venerdì 11 novembre 2016

Che Paese, l'America

Secondo un noto proverbio americano, il voto dell'Ohio corrisponde al voto della nazione, e infatti anche stavolta la tradizione è stata rispettata. Saggezza popolare a parte però, è innegabile che l'elezione di Donald Trump abbia sconvolto non poco un'opinione pubblica ancora poco propensa ad accettare l'esito di queste elezioni, anche se a bocce ferme il risultato appare in realtà meno clamoroso di quanto si voglia far credere. Al netto delle posizioni xenofobe e delle dichiarazioni sessiste, il magnate ha demolito con la retorica populista un'avversaria che della retorica e del populismo ha sempre fatto il proprio cavallo di battaglia; certamente il populismo è un'arma elettorale molto efficace a qualunque latitudine, e tutti coloro che si candidano ad occupare una poltrona sono sempre ben contenti di distribuirne a piene mani e senza limitazione. Il fallimento dei democratici è però il fallimento di un'idea che in questa società oramai fatica a reggersi in piedi, un'idea per cui la politica diventa un mestiere molto ben retribuito a prescindere dai risultati concretamente ottenuti; ma la debacle di Hillary Clinton coincide senza dubbio ( sarebbe stupido negarlo ) col fallimento della presidenza Obama, costruita attorno a simboli ideologici, grandi aspettative e succulente promesse mai mantenute.
Gli Stati Uniti in fin dei conti sono un Paese profondamente conservatore, in cui le pistole sono diffuse quanto i portachiavi e dove la pena capitale è da molti ritenuta uno strumento di giustizia legittimo e civile, una nazione nella quale per quarantadue volte ( prima di questa ) il presidente eletto è stato un maschio bianco. Hillary dunque, al contrario di quanti potessero credere, partiva ad handicap, ma se molti operai le hanno preferito un miliardario, evidentemente il suo programma avrebbe dovuto essere decisamente più convincente e accattivante per sperare di invertire una tendenza estremamente radicata. La posizione assunta in seguito allo scandalo che ai tempi coinvolse il marito poteva fare il suo gioco in un Paese troppo spesso contraddittoriamente bacchettone come l'America, ma se escludiamo l'impatto emotivo esercitato dalla Clinton, le proposte democratiche sono risultate troppo garantiste e inconsistenti per far presa su una popolazione evidentemente esasperata da lacerazioni sociali che ormai hanno raggiunto il parossismo. Non è difficile rendersi conto di come Trump abbia cavalcato un'onda certamente mai così propizia per chi come lui, in tempi diversi non avrebbe neppure mai lontanamente potuto pensare di candidarsi. Il miliardario repubblicano ha saputo toccare quelle corde che gli americani speravano venissero toccate, a prescindere da quello che si rivelerà l'effettivo mantenimento delle promesse; promettendo occupazione, lotta all'immigrazione clandestina e sicurezza, Trump ha probabilmente venduto un'illusione, ma Hillary nel frattempo è riuscita a vendere solamente la solita stucchevole retorica buonista. Trump ha vinto perchè lei ha perso, Trump è presidente perchè gli americani evidentemente credono che la malattia sia più tollerabile degli effetti collaterali di quella che troppo frettolosamente è stata spacciata per una miracolosa medicina. Chiamato a giocare al gioco della torre, il popolo "a stelle e strisce" ha scelto di lasciar cadere Hillary, preferendo scommettere sui proclami aggressivi di un magnate gonfio di dollari e "politicamente scorretto", piuttosto che accettare una maschera della virtù lungamente tollerata e oramai fin troppo ben conosciuta. Il tempo risponderà a molti interrogativi, ma l'impressione è che la montagna sia destinata a partorire un piccolo topo.

Matteo Andriola

martedì 19 luglio 2016

Non un golpe, ma una farsa

Che la Turchia fosse una polveriera era cosa nota, ma paradossalmente il tentato golpe ( anche se di questo non si è certo trattato ) mostra quanto quella realtà, nell'immaginario collettivo apparentemente così lontana culturalmente, sia in realtà poco dissimile da quella che si respira in molti paesi occidentali. Senza ipocrisie di sorta, è giusto riconoscere che tutti inizialmente, convinti che si trattasse effettivamente di un golpe e quasi affascinati dall'improbabile eventualità di un viandante del cielo che elemosinava asilo politico, abbiamo creduto che il grande architetto di questo tentativo sovversivo si trovasse comodo e pacifico a Mosca. Tutto assolutamente plausibile se si considera che Putin ha da tempo, per motivi peraltro mai taciuti, il dente avvelenato contro Erdogan, reo soprattutto di aver assunto una posizione decisamente ambigua nei confronti del terrorismo islamico. Le modalità, la durata e il fallimento del presunto golpe però, hanno rivelato in tempi brevissimi la verità, ossia hanno dimostrato che di golpe non si trattava affatto e che Putin, per grande fortuna del presidente turco, proprio nulla in tal senso aveva pianificato. I tempi del resto sono cambiati, e nella società attuale i rudimentali colpi di Stato di stampo sudamericano non sarebbero più neppure lontanamente ipotizzabili. Inoltre, non va dimenticato che Ankara, per dimensione e popolazione, non è propriamente il piccolo villaggio di Stepancikovo raccontato Dostoevskij e dunque, anche fingendo di credere che si sia trattato di una reale sovversione, non esiste sforzo di immaginazione in grado di farmi accettare l'idea che si sia potuto ristabilire l'ordine in un tempo così breve e in maniera tutto sommato indolore. Che Erdogan, nemico giurato della democrazia ( nonché vergognosamente negazionista circa il genocidio degli armeni ) si sia appellato proprio ad essa per riportare la situazione alla normalità è poi apparso subito contraddittorio, e la gestione del presunto problema ha aperto in tempi brevissimi uno squarcio su quella che di fatto era ed è la realtà dei fatti, ossia quella di una farsa finalizzata a consolidare agli occhi del cittadino medio la figura di un leader dal curriculum fin troppo eloquente in negativo. Erdogan, riportando l'ordine, in un sol colpo ha fornito una prova di forza e offerto una dimostrazione, evidentemente fasulla, di quanto egli sia un acceso sostenitore di quella democrazia che in realtà il suo governo certamente non incarna, a meno che con tale termine non si indichi qualcosa di diverso da ciò che con lo stesso gli antichi Greci intendevano. La posizione dei cosiddetti potenti della Terra, sempre molto attenti a non varcare i confini del "politicamente corretto", non è sorprendente purtroppo, ma mostra ancora una volta quanto la cricca ( Obama, Merkel e Hollande in testa ) sia più unita che mai nel gestire un equilibrio fondato scientificamente sul disordine; tutti cauti a pseudo golpe in corso, tutti sostenitori di un governo democraticamente eletto a farsa conclusa.
La Storia non mente, e qualunque colpo di Stato effettivamente tale si vada a ricercare entro i suoi meandri rivelerà caratteristiche del tutto diverse rispetto a ciò che per alcune ore in Turchia è stato ritenuto tale. Ora Erdogan, dopo aver puntato il dito contro l'odiato Gulen, conscio del potere deterrente della violenza e della paura, con il benestare di tutti punirà in maniera esemplare coloro che lui ha deciso di sacrificare in nome di questa infame recita funzionale al suo progetto, "signori nessuno" destinati in tempi brevissimi al dimenticatoio. A bocce ferme non si può fare a meno di constatare come il piano di Erdogan sia purtroppo perfettamente riuscito, in un colpo solo ha "riempito la botte" e "ubriacato la moglie"; che i potenti sempre molto puntuali quando si tratta di sfilare a braccetto e con volto costernato in ipocriti cortei d'occasione, siano conniventi è il "segreto di Pulcinella", anche perchè la Turchia pesa molto dal punto di vista militare, è una risorsa enorme per la NATO, e ciò purtroppo vale molto più della vita di una manciata di innocenti strumentalizzati e funzionali a un disegno più grande di loro. Nulla di democratico sotto il sole.

Matteo Andriola

venerdì 27 maggio 2016

Per uno studio su Giacomo Leopardi

I tentativi di ascrivere il pensiero di Giacomo Leopardi entro una determinata categoria filosofica risultano del tutto impossibili, un'impresa destinata a risolversi in completo e misero fallimento. Del resto, quale potrebbe essere la ragione per pensare soltanto di delimitare entro predeterminati confini un simile potenziale intellettuale, sapendo di trovarsi di fronte all'ingegno di quello che è indubbiamente uno dei maggiori e più completi pensatori che la Storia possa ricordare? Non può sorprendere che Giordani avesse intravisto uno smisurato talento in quel giovane certo al tempo ancora acerbo ma che, pur nella reclusione del "natio borgo selvaggio", iniziava a dar prova di una clamorosa conoscenza del mondo e soprattutto di una società che evidentemente comprendeva benissimo pur senza averla direttamente mai conosciuta. Soffermarsi su tale aspetto dell'analisi leopardiana è indubbiamente interessante e al contempo sorprendente, poiché uno sguardo attento può già notare negli scritti del giovane Leopardi una precocissima capacità di analisi di ciò che in effetti ancora non poteva conoscere, clamorosamente lucida e lungimirante al punto da risultare fin da subito talvolta addirittura profetica.
Senza lo Zibaldone, oggi non avremmo la fortuna di conoscere Giacomo Leopardi quanto effettivamente lo conosciamo, ma l'idea di questo diario, di questo "caos ordinato", pur ispirata dall'acuto consiglio del Vögel, deve aver attecchito immediatamente in un terreno che evidentemente doveva risultare fertile al punto da risolversi in un'enorme esternazione di ciò che il suo autore provava, e in definitiva di ciò che egli intrinsecamente era. Chi ritenesse le quasi cinquemila pagine di questo monumentale scritto alla stregua di una mera raccolta di pensieri "in libertà" commetterebbe un errore madornale, poiché nelle trame di un apparentemente caotico groviglio intellettuale si riscontra un'innegabile coerenza in grado di travalicare l'ordine strettamente cronologico di eventi e sensazioni, capace di configurarsi come vera e propria rappresentazione di un'interiorità desiderosa di esondare da quegli argini che la cattività familiare gli aveva forzatamente imposto e che la favola puerile L'Ucello, pur filtrata dai naturali limiti di una giovinezza non solamente anagrafica ma anche è soprattutto letteraria, inequivocabilmente tradiva. Il giovane Leopardi è proiettato all'infinito pur nella certezza di doversi continuamente confrontare con il limite invalicabile della crudele realtà, e non si rischia certo di cadere in contraddizione sostenendo ciò, in quanto la potenzialità del giovane è fin da subito destinata a fare i conti con una realtà che in tempi brevissimi gli presenta un dazio molto salato da pagare, e di conseguenza ciò che ci si ostina a considerare pessimismo è semmai un eccesso di realismo, ciò che oggi molti definiscono in maniera troppo sbrigativa "cinismo". La vicenda umana di Giacomo Leopardi non può essere sottovalutata, né si può azzardare un'analisi di ciò che il suo intelletto ci ha lasciato senza contemplare gli aspetti strettamente umani che soprattutto negli anni giovanili hanno scavato un solco profondissimo tra Leopardi e tutto ciò che si collocava al di fuori di lui. I Puerili in questo senso costituiscono almeno in parte un grido d'aiuto che però a Recanati nessuno poteva né voleva ascoltare, e analizzando la sconfinata letteratura leopardiana si dovrà convenire sul fatto che in ogni singola riga vi sia sempre e comunque l'autore al centro di un disegno ( qualunque esso sia ) in continua evoluzione e in perenne movimento. L'interiorità di Leopardi dunque, intimo palcoscenico in cui la Natura ha sconfitto senza difficoltà la divinità, è la pietra angolare di un percorso che si sviluppa seguendo linee direttrici inscindibili e indivisibili: quella letteraria e quella umana, salde in un rapporto simbiotico in cui la seconda sostiene la prima quasi fosse il suo scheletro portante. Non è ardito considerare dunque le opere della maturità ( soprattutto quelle in prosa ), prime fra tutte le Operette Morali, figlie di una gestazione lunga e complessa, iniziata in un periodo in cui Leopardi era soltanto un giovane di Recanati, colui che il Giordani chiamava affettuosamente "Contino".

Matteo Andriola

lunedì 8 febbraio 2016

Cosa resta del contemporaneo?

Epoche come quella che stiamo attraversando possiedono il non trascurabile vantaggio di prestarsi sempre e comunque ad analisi critiche, anche e soprattutto in virtù della tanto evidente quanto preoccupante latitanza di quella che molti chiamano etica, dispersa nella melma nichilista che Leopardi e Nietzsche, in tempi più o meno sospetti, avevano ampiamente previsto con lucida lungimiranza. Immolando la morale sull'altare dell'egoismo, si è colpevolmente accettato un collettivo tuffo nel precipizio del non ritorno, anteponendo sempre e comunque l'interesse del singolo a quello della società. Che la si osservi con l'occhio dell'ateo o meno, la società appare comunque senza un dio, assente più o meno giustificato, a seconda del punto dal quale ci si sforzi inutilmente di intravederlo. I conflitti religiosi tra monoteismi esagitati e belligeranti non sono nuovi nella loro essenza pretestuosa, e l'inconsistenza politica di potenze ( o presunte tali ) conniventi fondate sull'ipocrisia è quanto mai allarmante poiché conficca con decisione i chiodi nella bara di una speranza già da tempo morta e sepolta; alla faccia di Kant e della sua pace perpetua. L'individuo però non ha attenuanti, e certo non è meno colpevole accettando ovunque una spersonalizzazione metodica e costante capace di annichilire l'essenza stessa di ciò che ogni singolo e ogni società dovrebbero essere; gli ideali ( cosa poi saranno mai questi ideali? ), i cari vecchi ideali ai quali in periodi di crisi tutti si sentono in dovere di appellarsi, non vengono in ultima istanza mai neppure sfiorati. Sono scomparsi, spariti, decapitati dalla roncola di una contemporaneità che vende un "nulla" spacciandolo per un "tutto", che mercifica qualunque cosa, che toglie la speranza sostenendo ipocritamente di distribuirla. Ciò che per le bocche dei benpensanti prezzolati dovrebbe nobilitare l'uomo, in realtà è divenuto ciò che lo priva dell'unica cosa effettivamente in grado di nobilitarlo, ossia la libertà.
George Orwell fu profetico ipotizzando ( in questo caso in tempi evidentemente sospetti ) una società controllata dall'occhio del padrone, e mai come oggi 1984 dovrebbe diventare un testo obbligatorio per tutti, da leggere, rileggere e conservare gelosamente. La contemporaneità, questa ignobile contemporaneità fondata sul compromesso, ha avuto partita facile a insinuarsi subdolamente e proliferare in una società che si è imperdonabilmente negata sia la cultura sia quella bellezza che secondo il principe Myskin avrebbe presto o tardi salvato il mondo. Rileggendo L'idiota sono più che mai convinto che il protagonista del romanzo, evidentemente pervaso da immotivato ottimismo, abbia commesso un errore macroscopico ricorrendo al futuro anziché al condizionale; la bellezza semmai "salverebbe" il mondo, a condizione che questo si lasciasse però salvare. È fin troppo evidente però che il mondo, popolato da perversi demagoghi abilissimi a rovesciare la gerarchia delle priorità in nome di personali interessi, abbia scelto una lenta e dolorosa agonia, preferendola a una salvezza che forse sarebbe troppo responsabilizzante e faticosa da supportare. In tema di diritti assistiamo a sconcertanti scenari in cui la menzogna è divenuto lo strumento più utilizzato, e in cui il "politicamente corretto" assurge a nauseante e ipocrita consuetudine: all'occorrenza, tutti uniti e solidali in corteo, ma immediatamente pronti a divorarsi l'un l'altro il giorno successivo. Non esiste accettazione dell'altro, ma spesso neppure volontà di ottenere accettazione, non esiste realtà che non contempli la violenza come strumento risolutivo, non esiste società che non si fondi contemporaneamente sull'incoerenza e la contraddizione. Non potendo certamente scommettere su un presente indiscutibilmente e inesorabilmente nichilista, la fiducia nel futuro appare l'unica possibilità, anche se purtroppo ritengo sia obiettivamente mal riposta. Scegliere di sguazzare passivamente e arrendevolmente in questa contemporaneità è colpevole e intellettualmente abietto, ma al contempo è certamente la scelta maggiormente inflazionata, una scelta direttamente responsabile di un declino oramai inevitabile. Nessuno farà nulla per cambiare questa società, i gesti eroici sono materia di un'epica cronologicamente e concettualmente troppo lontana. Ci limiteremo, consapevolmente inconsapevoli, a osservare senza muovere un dito perchè, come sintetizzato dal sempre illuminante Guido Ceronetti: "Siamo come quelli delle Termopili. Sappiamo che i persiani passeranno ma noi restiamo lì".

Matteo Andriola

giovedì 19 novembre 2015

Kant e quelle tre prove che non valgono nulla

Filosoficamente parlando, salire sul carro di Kant è sempre conveniente perchè si può star certi di arrivare a destinazione avendo guadagnato molto più di quanto si possedeva in partenza. Non mi stancherò mai di esaltare l'intelletto straordinario di Immanuel Kant, e al contempo non posso fare a meno di sorprendermi sempre di fronte alla vastità e alla completezza del suo pensiero. Il dibattito circa l'esistenza della divinità è da sempre pane quotidiano per la filosofia, e nel corso della storia ha spesso e volentieri animato confronti accesi ai quali è ancora oggi difficoltoso se non impossibile sottrarsi. Proprio l'illuminismo aveva minato le fondamenta delle teorizzazioni religiose e Kant, che dell'illuminismo è innegabilmente figlio, decise di confrontarsi col problema, come del resto molti suoi contemporanei. Quella dell'esistenza di Dio era questione piuttosto spinosa e appunto dibattuta, e fondamentalmente si reggeva su tre fondamentali e consolidate dimostrazioni filosofiche di esistenza che Kant, pur non intendendo escludere la fede, decise smontare meticolosamente nella sezione della Critica della ragion pura denominata Dialettica trascendentale, sostenendo appunto non tanto l'inesistenza di Dio, quanto l'assoluta impossibilità di provarne scientificamente l'esistenza. In questo senso, il percorso kantiano prende le mosse dalla cosiddetta "prova ontologica" ( teorizzata per la prima volta, come noto, da Anselmo d'Aosta ) che secondo il filosofo risulta limitata in virtù del suo essere erroneamente aprioristica. Infatti, secondo tale dimostrazione, la sola definizione di Dio quale entità perfetta ne implicherebbe l'esistenza senza possibilità di smentita poiché, se mancasse dell'esistenza, all'entità in questione verrebbe meno quella perfezione che invece, a priori, le deve invece essere intrinseca. A parere di Kant però, l'errore fondamentale di tale prova risiede essenzialmente nell'assoluta impossibilità di estrapolare una realtà da un semplice concetto nudo e crudo, e per avvalorare la propria posizione ricorre al celeberrimo esempio monetario, sostenendo che l'acquisizione del concetto di cento talleri, non sia sufficiente per renderli reali e sonanti nelle tasche dei pantaloni di colui che riesce a concepirli concettualmente. La seconda prova con la quale Kant si confronta è quella "cosmologica", che dal canto suo procede in senso inverso ( ossia a posteriori ), sostenendo che la divinità sia necessaria poiché logicamente pretesa dalla contingenza del mondo. Anche questa teorizzazione però, secondo Kant presenta un nervo scoperto facilmente individuabile, consistente specificatamente nel fatto che dimostrare la necessità di un ente non necessariamente ne implica l'effettiva l'esistenza; in altri termini, è possibile teorizzare la necessità di un ente, ma la teorizzazione di fatto non contribuisce in alcun modo a renderlo effettivamente esistente. La terza prova che Kant demolisce, quella "fisico - teleologica", è di fatto la più antica e considerata nella storia della Filosofia, e poggia sulla presunta necessità di un'esistenza ordinatrice, intrinseca al creato. Kant confuta la tesi secondo cui il tutto necessiterebbe di una causa infinita e assolutamente perfetta, sostenendo che l'ordine del tutto sia "relativamente" perfetto, negando dunque che le sue regole possano valere universalmente, in tutti i casi e senza condizioni. Ipotizzare la perfezione assoluta di un'entità creatrice, significa balzare in un sol colpo dal finito della natura all'infinito di Dio. E ciò non è possibile.
L'approccio di Kant al problema generato dalle tre dimostrazioni è in linea con il suo consueto modus operandi filosofico, e se da un lato il taglio empirico dato all'analisi della problematica pare stridere con una questione che dovrebbe a rigor di logica essere affrontata in maniera differente, dall'altro dimostra la straordinaria unicità di un pensatore in grado di sconfinare a piacimento in qualunque territorio filosofico. Chapeau.

Matteo Andriola

domenica 15 novembre 2015

Riflessioni sulla tragedia parigina

Coloro che possono vantarsi di possedere buona memoria storica, sicuramente non perderanno tempo per appellarsi alle inaudite violenze di crociati, conquistadores e inquisitori, rispolverando un termine di paragone sempre valido quando si tratta di confrontarsi con aberrazioni perpetrate in nome di un dio, simili a quella accaduta in una Parigi ancora scossa dall'attentato alla sede del periodico Charlie Hebdo. La reminescenza storica è sempre una valida alleata quando si tratta di cercare di comprendere il presente, in questo Machiavelli aveva certamente ragione, ma in casi come questo non sarà in grado di fornire molti appigli per giustificare qualcosa che non potrà mai conoscere attenuanti né motivazioni valide, e del resto, lo sterminio di innocenti non punisce singoli colpevoli, ma nelle intenzioni colpisce soltanto i membri di un paese colpevole o presunto tale. Chiamare in causa una divinità prima del sacrificio ricorda gli epici scontri narrati da Omero, ma sotto le mura di Troia gli dei richiedevano la violenza poiché quella determinata società la contemplava come strumento necessario e comunque per certi versi anche rituale, e dunque collettivamente la accettava e tollerava. Il mondo moderno ha perduto la ritualità e il valore simbolico della violenza, di pari passo con la proliferazione delle religioni monoteiste nelle quali le divinità, dovendo in se stesse racchiudere tutte quelle qualità estremamente positive che la società desidererebbe ardentemente riconoscersi, si trovano ad escludere dalla propria essenza aspetti meno nobili, possibili di fatto solo ed esclusivamente col frazionamento della divinità stessa. Contrariamente a quanto si possa credere, non è necessario essere atei per sposare la tesi di Marx secondo cui la religione sarebbe l'oppio dei popoli, e la Storia, sempre generosa in fatto di esempi, ha confermato la validità del suo pensiero al riguardo, sancendone l'assoluta veridicità senza possibilità di smentita ed eccezione. Anche profondendo un immane sforzo, è difficile intravedere motivazioni strettamente religiose in una violenza che non ha vincitori né vinti, ma soltanto carnefici e vittime che, inneggiando ora al proprio dio, ora agli aleatori concetti di uguaglianza e giustizia, non fanno altro che perpetrare nel tempo una violenza sempre più gratuita e insensata che, al rovescio della medaglia, presenta il becero volto dell'intolleranza e dell'odio. Certamente non è difficoltoso comprendere come gli interessi in gioco siano di natura diversa da quanto in realtà si vorrebbe far credere e, paradossalmente, episodi simili lo dimostrano inequivocabilmente anziché smentirlo.
Culturalmente però, entrambe le fazioni ne escono con le ossa frantumate, poiché la cultura ( e con essa la capacità di analisi ), unico strumento realmente in grado di consentire all'umanità un salto qualitativo capace di eliminare quell'inaccettabile intolleranza che anima entrambi gli schieramenti che occupano le due opposte posizioni della barricata, viene purtroppo ogni giorno declassata come superflua e non necessaria. La pace perpetua sognata da Kant era ed è purtroppo destinata a rimanere un'utopia, ma la teorizzazione della stessa rimane un bene necessario per tentare almeno di incanalare la morale sociale sul giusto binario, comprendendo quanto la linea di demarcazione tra ciò che è giusto è ciò che è sbagliato debba spesso essere molto più netta di quanto invece non sia. La violenza è l'eclatante valvola di sfogo di un enorme problema socioculturale che oramai domina una società che ha eretto i palazzi del potere sulle fondamenta dell'odio e dell'intolleranza, subordinando inalienabili diritti quali la vita e la libertà intellettuale a interessi di natura certamente diversa. 
L'epoca nichilista annunciata a gran voce da Nietzsche è in realtà appena iniziata, e come sostiene Vattimo, dopo averne preso atto è inevitabile conviverci, accettandolo come condizione ineluttabile della moderna esistenza umana; le manifestazioni e i proclami che seguiranno questa ingiustificabile tragedia non sono altro che il consueto corollario ad episodi di questo tipo, e certamente in breve tempo si attenueranno fino a dissolversi precipitando nell'oblio del dimenticatoio, in attesa di ricomparire puntualmente all'occorrenza.

Matteo Andriola

venerdì 16 ottobre 2015

Fichte e i tre principi

Pur non risultando affatto semplice stabilire se sia Fichte ad essere in debito con Kant o viceversa, si è costretti a riconoscere che Johann Gottlieb Fichte, straordinario esponente dell'idealismo tedesco, si sia audacemente assunto una responsabilità notevole decidendo di risolvere l'annosa questione filosofica del "noumeno" nella maniera più netta e drastica possibile, ovvero eliminando quella "cosa in sé" che gli appariva una scoria dogmatica pervasa di intollerabile indimostrabilità. In realtà, la sua scelta, ponderata e motivata, prende le mosse da un problema effettivamente reale, ossia dall'impossibilità di poter dimostrare l'esistenza prescindendo dalla coscienza. Fichte intravede nella coscienza un innegabile potenziale attivo, e ritiene che all'interno di essa si giochi la partita relativa all'esistenza della realtà; in altri termini, partendo dall'assunto che la realtà esista in quanto produzione della coscienza, quest'ultima, producendo attivamente la propria rappresentazione della realtà, si trova secondo Fichte ad agire attivamente su di essa, anziché subirla. Definendo la coscienza attiva con il termine "io", egli afferma che l'esistenza stessa della coscienza sia il presupposto indubitabile dal quale è assolutamente impossibile prescindere, e partendo da tale tesi stabilisce i principi logici su cui, a suo giudizio, si fonderebbe il sapere. Il primo caposaldo della logica fichtiana, espresso dal postulato "l'io pone se stesso", asserisce che se la coscienza non si affermasse, ponendosi cioè autonomamente come attività rappresentativa, sarebbe di fatto impossibilitata a rappresentare; non sarebbe infatti pensabile che una coscienza potesse rappresentare senza aver anticipatamente preso coscienza di sè. Ma c'è di più. Il secondo principio, espresso dal postulato "l'io pone un non-io", merita grande attenzione, poiché ciò che Fichte definisce "non-io" sta a indicare una qualunque realtà esterna all'io, ossia dunque esterna alla coscienza; porre un "non-io" è secondo il filosofo una conditio necessaria affinché l' "io" possa affermare anzitutto se stesso, ma se ciò è indiscutibilmente vero, ne consegue obbligatoriamente che le due attività debbano essere non soltanto inconsce ma anche e soprattutto unitamente contemporanee, poiché soltanto avendo al contempo coscienza di un qualcosa d'altro, l' "io" può da esso distinguersi affermandosi come autonoma entità. L'unità dei due momenti è del resto saldamente ancorata a fondamenta logiche in quanto, se vi fosse un rapporto di subordine, l' "io" sarebbe impossibilitato a porsi poiché, mancando un'alterità, verrebbe meno la sua possibilità di distinguersi e autoaffermarsi rispetto a tutto ciò che è appunto altro da lui; la concomitanza dei due momenti dunque, esclude ogni ipotesi di subalternità, riducendoli senza possibilità di smentita ad un unico e inscindibile momento dialettico. Presupponendo unità, i due momenti richiedono una logica conciliazione, che secondo Fichte scaturisce da un rapporto dialettico fondato sulla limitazione ( o negazione che dir si voglia ) reciproca. Per ricorrere all'esempio concreto, un "non-io" limita un "io" non in quanto suo opposto ( e ciò del resto sarebbe impossibile ), ma in virtù del suo essere altro; un albero non è la limitazione totale di un "io", ma soltanto una limitazione parziale, poiché "non è" l' "io" pur tuttavia non essendo neppure il suo opposto. Ed infatti, tale limitazione è possibile soltanto se ciò che ad essa è soggetto risulta divisibile in parti. Proprio tale divisibilità ( che di fatto corrisponde alla possibilità di essere frazionabile ) rende possibile l'opposizione tra "io" e "non-io", evitando un reciproco annullamento; se per assurdo infatti l' "io" opponesse a se stesso tutto il "non-io" creerebbe una dialettica fra opposti con conseguente annullamento delle due parti. Non esistendo nella realtà soggetto e oggetto assoluti, la limitazione può avvenire soltanto fra parti; inoltre, l'opposizione fra "io" e "non-io" non può che avvenire entro la coscienza finita poiché nella realtà ogni rappresentazione appartiene a un soggetto concreto e non certo assoluto. Molteplici realtà limitano ogni coscienza ( o se si preferisce, molteplici "non-io" limitano ogni "io" ) in quanto le si oppongono come qualcosa d'altro che, sebbene non sia, come detto, a lei opposto, le si contrappone parzialmente proprio in virtù del suo essere parte di un'entità divisibile ( appunto il "non-io" ). Ciò spiega il terzo principio della logica fichtiana, espresso dal postulato "L'io oppone nell'io a un io divisibile un non-io divisibile".

Matteo Andriola