui pensasse del proprio pensiero; del resto, sarebbe ottuso ritenere che la concezione che egli stesso possedeva del proprio intelletto debba piegarsi alle esigenze della critica anziché viceversa. Delle proprie costruzioni filosofiche egli non avrebbe neppure lontanamente potuto concepire la definizione di "pessimismo", in quanto ciò sarebbe equivalso ad accettarne un'intrinseca soggettività, peraltro condizionata e limitante se consideriamo la costante pretesa di universalità del pensiero stesso. Così come lo concepiamo correntemente, il concetto indica fondamentalmente la convinzione di un'ipotetica posteriorità negativa, che mal si sposa con un pensiero assolutamente sentenziante come quello di Leopardi che, dal canto suo, sentenzia. Sentenzia sempre. A ben guardare, il suo pensiero si sorregge per certi versi proprio in virtù della stessa costante ricerca di universalità, ed è da escludere che egli potesse avere percezione di se stesso come pessimista poiché, contrariamente a quanto si possa pensare, fin da giovane non aveva esitato a mostrare una piena consapevolezza della grandezza del proprio ingegno. Pur provandoci, non sono mai riuscito a immedesimarmi in Leopardi, tuttavia lo conosco a sufficienza per sapere quanto pretendesse da se stesso, e se è vero che l'aspettativa tradisce consapevolezza, allora non possiamo negare di trovarci di fronte ad uno degli individui più consapevoli di cui si possa avere memoria.</div>
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I <i>Canti</i> sono sublimi, ma Leopardi è più grande nella prosa che nei versi, e di fronte alla straordinaria lungimiranza delle <i>Operette Morali</i> non posso fare a meno di chinare la testa, e chiunque sia dotato di buonsenso dovrebbe fare altrettanto. Quest'opera non finirà mai di sorprendermi, ma ciò che ricavo dal suo studio è la netta convinzione che Leopardi sia definibile in molti modi, ma sicuramente non come pessimista nell'accezione corrente del termine. Se è vero che per lui il passato costituiva uno strumento imprescindibile per la comprensione del proprio presente, un termine di paragone impietoso per giudicare la società umana, è altrettanto vero che ogni sua valutazione, per quanto proiettata verso il futuro, dovesse ai suoi occhi apparire come un lucido e concretissimo "Realismo". Non va infatti dimenticato che Leopardi fu un osservatore del presente, del suo presente, straordinariamente attento e acuto e quindi, ogni accusa di "tendere al negativo" come naturale inclinazione di spirito, non potrebbe che sminuire semplicisticamente quella valutazione critica di una contemporaneità, secondo lui inesorabilmente destinata a involvere in maniera razionale e quasi matematica. Il presente e il futuro dovevano apparire agli occhi di Leopardi in strettissimo contatto, quasi in un rapporto di causa-effetto ineludibile e impossibile da superare. Lo sguardo che Leopardi volge al presente di una società a lui contemporanea, ma paradossalmente da lui separata da una distanza incolmabile ( e il caos intellettuale dello <i>Zibaldone</i> ce lo dimostra inequivocabilmente ), è lucidamente scisso da un'esperienza di vita che, al contrario, tendenzialmente dovrebbe influenzare anche il più attento osservatore. In altri termini, sebbene sia innegabile che l'esperienza condizioni l'individuo, in Leopardi il dramma umano concorre a plasmare il suo "modus cogitandi", ma non il suo punto di vista; egli infatti, pur elaborando filosoficamente in virtù dell'esperienza, acquisendo peraltro una capacità di analisi assolutamente fuori norma, non risulta mai e poi mai condizionato nel pensiero giudicante dal proprio vissuto; l'esperienza conferisce sensibilità e illimitatezza all'ingegno di Leopardi, senza che esso però subisca quell'influenza che normalmente, a causa di uno o più contraccolpi psicologici, condurrebbe a quella già citata tendenza al negativo che al recanatese non appartiene, né apparterrà mai. Si assiste dunque a una scissione tra ciò che Leopardi è e ciò che Leopardi pensa, tra un "io corporeo" è un "io pensante" che, proprio in virtù di tale dualismo, conferisce di diritto pretesa di onniscienza alle teorizzazioni leopardiane. L'onniscienza in questione, però, si configura qui come una reale e concreta capacità di elevarsi sulla realtà e giudicarla, proprio in virtù della scissione, da una posizione del tutto privilegiata.</div>
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Come accennato, l'esperienza in Leopardi interviene immediatamente sulla sua capacità di erigere costruzioni mentali, ma non su quello che effettivamente è il suo pensiero. Se una scissione è una divisione, allora Leopardi risulta da subito diviso da una "alterità" e del resto, vivendo una giovinezza dedita allo studio "matto e disperatissimo", a causa di un vissuto castrante e limitante, si divide fin da subito da quella realtà che lui, soltanto più tardi, proprio in virtù di questa iniziale divisione da essa, riuscirà a giudicare con maniacale meticolosità e lucidissima imparzialità. Le pareti della biblioteca tanto maniacalmente allestita dal mediocre Monaldo, i limitanti confini del "carcere recanatese", scavano un primo profondissimo solco tra il filosofo e tutto ciò che è altro, e i fratelli, oltre ai genitori, divengono i suoi unici interlocutori, i quali però, vivendo entro il medesimo angusto contesto, non possono che risultare uno sbiadito riflesso di ciò che egli stesso è e percepisce di essere. Essi infatti non possono né mai potranno porsi come "alterità", semmai soltanto come comparse sgambettanti all'interno di un palcoscenico che in quel momento è anche e soprattutto quello di Leopardi. La biblioteca nella quale trascorre interminabili giornate di studio diviene per lui, quasi paradossalmente, il luogo deputato all'evasione intellettuale, il primo microcosmo nel quale rifugiarsi entro una solitudine che, di fatto, diverrà presto un elemento imprescindibile nella sua ricerca di universalità.</div>
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Tale fittizio universo costituisce, di fatto, la prima scissione tra Leopardi e ciò che pare adeguato definire "altro da lui", ed è peraltro una scissione che non ho mai faticato a ritenere consapevole. Che sia consapevole, anche se non volontaria infatti, lo si evince piuttosto nitidamente dallo smodato zelo con cui, anima e corpo, si dedica ad uno studio che, per quanto vivamente caldeggiato, non può dirsi effettivamente imposto, poiché, se così fosse, risulterebbe inspiegabile quell'onnivoro desiderio di sapere che caratterizzerà sempre il genio recanatese, e che lo porterà a profondere uno sforzo fisico oltre che intellettuale sulle ben note "sudate carte"; al contempo però, tale inusitata bramosia, lo renderà consapevole di una diversità di pensiero che quindi, a conti fatti, risulta vera e propria concausa della scissione in questione. La frattura fra Leopardi e tutto ciò che, a tutti gli effetti, è un "non io", non è da intendersi ingenuamente però, si badi bene, come una frattura fra lui, rigidamente ateo, e la Natura onnipotente; quest'ultima infatti, campo di ricerca privilegiato di tutte le ricerche leopardiane, severa interlocutrice dell'islandese delle <i>Operette</i>, è qui ancora lontana dal configurarsi come oggetto d'analisi. Inizialmente infatti, questa "alterità" esterna a Leopardi è semplicemente qualcosa d'altro, qualcosa che si colloca palesemente al di fuori, e che si oppone ad un "io" consapevole in un rigoroso sistema dialettico in cui "io" e "non io" si oppongono, portando il primo ad esclude il secondo nello stesso istante in cui lo contempla. Leopardi, la cui enormità non è ancora sta del tutto compresa, non considera la realtà a lui esterna come un elemento partecipante, ma al contrario, soltanto come un elemento "al di fuori" che, proprio in virtù di tale estraneità con l'io pensante, ne afferma la solidissima consistenza. Va però puntualizzato che il processo mentale in questione si realizza non tanto come opposizione della "alterità", quanto come opposizione alla "alterità". In altri termini, non è il "non io" ad opporsi al già menzionato "io", quanto piuttosto il contrario. Leopardi infatti scinde se stesso percependosi come diverso, fors'anche come escluso, in quanto tale diversità diviene il primo elemento attraverso cui egli riesce ad affermare se stesso in una realtà nella quale, altrimenti, sarebbe impossibilitato ad imporre la propria essenza. La presa di coscienza di una diversità apre in Leopardi un fondamentale squarcio su quello che è il suo reale ed effettivo "io"; egli infatti non è ne sarà mai "parte di", ma sempre è soltanto "sustanza" di se stesso.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-59817658932933659052014-10-28T23:05:00.000+00:002014-10-28T23:10:26.038+00:00Marsilio e Ockham sono più moderni di noi<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://oltreilcancello.files.wordpress.com/2012/09/carlo-magno.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="289" src="https://oltreilcancello.files.wordpress.com/2012/09/carlo-magno.jpg" width="320" /></a></div>
Seppur con le dovute cautele del caso, il dibattito relativo alla natura del potere spirituale è quanto mai vivo e attuale. In un'epoca come la nostra, preoccupantemente monca di teorie politiche, la questione stuzzica il mio interesse e, senza nascondere le mie perplessità per una figura, quella del pontefice, che ritengo anacronistica almeno nella forma, trovo incredibile che, pur modificandosi nel tempo, il dibattito relativo al rapporto fra potere temporale e potere spirituale abbia mantenuto inalterata la propria vitalità. Soltanto un ottuso potrebbe sostenere che la società sia effettivamente laica, e nella fattispecie, la figura del papa ha consolidato nel corso dei secoli la propria connotazione politica, e in questo senso, con i caratteri che il ruolo stava assumendo, fu molto più coerente Bonifacio VIII di quanto non lo sia stato il casto e puro Celestino V, costretto a gettare la spugna di fronte all'impossibilità di rendere puro un potere oramai vittima di se stesso e dell'imperante corruzione. Ancora oggi, come detto, la querelle relativa agli eventuali limiti del potere spirituale è percepita come straordinariamente attuale, soprattutto in una società che professa laicità senza crederci veramente. Sostengo la laicità dello Stato, ma più mi guardo attorno e meno la scorgo, e per quanto lo si voglia negare, forse oggi più di ieri, il pontefice è un alleato cui pochi si sentono di rinunciare. </div>
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Come spesso mi accade, per comprendere il Presente, certo di non sbagliare, attingo al Medioevo, culla naturale di una disputa che ieri toglieva il sonno a Dante Alighieri e che oggi, seppur in maniera diversa, mantiene inalterata la propria vigoria. Due pensatori hanno affrontato la questione con una veemenza che, quasi contraddittoriamente, trova un'incredibile modernità nella propria essenza profondamente Medioevale: Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham. Marsilio decide di incamminarsi su un sentiero piuttosto impervio, ponendosi l'obiettivo di far crollare la pretesa assolutistica di un papato che agli occhi di molti aveva perso notevolmente prestigio. Parallelamente, Ockham contempla addirittura, in maniera certo clamorosa, la possibilità di un papa eretico, giustificando un'eventuale resistenza nei suoi confronti da parte dei fedeli. Secondo Marsilio, la società è il frutto del desiderio insito in qualunque individuo di condurre un'esistenza che meriti essere effettivamente vissuta; dal canto suo, Ockham assume una posizione destinata a suscitare non meno scalpore, sostenendo la possibilità che il potere temporale prevarichi quello spirituale, riconoscendo a un sovrano temporale la possibilità di deporre un pontefice che non si mostri ossequioso verso le Scritture. Contrariamente ad alcune correnti di pensiero che auspicavano l'unione dei due poteri, Ockham, tanto cauto quanto lungimirante, si mostra invece accanito sostenitore della loro divisione, utile a suo giudizio per preservare una sorta di equilibrio bipolare.</div>
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I due filosofi, in un moderno quanto sorprendente slancio di inconsueto sapore democratico, sono concordi nel ritenere il popolo quale depositario del potere, ed entrambi accettano il rischio di sostenere una tesi che inevitabilmente avrebbe finito per scontrarsi contro un potere, quello del papa, mai troppo incline ad accettare di essere messo in discussione. A mio giudizio, anche in relazione al tempo in cui vive, Marsilio, individuando la società quale risultato dell'opportunismo dei singoli, è di una modernità sconvolgente nel ritenere che gli uomini si associno soltanto per andare oltre la mera sopravvivenza, tentando così di realizzare appieno le proprie potenzialità. Le contese, di esempi il Medioevo ne offre molti, dominano la società e la pace può essere garantita solo a patto di impedire che ognuno persegua il proprio vantaggio. Solamente le leggi e un "guardiano" in grado di imporle e vigilare sulla loro pedissequa applicazione, possono garantire la sopravvivenza di uno Stato e tali norme, a suo giudizio ritrovano la propria essenza nell'essere imposte con la forza da chi ne ha l'autorità. La loro validità dunque, secondo Marsilio, non dipende da una qualsivoglia subordinazione a un'entità superiore, quanto piuttosto dall'esclusivo fatto di essere emanate correttamente. Chi conosce il Medioevo sa bene che gli slanci democratici erano merce rarissima al tempo, e per questo, che due pensatori concordino nel conferire ai cittadini una responsabilità legislativa, è da considerarsi un fenomeno straordinariamente all'avanguardia. Sia Marsilio che Ockham, infatti, sono in perfetta sintonia nel riconoscere ai cittadini il delicato compito di entrare nel meccanismo legislativo, e laddove il primo sostiene che i sudditi debbano stabilire le normative in grado di regolare la vita della comunità, il secondo, individuando negli uomini il tramite tra Dio e il potere dello Stato, attribuisce ai cittadini la facoltà di assegnare il potere. Anche se Ockham, ritornando parzialmente suoi propri passi, in casi eccezionali contempla la possibilità che il papa destituisca un sovrano temporale divenuto pericoloso, i due pensatori, troppo acuti per cadere in errore, non faticano a riconoscere nel papato una subdola macchina politica e tentano encomiabilmente di riportarlo entro i ranghi attraverso le proprie teorizzazioni. Marsilio infatti, consapevole del fatto che la Chiesa ricorra troppo spesso a Dio come strumento persuasivo, ridimensiona la forza terrena della legge divina, negando che essa possa risultare vincolante nell'esistenza temporale degli individui; essa infatti, per natura eterna e infallibile, non può né potrà mai possedere nel mondo terreno quella forza coercitiva necessaria per renderla effettivamente valida. Il potere spirituale, che né Marsilio né Ockham negano, può trovare la piena realizzazione soltanto esercitando un ruolo per così dire didattico, educando religiosamente i fedeli in maniera non coercitiva.</div>
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Testi come il <i>Defensor pacis</i> e il <i>Dialogus</i>, a conti fatti, non meritano di giacere impolverati dimenticati su uno scaffale, ma il loro contenuto, straordinariamente lungimirante, necessita più che mai di una riscoperta in grado di rinvigorirne freschezza e vitalità.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-47051163985920611382014-10-22T14:23:00.000+00:002014-10-22T16:09:15.681+00:00Wittgenstein e il "Tractatus logico-philosophicus": il potere del linguaggio<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://www.military-history.org/wp-content/uploads/2014/04/Wittgenstein.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.military-history.org/wp-content/uploads/2014/04/Wittgenstein.jpg" height="320" width="320" /></a></div>
È quanto meno anomalo che un ingegnere aeronautico si converta alla Filosofia, e per questo, lo studio del pensiero di Wittgenstein deve essere affrontato con estrema cautela, tentando un approccio diverso e trasversale. Non si tratta di un filosofo come tutti gli altri, e credo che i profani della materia si debbano avvicinare a lui con estrema prudenza. Molti si aggrappano alla storiella del leone, altri lo citano, ma pochi lo conoscono e sono ancor meno quelli che lo capiscono. Non credo sia giusto scindere Ludwig Wittgenstein dagli studi scientifici inizialmente intrapresi e la sua filosofia, per quanto ci si sforzi di negarlo, non è altro che la svolta umanistica di uno scienziato pienamente formato. Ho sempre diffidato delle illuminazioni improvvise, ma al contempo non posso negare che esse esercitino sempre uno straordinario fascino su di me.</div>
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Nella prima parte del <i>Tractatus logico-philosophicus</i>, quella che ora mi preme analizzare, Wittgenstein individua nel linguaggio il fulcro centrale della Filosofia, e ciò che più gli interessa è la capacità dello stesso di rappresentare il mondo. La ricerca relativa a quella che potremmo chiamare "essenza della proposizione", è un percorso complesso e impervio e, per molti aspetti, si alimenta dalle ceneri del pensiero di quel Kant che in molti, a ragione, ancora prendevano come saldo e imprescindibile punto di partenza per le proprie teorizzazioni filosofiche. Nel <i>Tractatus logico</i>-<i>philosophicus</i>, opera tanto ambiziosa quanto controversa, Wittgenstein parte dall'assunto, a mio giudizio mai troppo convincente, che la proposizione sia "letteralmente" un'immagine logica della realtà. All'interno di una proposizione, sostiene, i nomi fanno le veci degli elementi, ed esprimono quelle relazioni che nella realtà vigono tra gli oggetti; ora però, e Wittgenstein lo sa bene, riesce difficile scorgere il nesso immediato tra gli elementi della proposizione e la situazione che essi vogliono rappresentare, e per uscire da quest'impasse, il filosofo chiama in causa il pensiero, il quale, a suo dire, contiene intrinsecamente quei simboli necessari per concepire il nesso che mette in relazioni i nomi costituenti la proposizione. In altri termini, il linguaggio rappresenta logicamente la realtà, ma lo può fare solamente grazie al pensiero, che contiene quei simboli che il linguaggio può soltanto sottintendere. Attingendo in maniera forse troppo rigida alle proprie conoscenze matematiche, Wittgenstein giunge a considerare la proposizione come "immagine logica della realtà", in quanto essa, esattamente come avviene nella realtà visibile, presenta una struttura i cui elementi presentano effettive possibilità combinatorie. In quanto immagine della realtà, ogni proposizione "sensata", sarà caratterizzata dalla "bipolarità", ovvero dalla possibilità di essere vera o falsa, in relazione alla realtà che rappresentano. In altri termini, la validità di una proposizione si dovrà verificare, sottoponendola al severo esame della realtà, e fino a quel momento essa sarà equidistante dalla verità e dalla falsità.</div>
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Per il <i>Tractatus</i>, Wittgenstein non poteva fare a meno di appoggiarsi al filosofo che prima di tutti aveva sostenuto l'indissolubile legame tra realtà e linguaggio, ossia Aristotele. Era stato lui il primo, infatti, a vincolare la veridicità di una proposizione al suo riscontro nella realtà. Per mille motivi, Wittgenstein non è Aristotele, e gli strumenti a sua disposizione gli consentono un'analisi filosofica per così dire "matematica", che il filosofo greco poteva al più soltanto desumere. Tuttavia, non possiamo negare che il <i>Tractatus logico-philosophicus</i> sia un testo molto tecnico, dei più complessi mai scritti, e Bertrand Russell ha il grande merito di averlo compreso prima degli altri. L'analisi di Wittgenstein diviene quasi matematica nel momento in cui si concentra sui connettivi logici ( "non", "e", "se" ) e sul loro "non essere rappresentanti". Ricorrendo all'esempio concreto, la proposizione "non piove" non è rappresentativa di nessuna realtà, in quanto non esiste una realtà che corrisponda a tale proposizione, semmai soltanto realtà che neghino la proposizione "piove"; semplificando la questione, la proposizione "non piove" è resa vera esattamente dal medesimo fatto che la rende falsa, ossia dalla proposizione "piove".</div>
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Wittgenstein introduce i cosiddetti "fatti atomici", che possono darsi assieme oppure no e che, combinati, originano quelle che definisce "proposizioni atomiche", altrimenti dette "elementari". Eredità dell'impostazione matematica, è lo schematismo il grande limite del <i>Tractatus</i>, e Wittgenstein, riprendendo Russell e soprattutto Gottlob Frege, elabora le "tavole di verità" ( a mio giudizio poco filosofiche e molto scientifiche ) come strumento necessario per determinare la verità o la falsità di quelle che chiama "proposizioni molecolari", ossia quelle proposizioni ottenute mediante il ricorso ai connettivi logici. Pur non trovando sempre concreta rappresentazione nella realtà, le "proposizioni molecolari" possono anche configurarsi come vere ( "Se piove allora piove" ) e in questo caso si tratta di "tautologie", alle quali si contrappongono le proposizioni sempre false, ossia le "contraddizioni" ( "piove e non piove" ). Prive di bipolarità, collocandosi necessariamente o dalla parte del vero o da quella del falso, tutte le "proposizioni molecolari" risultano agli occhi di Wittgenstein "prive di senso" in quanto, contrariamente alle "proposizioni sensate", non possiedono alcun contenuto rappresentativo ( ed infatti, non vi è possibilità che nel medesimo istante e nel medesimo luogo piova e non piova ). A ben osservarle però, Wittgenstein lo sa benissimo, tanto le "tautologie" quanto le "contraddizioni", tradiscono inequivocabilmente gli insuperabili limiti del parlare e del pensare, in quanto, pur sforzandoci, ci risulta impossibile rappresentarci un mondo contraddittorio esattamente quanto ci risulta ci risulta impossibile rappresentarcene uno tautologico. </div>
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Forse Wittgenstein sarebbe stato un ottimo ingegnere, ma probabilmente la Filosofia aveva più bisogno di lui di quanto non ne avesse l'ingegneria.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-75470305630733752332014-10-15T13:04:00.000+00:002014-10-15T17:51:29.582+00:00Kierkegaard e la "verità del singolo"<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://carmelourso.files.wordpress.com/2013/06/sc3b8ren-kierkegaard.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://carmelourso.files.wordpress.com/2013/06/sc3b8ren-kierkegaard.jpg" height="320" width="223" /></a></div>
Se l'avessi incontrato a un evento mondano, probabilmente l'avrei invidiato per la sua aria scanzonata e sovente guascona; l'eleganza mescolata allo snobismo che di consuetudine sciorinava in pubblico faceva di Søren Kierkegaard un perfetto mentitore, un dissimulatore capace di nascondere la propria reale condizione a quella che era solito chiamare "folla bestiale". Senza remore, oggi posso dire di essermi convinto che fosse un bugiardo, e la sua maschera era senz'altro piuttosto ingannevole se si considera che dietro di essa si celava uno degli individui che non è esagerato annoverare tra i più tormentati dell'intera Danimarca. Nato nel 1813, ricevette una rigida educazione religiosa che personalmente credo l'abbia condizionato più di quanto si voglia ammettere; nell'arco di circa sette anni perse il padre e cinque fratelli, in quella che interpretò come un'autentica punizione divina per una colpa a noi ignota commessa dal genitore. Sentimentalmente non si può dire che il giovane fosse meno inquieto, se si considera che interruppe il fidanzamento con Regina Olsen, a causa di un mai specificato turbamento interiore che funestava il suo animo senza dargli tregua. Che Kierkegaard fosse un animo profondamente turbato non è in alcun modo opinabile, ma non sono mai riuscito a giudicarlo instabile o illogico, e il frequente ricorso agli pseudonimi fa di lui un filosofo tanto grande quanto sfuggente. La questione degli pseudonimi è in realtà più complessa di quanto si pensi, e il ricorso ad essi non è altro che un geniale stratagemma per responsabilizzare il lettore, privandolo di qualunque condizionamento.</div>
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Alla luce di quanto accadutogli, Kierkegaard doveva sentirsi decisamente in credito con Dio, eppure, sostenendo la "verità del singolo", ci fornisce una delle più alte e pure dimostrazioni di fede che la Filosofia ricordi. Secondo lui, è il "singolo" ad elevarsi sulla collettività, anche e soprattutto in materia di fede, e la verità ha come proprio compito l'affermazione assoluta dell'individualità. Attaccando Hegel, Kierkegaard si scaglia contro le ricerche metafisiche indirizzate alla ricerca di verità universali e concetti assoluti ( quali ad esempio la coscienza ) che non possono avere senso a meno che non vengano rigidamente contestualizzati alla soggettività del singolo individuo. Una conoscenza che scavalchi l'individualità è un'assurdità, in quanto tale individualità si concretizza proprio in relazione ad altre singolarità, e non in rapporto all'umanità intesa come entità autonoma dotata di vita propria. Una simile concezione dell'umanità negherebbe in assoluto la singolarità dell'individuo, potendo peraltro perpetrare crimini orrendi, semplicemente celandosi dietro la spersonalizzante maschera della moltitudine; ed infatti, è la folla ad aver ucciso Gesù Cristo, non il singolo. Paradossalmente, in materia religiosa, la conoscenza diviene secondo Kierkegaard uno strumento fuorviante, in quanto essa nulla ha a che vedere con la fede, ma al più con un nozionismo fine a se stesso. Il singolo individuo può e deve ricercare la salvezza, rimanendo però consapevole di poterla raggiungere esclusivamente attraverso la fede, e la conoscenza storica del Cristianesimo, in questo senso, può tranquillamente valere molto meno della totale ignoranza in materia. È in Cristo soltanto che si trova la chiave della salvezza, e non nei proseliti di una Chiesa come quella danese che Kierkegaard non ha remore nel definire "pagana". Il rapporto con Gesù è intimo e personale e tale intimità rappresenta agli occhi del filosofo l'unica strada possibile per la salvezza; ogni uomo, inteso nella propria individualità, instaura con Cristo un rapporto esclusivo che di fatto costituisce, e non potrebbe essere altrimenti, l'unico viatico possibile per ottenere la salvezza. </div>
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A ben vedere, al di fuori di questo privilegiato rapporto, la religione può addirittura risultare contraddittoria nella sua incomprensibilità. Che Dio, a cui sarebbe sufficiente una parola, si faccia uomo e decida di morire per salvare l'umanità, è un controsenso dal quale è impossibile uscire per mezzo della ragione; la storia di Cristo è propedeutica alla fede, ma non indispensabile per la salvezza. Il rapporto dell'uomo con Dio è un mistero che accomuna tutti i singoli, affermandone l'individualità. Ecco perchè, secondo Kierkegaard, la verità può risiedere soltanto nel singolo.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-22634511406189560332014-10-06T16:59:00.000+00:002014-10-06T16:59:10.557+00:00Thomas Hobbes e la teoria dello Stato<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://no.blog.kataweb.it/files/2008/12/hobbes.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://no.blog.kataweb.it/files/2008/12/hobbes.jpg" height="320" width="292" /></a></div>
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Verità e leggenda spesso riescono a fondersi armoniosamente, ma pare tutto sommato verosimile che la madre di Thomas Hobbes, il 5 aprile del 1588, abbia dichiarato di essere in preda alle doglie a causa del timore che l'Inghilterra venisse invasa dagli spagnoli. L'Invincibile Armata, di invincibile aveva molto poco, e Filippo II dovette chinare il capo di fronte alla superiorità inglese, ma tanto bastò per far maturare nel giovane Thomas la convinzione di essere "figlio della paura". La vicenda è curiosa, sicuramente affascinante, ma l'episodio inserisce il nascituro entro una dimensione per certi versi romanzesca.</div>
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Pochi filosofi, a mio giudizio, hanno rivoluzionato la Filosofia quanto Thomas Hobbes, e le sue teorie politiche non possono essere ridimensionate neppure a distanza di secoli. Non posso negarlo, quella del "contratto sociale" è una teoria così illuminante che mai cesserà di affascinarmi, e la teorizzazione consegnataci da Hobbes è talmente straordinaria da risultare attuale sempre e comunque. Egli si interroga sulla legittimità dello Stato, e la teoria contrattualistica secondo cui gli uomini avrebbero creato artificialmente una società stipulando un ideale contratto, diviene per lui lo strumento deputato alla giustificazione di tale legittimità. Con il patto, ci dice Hobbes, gli individui si sono accordati per trasferire i propri diritti naturali a una persona "civile", la cui volontà unica ha soppiantato quella comune e quella singola di ciascuno. Importa poco che l'accordo non abbia fondamento storico, la questione si gioca nel campo della teoria, e proprio per questo è più attendibile e rilevante. Se crediamo alla teoria contrattualistica, siamo costretti a convenire con Hobbes nel ritenere che il principio fondativo di uno Stato affondi le proprie radici nel consenso degli uomini, anziché nella volontà divina. Non credo esageri nel paragonare la forza di uno Stato a quella di un essere mostruoso, e col <i>Leviatano</i> Hobbes, perfettamente consapevole di procedere entro un terreno minato, ci offre uno dei più straordinari testi politici che siano mai stati scritti. Il potere può essere detenuto da un singolo ( monarchia ) o da un'assemblea ( democrazia ), ma in entrambi i casi si tratterà di un potere artificiale e le singole volontà che allo stato di natura risultavano indipendenti, sono destinate a fondersi in quella della "persona sovrano-rappresentativa", ossia la "persona artificiale" che diviene l'effettiva detentrice della sovranità. Essa, sovrana e al contempo rappresentativa, risulta indispensabile per l'esistenza stessa dello Stato, che in sua assenza si ridurrebbe a un disordinato coacervo di individui privi di una qualunque volontà politica. La nuova volontà pubblica dunque, si emancipa da quella del singolo e la volontà dello Stato trova concretezza unicamente nel suo rappresentante, appunto la "persona artificiale". La chiave della teoria hobbesiana sta proprio qui, ossia nell'affermare che la rappresentanza non consista nella mera rappresentazione della volontà dei molti, quanto piuttosto nella creazione di una nuova volontà del tutto indipendente. Alla luce di ciò, che la "persona artificiale" sia un monarca o un'assemblea, poco cambia, ciò che conta è che i poteri siano assolutamente unificati in una sovranità "assoluta", "indivisibile" e "irresistibile". Nel dettaglio, dovendo rispondere esclusivamente alle leggi naturali, il sovrano risulterà "assoluto" in quanto obbligatoriamente "sciolto" da qualunque legge civile sulla quale si erge, "indivisibile" in quanto detentore unico di tutti i poteri, "irresistibile" in quanto gli individui, nel riconoscergli legittimità attraverso il patto, di fatto negano la contraddittoria possibilità di resistergli. Nella concezione hobbesiana dello stato non può non trovare posto la Chiesa, che però non risulta un'entità indipendente, ma al contrario concorre alla realizzazione di uno Stato al contempo civile ed ecclesiastico, guidato dal medesimo detentore della sovranità. Hobbes infatti, nega con veemenza l'opportunità della separazione tra potere temporale e potere spirituale, in quanto tale divisione porterebbe i due poteri tentare continuamente di prevaricarsi, obbligando così i cittadini a dover obbedire a due sovrani. </div>
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Forse è ardito ritenere che Hobbes abbia fondato la moderna teoria politica, ma non mi stancherò mai di ripetere che, senza il suo contributo, teorie illuminanti come quelle di John Rawls e Robert Nozick non avrebbero trovato un terreno tanto fertile su cui germogliare e fiorire rigogliosamente.</div>
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<b>Matteo Andriola</b> </div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-12414288159554962752014-09-23T19:02:00.002+00:002014-09-23T19:02:31.495+00:00Introduzione al problema della conoscenza<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/-1I1FVAkTr7E/UHtGhE_zG6I/AAAAAAAACMs/hLiYvrZVIGc/s1600/Il-pensatore.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://1.bp.blogspot.com/-1I1FVAkTr7E/UHtGhE_zG6I/AAAAAAAACMs/hLiYvrZVIGc/s1600/Il-pensatore.jpg" height="232" width="320" /></a></div>
Da tempo mi interesso al problema della conoscenza e non posso negare di essere da sempre affascinato dalla ricerca militante in questo campo che mai e poi mai potrà risultare anacronistico, un terreno che in molti hanno provato a coltivare, e che dal tempo di Platone sino a quello di Hegel si è sempre mantenuto più che mai fertile. Ogni giorno utilizzo i miei sensi migliaia di volte, ma non mi illudo che ciò mi permetta di conoscere nel senso proprio del termine ed anzi, più li utilizzo e più mi convinco di quanto essi siano clamorosamente limitati. In molti hanno già dedicato pagine e pagine alla questione, e sono consapevole di aggiungermi ad una schiera piuttosto nutrita, ma le mie riflessioni mi hanno condotto entro un labirinto dal quale è assai difficile uscire, nel quale è particolarmente affascinante muoversi, pur dovendolo a volte obbligatoriamente fare con passo cautamente incerto. Smentendo San Tommaso, sembra accettabile riconoscere evidenti limiti alla conoscenza sensoriale, in quanto i cinque sensi permettono di conoscere in maniera "specifica" ( quella cosa, quell'oggetto, quell'individuo ) e, più o meno approfondita che sia, la conoscenza "particolare" non risulta essere in grado di fornirci un valido supporto per giungere a quella "universale".</div>
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Ma cosa si intende con questi due termini? Procediamo con ordine. La realtà, quella percepibile attraverso i sensi, presenta una miriade di casi particolari, ossia una moltitudine di manifestazioni parziali ( appunto "particolari" ) di insiemi che li racchiudono e che è opportuno definire "concetti". Il caso "particolare", dunque, altro non è se non una manifestazione di un concetto ma, si badi bene, soltanto "una" tra le molte possibili, e non certamente "la" manifestazione dell'insieme che lo include. Ogni concetto, dunque, si estrinseca in casi particolari, i quali si configurano come manifestazioni di esso, ad esso riconducibili, ma considerabili soltanto quali parziali testimonianze e non quali categorie o appunto concetti. A tal proposito, si consideri il seguente esempio: la "categoria" ( o "concetto" ) di "cane", di fatto, è un insieme che contiene molti sottoinsiemi rappresentati dalle differenti razze canine, i quali, a loro volta, contengono moltissimi elementi corrispondenti ai singoli cani esistenti. Ora, è chiaro ed evidente che la realtà sensibile, quella percepibile attraverso i sensi, è rappresentata dagli elementi ( i singoli esemplari ), in quanto gli unici ad essere raggiungibili dai sensi, gli unici che ad essi soggiaciono. Al concetto, alla categoria madre, non è possibile aver accesso attraverso i sensi, in quanto quello di "cane" è a tutti gli effetti un concetto cui possiamo facilmente ricondurre i vari sottoinsiemi e i moltissimi elementi, ma al quale non possiamo certo giungere attraverso la percezione sensibile, alla quale, semmai, soggiace appunto "un" cane o, se si preferisce, soggiaciono tutti i cani, intesi però come singoli esemplari ( o se si preferisce, come elementi di un insieme ). La conoscenza "particolare" ( che si rivolge sempre agli elementi e mai agli insiemi ), come lo è necessariamente quella sensibile, è inequivocabilmente parziale, in quanto ci può portare a conoscere molto, forse tutto di un determinato elemento, di quel preciso elemento, ma ci dice poco o nulla del concetto "universale", a cui non si potrà mai giungere attraverso la via sensibile, la quale, al più, in seguito all'acquisizione di molti casi particolari, ci potrà fornire degli strumenti utili per categorizzare induttivamente, ma non ci condurrà mai al concetto o categoria. In altri termini, la conoscenza di molti casi particolari ci potrà fornire, attraverso il ragionamento induttivo, la capacità di racchiudere un caso particolare entro un insieme, di inserire poi un insieme entro un altro insieme ( rendendolo di fatto un sottoinsieme ), ma non ci consentirà l'accesso al concetto, alla "conoscenza universale" o, se si preferisce, alla conoscenza "dell'universale", che ai sensi è destinata a rimanere inaccessibile, e non potrà mai ad essi soggiacere. Non solo: in alcuni casi, la conoscenza sensibile, oltre che limitata può risultare addirittura fuorviante, in quanto una conoscenza anche approfondita di numerosi casi particolari rischia di condurre il soggetto percepente, sempre attraverso il ragionamento induttivo, a categorizzare erroneamente, non tenendo conto delle eventuali eccezioni che, se presenti, sono destinate a invalidare la categorizzazione, rendendola falsa a tutti gli effetti. Come sostenuto da Bertrand Russell infatti, ai fini di una conoscenza universale, il ragionamento induttivo non può che risultare fallibile, in quanto un tacchino, dopo aver osservato un numero elevatissimo di casi particolari sempre uguali, potrebbe ben concludere che l'ora del suo pasto sia sempre la medesima, ma la vigilia di Natale, purtroppo per lui, si vedrebbe smentito e pronto per essere servito in tavola. Allo stesso modo, per quanto ci si possa sforzare di giungere a un qualunque concetto attraverso i sensi ( e l'unico modo apparentemente plausibile sarebbe proprio il ragionamento induttivo ), l'impresa non potrà che naufragare miseramente. La strada per giungere al concetto, ammesso che sia raggiungibile, è impervia e piuttosto tortuosa.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-18060690109694639692014-09-19T15:37:00.000+00:002014-09-20T21:31:08.826+00:00Heidegger è sempre Heidegger<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://blog.you-ng.it/wp-content/uploads/sites/4/2014/03/Heidegger_1955.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://blog.you-ng.it/wp-content/uploads/sites/4/2014/03/Heidegger_1955.jpg" height="320" width="267" /></a></div>
Non c'è niente da fare, di fronte a Martin Heidegger è sempre doveroso togliersi il cappello in segno di riverenza. Non esiste filosofo che sia stato capace di risultare al tempo stesso così moderno e così conservatore, in grado di sviluppare un pensiero così innovativo pur rimanendo saldamente ancorato alla tradizione. In qualunque epoca fosse vissuto, avrebbe comunque fatto il filosofo e questa sua naturale inclinazione alla teorizzazione, rende piuttosto difficoltoso introdurre un pensiero che certo risulta ostico in molti suoi aspetti. Sinceramente, non consiglierei <i>Essere e tempo</i> come testo da leggere per avvicinarsi alla Filosofia e onestamente non credo siano in molti ad essere in grado di comprenderlo appieno, tuttavia, contrariamente a quanto si possa pensare, ciò non ne sminuisce il valore, ma al contrario ne nobilita la qualità, facendone un testo filosoficamente del tutto elitario. Che esso rappresenti uno snodo decisivo nel lungo percorso filosofico però, è cosa innegabile. </div>
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Riesumando meritevolmente il pionieristico pensiero di Parmenide, Heidegger punta l'indice contro la Filosofia moderna, colpevole di aver accantonato in maniera del tutto ingiustificabile la ricerca sull'essere. Se però il capolavoro heideggeriano <i>Essere e tempo</i> inizia constatando la lontananza da tale ricerca, clamorosamente rifiuta di gettarsi a capofitto, come invece sarebbe legittimo attendersi, in una trattazione sull'essere in quanto tale, ma piuttosto si concentra sull'ente che con l'essere ha un rapporto privilegiato, ossia ciò Heidegger chiama "esserci" ( "Dasein" ) e noi tutti chiamiamo "uomo". Mi rendo conto che tale definizione possa risultare ostica, ma Heidegger vi ricorre a ragion veduta, utilizzandola per indicare la presenza dell'essere qui e ora, un'essere che appunto "c'è" e si realizza appieno soltanto nell'uomo che, contrariamente a tutti gli altri enti ( statici e immutabili ), si trova a poter scegliere tra un ventaglio di possibilità d'essere. Heidegger deve molto a Husserl, ma ha la forza e il coraggio di metterne parzialmente in discussione il pensiero, non condividendone la teoria secondo cui la percezione possa spiegarsi soltanto in relazione al soggetto percepente e che il manifestarsi non possa non dipendere dalla coscienza. In altri termini, laddove Husserl sosteneva che apparire significasse essere presente "fisicamente" dinanzi al soggetto percepente, Heidegger non lega indissolubilmente la presenza alla percezione diretta, ma sostiene che tutti gli enti siano effettivamente "presenti" per lo più in virtù della loro "utilizzabilità". Ogni ente dunque, vi è anche senza essere percepito, ma fintanto che non viene utilizzato, non può dirsi "presente", semmai soltanto "percepito". Heidegger non intende negare la teoria fenomenologica, ma con un ragionamento apparentemente contraddittorio sostiene che il fenomeno non sia soltanto ciò che si manifesta, ma che per certi versi sia anche e soprattutto ciò che non si manifesta. Ricorrere all'esempio è sempre utile: ipotizziamo di impugnare una matita e di iniziare a disegnare; il nostro rapporto con essa si ridurrebbe alla sua utilizzabilità, e non alla mera percezione, non alla sua "semplice presenza". La matita dunque, si manifesterebbe, sottraendosi alla pura percezione diretta, in quanto noi ci rapporteremmo ad essa utilizzandola per quella che è la sua reale funzione; in altri termini, ci rapporteremmo con un mezzo anziché con un oggetto, con un ente che in quel momento non ci giunge in quanto matita, bensì in quanto strumento. Heidegger definisce il rapporto con gli oggetti un "prendersi cura" di essi, legando il loro manifestarsi all'utilizzabilità. Quella che Heidegger definisce "semplice presenza" è la mera manifestazione dell'oggetto inteso come tale, ma non è la modalità primaria a disposizione dell'uomo per rapportarsi agli enti della conoscenza, che possono essere conosciuti appieno soltanto in virtù della loro utilizzabilità, appunto "prendendosene cura". Alla luce di quanto detto, tutti gli enti si inseriscono entro un disegno in cui ogni ente rimanda allo scopo per cui è utilizzabile; è il cosiddetto "sistema dei rimandi". L'intero sistema dei rimandi è il "mondo" e l'essere proprio dell'uomo, è un "essere nel mondo", ossia l'instaurazione di un insieme di rapporti fondato sull'utilizzabilità di tutti gli enti. Secondo Heidegger dunque, l'esistenza non si riduce alla conoscenza degli oggetti, ma legandosi indissolubilmente alla loro utilizzabilità, si concretizza in un vastissimo ventaglio di possibilità di utilizzo o, se preferiamo, di possibilità di azione. In altri termini, l'uomo esiste perchè agisce "attivamente", non perché percepisce "passivamente".</div>
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Potrei proseguire, il pensiero di Heidegger è molto vasto, ma per il momento credo sia giusto prendere atto della grandezza di un filosofo, la cui modernità riesce ancora a stupirmi.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/00469365826913796174noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8249210676276089788.post-8498150927217469682014-09-14T11:04:00.000+00:002014-09-14T21:49:17.166+00:00L'illusione di un governo giusto: la democrazia<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://haecceitasblog.files.wordpress.com/2012/09/atene-assemblea.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://haecceitasblog.files.wordpress.com/2012/09/atene-assemblea.jpg" height="238" width="320" /></a></div>
L'uomo non perde occasione per dimostrare di essere troppo facilmente ingannabile, ed anzi, molto spesso accetta addirittura l'inganno di buon grado, convincendosi di non essere vittima di un raggiro. Del resto, da qualunque prospettiva la si osservi, una buona menzogna è certo più rassicurante di una terribile verità. Chi la conosce, sa che la Storia è la maestra più sincera che esista quando si tratta di spiegare la società, e certo non mente quando ci insegna che l'uomo necessita sempre e comunque di una guida cui affidarsi totalmente, e poco importa se di tipo temporale o spirituale. Si è detto e scritto molto al riguardo, e la contemporaneità quotidiana non perde occasione per presentare i limiti sociali dell'essere umano, del tutto incapace di regolamentarsi senza assoggettarsi a un potere che gli imponga una linea direttrice piuttosto netta e marcata. Quella del "contratto sociale" è una teoria piuttosto affascinante, ma la sua validità è strettamente vincolata all'ipotetica condizione originaria dello "stato di natura", perchè se la si sposta sul piano pratico, inizia a fare acqua da tutte le parti. Aristotele forse non sbagliava definendo l'individuo un "animale politico", ma probabilmente ne sopravvalutava le qualità, intendendolo come protagonista attivo di un disegno che lo vede invece soltanto arrendevole subordinato.</div>
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L'evoluzione sociale ha visto l'individuo, in modi e contesti differenti, battersi ovunque per quei diritti che riteneva di meritare, e ciò soprattutto in campo politico ha generato dispute secolari che hanno contribuito a scrivere in maniera indelebile pagine e pagine di Storia. L'emancipazione del singolo si è realizzata attraverso l'illusione di poter scegliere il proprio destino, e la sua conseguente affermazione individualistica ha comportato una progressiva diminuzione del prestigio dei governi verticistici, che ha reso quasi ovunque la monarchia e i suoi surrogati, a prescindere degli opprimenti e retrogradi simboli di ingiustizia. Se per un uomo è difficile ammettere di avere un padrone, per una società è molto più difficile ammettere di essere suddita, e un sovrano, per quanto capace, è destinato a diventare un despota per il solo fatto di sedersi su un trono indossando una corona e impugnando uno scettro. Dittatori e tiranni hanno confermato un timore che però è motivato soltanto in relazione al caso specifico, in quanto essi non sono altro che la degenerazione di entità che non necessariamente sono destinate a negare diritti e giustizia ai subordinati. La sovranità popolare è stata ovunque accolta con grida trionfali ma spesso, il tanto celebrato desiderio di libertà è rimasto intrappolato nelle inestricabili trame della rete della teoria. Celebrare l'avvento di un governo di natura democratica aveva più senso ieri di quanto non ne abbia oggi e gli entusiasmi del passato erano motivati da quella che si configurava come una conquista anzitutto concettuale. In altri termini, la democrazia ateniese, la repubblica a Roma e l'abbattimento dell'ancien regime in Francia contribuirono in maniera determinante all'evoluzione ideologica della società, ma non rappresentarono in alcun modo un punto d'arrivo.</div>
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Il governo del popolo, oggi ovunque "indiretto", non ha migliorato la situazione, ma anzi, nella maggioranza dei casi non è trascorso molto tempo prima che l'entusiasmo lasciasse il posto al rimpianto. Il sogno della democrazia diretta è stato abbandonato da tempo, e nella stragrande maggioranza dei casi ciò che non passa attraverso il voto è ritenuto antidemocratico, ma analizzando la questione con attenzione, votare scegliendo tra un ventaglio di opzioni imposte dall'alto, di democratico ha soltanto il retrogusto. Quando Mark Twain sostiene che se il voto servisse a qualcosa non verrebbe concesso, è molto meno provocatorio di quanto si voglia credere e i governi eletti impiegano pochissimo tempo per snaturare la propria concettuale democraticità, virando verso direzioni decisamente antidemocratiche. Nulla vieta ad una monarchia di essere più democratica di una repubblica e indicando nel "politico onesto" il "politico capace", Benedetto Croce coglie nel segno, risolvendo una questione concretamente molto più semplice di quanto si possa credere. La democrazia ha snaturato se stessa rivelando il proprio inganno e divenendo nel tempo lo strumento preposto per deresponsabilizzare gli eletti che, a tutti gli effetti, si sentono investiti di un incarico che, in quanto figlio di un suffragio, pare essere giustificato in ogni sua azione. Socrate e Platone non avevano remore nel mostrarsi antidemocratici, cogliendo in tempi non sospetti la contraddizione di una forma di governo fondamentalmente utopistica. Molto tempo dopo, nel saggio <i>La democrazia in</i> <i>America</i>, Alexis de Tocqueville riterrà la "dittatura della maggioranza" ben più subdola e pericolosa della tirannia dei vecchi regimi dispotici, individuando proprio nel suo presunto punto di forza, il reale nervo scoperto della democrazia.</div>
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Le moderne democrazie, di democratico hanno ben poco e quella del voto è una "vittoria di Pirro", che in tempi neppure molto lunghi si ritorce contro un elettore che ha liberamente scelto un governo che si sente completamente legittimato in ogni sua azione proprio in virtù del voto che l'ha determinato. Contrariamente a quanto si possa pensare, la democrazia non spoglia i governi di quel rigido personalismo che necessariamente anima i singoli che li compongono, e l'illusione di un governo giusto, in grado di adoperarsi per la collettività, svanisce inesorabilmente al cospetto di un individualismo sempre più dilagante e pericoloso.</div>
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<b>Matteo Andriola</b></div>
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