giovedì 19 novembre 2015

Kant e quelle tre prove che non valgono nulla

Filosoficamente parlando, salire sul carro di Kant è sempre conveniente perchè si può star certi di arrivare a destinazione avendo guadagnato molto più di quanto si possedeva in partenza. Non mi stancherò mai di esaltare l'intelletto straordinario di Immanuel Kant, e al contempo non posso fare a meno di sorprendermi sempre di fronte alla vastità e alla completezza del suo pensiero. Il dibattito circa l'esistenza della divinità è da sempre pane quotidiano per la filosofia, e nel corso della storia ha spesso e volentieri animato confronti accesi ai quali è ancora oggi difficoltoso se non impossibile sottrarsi. Proprio l'illuminismo aveva minato le fondamenta delle teorizzazioni religiose e Kant, che dell'illuminismo è innegabilmente figlio, decise di confrontarsi col problema, come del resto molti suoi contemporanei. Quella dell'esistenza di Dio era questione piuttosto spinosa e appunto dibattuta, e fondamentalmente si reggeva su tre fondamentali e consolidate dimostrazioni filosofiche di esistenza che Kant, pur non intendendo escludere la fede, decise smontare meticolosamente nella sezione della Critica della ragion pura denominata Dialettica trascendentale, sostenendo appunto non tanto l'inesistenza di Dio, quanto l'assoluta impossibilità di provarne scientificamente l'esistenza. In questo senso, il percorso kantiano prende le mosse dalla cosiddetta "prova ontologica" ( teorizzata per la prima volta, come noto, da Anselmo d'Aosta ) che secondo il filosofo risulta limitata in virtù del suo essere erroneamente aprioristica. Infatti, secondo tale dimostrazione, la sola definizione di Dio quale entità perfetta ne implicherebbe l'esistenza senza possibilità di smentita poiché, se mancasse dell'esistenza, all'entità in questione verrebbe meno quella perfezione che invece, a priori, le deve invece essere intrinseca. A parere di Kant però, l'errore fondamentale di tale prova risiede essenzialmente nell'assoluta impossibilità di estrapolare una realtà da un semplice concetto nudo e crudo, e per avvalorare la propria posizione ricorre al celeberrimo esempio monetario, sostenendo che l'acquisizione del concetto di cento talleri, non sia sufficiente per renderli reali e sonanti nelle tasche dei pantaloni di colui che riesce a concepirli concettualmente. La seconda prova con la quale Kant si confronta è quella "cosmologica", che dal canto suo procede in senso inverso ( ossia a posteriori ), sostenendo che la divinità sia necessaria poiché logicamente pretesa dalla contingenza del mondo. Anche questa teorizzazione però, secondo Kant presenta un nervo scoperto facilmente individuabile, consistente specificatamente nel fatto che dimostrare la necessità di un ente non necessariamente ne implica l'effettiva l'esistenza; in altri termini, è possibile teorizzare la necessità di un ente, ma la teorizzazione di fatto non contribuisce in alcun modo a renderlo effettivamente esistente. La terza prova che Kant demolisce, quella "fisico - teleologica", è di fatto la più antica e considerata nella storia della Filosofia, e poggia sulla presunta necessità di un'esistenza ordinatrice, intrinseca al creato. Kant confuta la tesi secondo cui il tutto necessiterebbe di una causa infinita e assolutamente perfetta, sostenendo che l'ordine del tutto sia "relativamente" perfetto, negando dunque che le sue regole possano valere universalmente, in tutti i casi e senza condizioni. Ipotizzare la perfezione assoluta di un'entità creatrice, significa balzare in un sol colpo dal finito della natura all'infinito di Dio. E ciò non è possibile.
L'approccio di Kant al problema generato dalle tre dimostrazioni è in linea con il suo consueto modus operandi filosofico, e se da un lato il taglio empirico dato all'analisi della problematica pare stridere con una questione che dovrebbe a rigor di logica essere affrontata in maniera differente, dall'altro dimostra la straordinaria unicità di un pensatore in grado di sconfinare a piacimento in qualunque territorio filosofico. Chapeau.

Matteo Andriola

domenica 15 novembre 2015

Riflessioni sulla tragedia parigina

Coloro che possono vantarsi di possedere buona memoria storica, sicuramente non perderanno tempo per appellarsi alle inaudite violenze di crociati, conquistadores e inquisitori, rispolverando un termine di paragone sempre valido quando si tratta di confrontarsi con aberrazioni perpetrate in nome di un dio, simili a quella accaduta in una Parigi ancora scossa dall'attentato alla sede del periodico Charlie Hebdo. La reminescenza storica è sempre una valida alleata quando si tratta di cercare di comprendere il presente, in questo Machiavelli aveva certamente ragione, ma in casi come questo non sarà in grado di fornire molti appigli per giustificare qualcosa che non potrà mai conoscere attenuanti né motivazioni valide, e del resto, lo sterminio di innocenti non punisce singoli colpevoli, ma nelle intenzioni colpisce soltanto i membri di un paese colpevole o presunto tale. Chiamare in causa una divinità prima del sacrificio ricorda gli epici scontri narrati da Omero, ma sotto le mura di Troia gli dei richiedevano la violenza poiché quella determinata società la contemplava come strumento necessario e comunque per certi versi anche rituale, e dunque collettivamente la accettava e tollerava. Il mondo moderno ha perduto la ritualità e il valore simbolico della violenza, di pari passo con la proliferazione delle religioni monoteiste nelle quali le divinità, dovendo in se stesse racchiudere tutte quelle qualità estremamente positive che la società desidererebbe ardentemente riconoscersi, si trovano ad escludere dalla propria essenza aspetti meno nobili, possibili di fatto solo ed esclusivamente col frazionamento della divinità stessa. Contrariamente a quanto si possa credere, non è necessario essere atei per sposare la tesi di Marx secondo cui la religione sarebbe l'oppio dei popoli, e la Storia, sempre generosa in fatto di esempi, ha confermato la validità del suo pensiero al riguardo, sancendone l'assoluta veridicità senza possibilità di smentita ed eccezione. Anche profondendo un immane sforzo, è difficile intravedere motivazioni strettamente religiose in una violenza che non ha vincitori né vinti, ma soltanto carnefici e vittime che, inneggiando ora al proprio dio, ora agli aleatori concetti di uguaglianza e giustizia, non fanno altro che perpetrare nel tempo una violenza sempre più gratuita e insensata che, al rovescio della medaglia, presenta il becero volto dell'intolleranza e dell'odio. Certamente non è difficoltoso comprendere come gli interessi in gioco siano di natura diversa da quanto in realtà si vorrebbe far credere e, paradossalmente, episodi simili lo dimostrano inequivocabilmente anziché smentirlo.
Culturalmente però, entrambe le fazioni ne escono con le ossa frantumate, poiché la cultura ( e con essa la capacità di analisi ), unico strumento realmente in grado di consentire all'umanità un salto qualitativo capace di eliminare quell'inaccettabile intolleranza che anima entrambi gli schieramenti che occupano le due opposte posizioni della barricata, viene purtroppo ogni giorno declassata come superflua e non necessaria. La pace perpetua sognata da Kant era ed è purtroppo destinata a rimanere un'utopia, ma la teorizzazione della stessa rimane un bene necessario per tentare almeno di incanalare la morale sociale sul giusto binario, comprendendo quanto la linea di demarcazione tra ciò che è giusto è ciò che è sbagliato debba spesso essere molto più netta di quanto invece non sia. La violenza è l'eclatante valvola di sfogo di un enorme problema socioculturale che oramai domina una società che ha eretto i palazzi del potere sulle fondamenta dell'odio e dell'intolleranza, subordinando inalienabili diritti quali la vita e la libertà intellettuale a interessi di natura certamente diversa. 
L'epoca nichilista annunciata a gran voce da Nietzsche è in realtà appena iniziata, e come sostiene Vattimo, dopo averne preso atto è inevitabile conviverci, accettandolo come condizione ineluttabile della moderna esistenza umana; le manifestazioni e i proclami che seguiranno questa ingiustificabile tragedia non sono altro che il consueto corollario ad episodi di questo tipo, e certamente in breve tempo si attenueranno fino a dissolversi precipitando nell'oblio del dimenticatoio, in attesa di ricomparire puntualmente all'occorrenza.

Matteo Andriola

venerdì 16 ottobre 2015

Fichte e i tre principi

Pur non risultando affatto semplice stabilire se sia Fichte ad essere in debito con Kant o viceversa, si è costretti a riconoscere che Johann Gottlieb Fichte, straordinario esponente dell'idealismo tedesco, si sia audacemente assunto una responsabilità notevole decidendo di risolvere l'annosa questione filosofica del "noumeno" nella maniera più netta e drastica possibile, ovvero eliminando quella "cosa in sé" che gli appariva una scoria dogmatica pervasa di intollerabile indimostrabilità. In realtà, la sua scelta, ponderata e motivata, prende le mosse da un problema effettivamente reale, ossia dall'impossibilità di poter dimostrare l'esistenza prescindendo dalla coscienza. Fichte intravede nella coscienza un innegabile potenziale attivo, e ritiene che all'interno di essa si giochi la partita relativa all'esistenza della realtà; in altri termini, partendo dall'assunto che la realtà esista in quanto produzione della coscienza, quest'ultima, producendo attivamente la propria rappresentazione della realtà, si trova secondo Fichte ad agire attivamente su di essa, anziché subirla. Definendo la coscienza attiva con il termine "io", egli afferma che l'esistenza stessa della coscienza sia il presupposto indubitabile dal quale è assolutamente impossibile prescindere, e partendo da tale tesi stabilisce i principi logici su cui, a suo giudizio, si fonderebbe il sapere. Il primo caposaldo della logica fichtiana, espresso dal postulato "l'io pone se stesso", asserisce che se la coscienza non si affermasse, ponendosi cioè autonomamente come attività rappresentativa, sarebbe di fatto impossibilitata a rappresentare; non sarebbe infatti pensabile che una coscienza potesse rappresentare senza aver anticipatamente preso coscienza di sè. Ma c'è di più. Il secondo principio, espresso dal postulato "l'io pone un non-io", merita grande attenzione, poiché ciò che Fichte definisce "non-io" sta a indicare una qualunque realtà esterna all'io, ossia dunque esterna alla coscienza; porre un "non-io" è secondo il filosofo una conditio necessaria affinché l' "io" possa affermare anzitutto se stesso, ma se ciò è indiscutibilmente vero, ne consegue obbligatoriamente che le due attività debbano essere non soltanto inconsce ma anche e soprattutto unitamente contemporanee, poiché soltanto avendo al contempo coscienza di un qualcosa d'altro, l' "io" può da esso distinguersi affermandosi come autonoma entità. L'unità dei due momenti è del resto saldamente ancorata a fondamenta logiche in quanto, se vi fosse un rapporto di subordine, l' "io" sarebbe impossibilitato a porsi poiché, mancando un'alterità, verrebbe meno la sua possibilità di distinguersi e autoaffermarsi rispetto a tutto ciò che è appunto altro da lui; la concomitanza dei due momenti dunque, esclude ogni ipotesi di subalternità, riducendoli senza possibilità di smentita ad un unico e inscindibile momento dialettico. Presupponendo unità, i due momenti richiedono una logica conciliazione, che secondo Fichte scaturisce da un rapporto dialettico fondato sulla limitazione ( o negazione che dir si voglia ) reciproca. Per ricorrere all'esempio concreto, un "non-io" limita un "io" non in quanto suo opposto ( e ciò del resto sarebbe impossibile ), ma in virtù del suo essere altro; un albero non è la limitazione totale di un "io", ma soltanto una limitazione parziale, poiché "non è" l' "io" pur tuttavia non essendo neppure il suo opposto. Ed infatti, tale limitazione è possibile soltanto se ciò che ad essa è soggetto risulta divisibile in parti. Proprio tale divisibilità ( che di fatto corrisponde alla possibilità di essere frazionabile ) rende possibile l'opposizione tra "io" e "non-io", evitando un reciproco annullamento; se per assurdo infatti l' "io" opponesse a se stesso tutto il "non-io" creerebbe una dialettica fra opposti con conseguente annullamento delle due parti. Non esistendo nella realtà soggetto e oggetto assoluti, la limitazione può avvenire soltanto fra parti; inoltre, l'opposizione fra "io" e "non-io" non può che avvenire entro la coscienza finita poiché nella realtà ogni rappresentazione appartiene a un soggetto concreto e non certo assoluto. Molteplici realtà limitano ogni coscienza ( o se si preferisce, molteplici "non-io" limitano ogni "io" ) in quanto le si oppongono come qualcosa d'altro che, sebbene non sia, come detto, a lei opposto, le si contrappone parzialmente proprio in virtù del suo essere parte di un'entità divisibile ( appunto il "non-io" ). Ciò spiega il terzo principio della logica fichtiana, espresso dal postulato "L'io oppone nell'io a un io divisibile un non-io divisibile".

Matteo Andriola

giovedì 3 settembre 2015

Era un bambino con una maglietta rossa

Neppure disponendo di cinismo in sovrabbondante misura sarebbe possibile rimanere insensibili di fronte alle drammatiche immagini che in questi giorni hanno consentito al mondo di apprendere l'esistenza della città turca di Bodrum; l'immagine di un bambino il cui corpo privo di vita viene restituito dalle onde quasi fosse il relitto di una nave, si è imposta con una violenza inaudita agli occhi di una società che ancora una volta non si è lasciata sfuggire l'occasione per mostrare la più assoluta mancanza di coscienza. Non può esistere posizione politica in situazioni simili, e di fronte a quella vita ingiustamente spezzata possono trovare spazio soltanto il dolore, la pietà e la rabbia per un innocente che, come la maggior parte dei suoi piccoli coetanei, in spiaggia si dovrebbe spensieratamente divertire con paletta e secchiello. Eppure, sebbene certamente la vicenda riesca a far breccia nella sensibilità di ogni essere umano, essa è una medaglia che al rovescio presenta la faccia di quell'ipocrisia che oramai ammorba senza distinzione una società che ha colpevolmente deciso di consegnarlesi senza neppure l'onore delle armi. Soltanto l'immagine della morte, sempre di sicuro impatto, riesce a far si che chi osserva da privilegiato la vicenda metta momentaneamente da parte l'umano rancore e il colore della propria fazione, decidendo di affacciarsi fugacemente alla finestra per gettare lo sguardo su un dramma di cui quella morte ingiustificabile è in definitiva solamente un abominevole emblema. La gestione di una situazione di tale drammaticità dovrebbe richiamare all'ordine coloro che, in un modo o nell'altro, avrebbero il dovere adoperarsi per tentare di risolvere un problema che invece si preferisce mantenere in vita in nome di interessi non meglio specificati; non sta a me indicare quale possa essere la possibile soluzione, non è il mio mestiere, eppure mi trovo costretto a constatare quanto le lacrime per quella vita prematuramente spezzata siano nella maggior parte dei casi figlie dell'impatto di un'istantanea, poiché se quotidiani e notiziari si fossero limitati a darne solamente la notizia, comunicando il decesso di quel povero bambino senza colpa, nessuno già se ne ricorderebbe, e l'eco della notizia non sarebbe diverso da quello provocato da una qualunque altra notizia. E infatti non serve certo una straordinaria capacità di analisi per rendersi conto della veridicità di tutto ciò, giacché ogni giorno vengono recuperati tra l'indifferenza generale cadaveri di persone che, partite alla ricerca della speranza, l'hanno perduta ancor prima di illudersi di poterla trovare.
Dostoevskij aveva ragione nel ritenere la sofferenza l'origine della coscienza, ma temo che in casi come questo il dolore non abbia originato proprio nulla, semmai la reazione dell'uomo comune di fronte all'immagine di un piccolo corpo inerme con la testa rivolta alla sabbia, si riduce a una poco edificante partecipazione convenzionale, e unirsi idealmente in cordoglio convince l'individuo di possedere quella coscienza di cui invece troppo spesso dimostra di non disporre. Provo disgusto di fronte agli annunci di quegli ipocriti benpensanti che, balzando indignati sulla propria poltrona per una vicenda figlia della diseguaglianza sociale, si rifiutano di ammettere che l'etica abbia molte più responsabilità della politica, poiché non occorrerebbe neppure essere troppo lungimiranti per comprendere come la morte di innocenti sia soltanto la logica conseguenza di un problema come quello cui stiamo da tempo assistendo. L'interesse politico - economico getterà in tempi brevi nel dimenticatoio quella creatura, e la sua maglietta rossa diverrà al più l'immagine per un libro di Storia; senza un salto qualitativo culturale, la situazione non migliorerà di certo, e quella coscienza troppo frequentemente invocata a sproposito che dovrebbe imporsi in ogni singolo per poi propagarsi al suo esterno divenendo coscienza sociale, rimarrà purtroppo ancora a lungo tristemente nascosta. Trovo sia addirittura superfluo indicare la nazionalità di quel bambino, poiché il valore della vita deve obbligatoriamente prescindere dal luogo di provenienza, e il sentimento della pietà non potrà mai dipendere dall'orientamento religioso; quel piccolo corpo rappresenta solo e soltanto la sconfitta di una società che, indignandosi per qualche istante, nella convinzione di essersi ripulita la coscienza dimostra solamente per l'ennesima volta di non possederla.

Matteo Andriola

lunedì 3 agosto 2015

Giusto e sbagliato: un'analisi concettuale

Qui di seguito viene riportato un estratto di uno studio al quale da tempo mi sto dedicando, in vista di un'esposizione seminariale


Giusto e sbagliato sono concetti dei quali troppo frequentemente si tende ad abusare, tirandoli in ballo spesso senza particolare cognizione di causa. La stessa Filosofia è da sempre foriera di intuizioni e teorizzazioni più o meno significative al riguardo, ma la necessità di districarsi entro il meraviglioso ginepraio della teoria rende il lavoro, sebbene complicato, decisamente dinamico e stimolante; Platone, Aristotele, Rousseau, Kant, Beccaria, Rawls e molti altri si sono interessati al problema della giustizia, elaborando, come vedremo, teorie a volte divergenti, a volte convergenti. Da tempo, anch'io mi sto interrogando circa il reale valore di tali concetti e il loro intrinseco significato, e il mio interesse filosofico ha in questi tempi svoltato in tale direzione. Non posso negare che l'osservazione corra sempre in mio aiuto, offrendomi spesso validissimi strumenti per aprire nuovi squarci sulla tela della ricerca. L'universalità è merce molto rara, e troppo spesso si deve arrendere di fronte al predominio del particolare, il quale, poggiando sulla concretezza, riesce sempre ad articolarsi in molteplici esempi di natura più diversa. Non ho mai pensato che negare la loro dignità di esistenza nel campo dell'universale sia un grande azzardo, poiché non serve spingersi verso lidi troppo lontani per veder confermata tale ipotesi. Il passaggio dalla teoria alla prassi è però in questo caso doveroso per introdurre al problema, e a tal proposito gli esempi indubbiamente si sprecano, ma dovendo scegliere un caso emblematico, ritengo la pena capitale possa assolvere adeguatamente il compito. Prescindendo dalla posizione che chiunque possa avere al riguardo, è ora sufficiente constatare come la pratica in questione sia, a seconda del contesto e dei singoli individui, ritenuta una soluzione ( e dunque giusta ) oppure un'aberrazione ( e dunque sbagliata ); più banalmente, vita quotidiana non può sottrarsi all'annosa questione relativa a ciò che è giusto e ciò che non lo è, e in nome di tali concetti ogni individuo effettua o non effettua quotidianamente le proprie scelte, anche quelle apparentemente più insignificanti.
L'antiteticità delle posizioni parrebbe gettare confusione sulla ricerca in questione, eppure, a ben osservarla, essa è in grado di offrire un quadro piuttosto esplicativo di una problematica sempre dinamica e meritevole di ricerche filosofiche. È assolutamente evidente che un concetto quale la giustizia, e dunque anche quale il suo contrario, debba entrare entro la sfera legislativa di una società, inclusa un'ipotetica società anarchica ( la cui stessa costituzione sarebbe ritenuta nella fattispecie assolutamente giusta e inviolabile ai fini del mantenimento della società in questione ), nonché entro la sfera decisionale di ogni singolo soggetto. La convivenza di società e soggetti regolati da differenti sistemi normativi mostra chiaramente quanto la strada del giusto e dello sbagliato non sia benedetta dall'evidenza, e rende difficoltoso comprendere come si possa giungere a dirimere la questione. Certo non è semplice, ma non ho molti dubbi nell'indicare la strada della morale come l'unica eventualmente percorribile; ritengo sia insindacabile che qualunque normativa atta a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è infatti, necessiti di un precedente inquadramento morale. Per punire un reato occorre prima determinarlo come tale, stabilendo cioè che esso vada a ledere un qualche diritto che, al contrario, sarà da ritenersi imprescindibile oltre ogni ragionevole dubbio. Ad esempio, si è generalmente concordi nell'indicare nel furto la violazione di un diritto, e dunque si è ben disposti nel riconoscerlo come sbagliato, considerando di conseguenza come giusta la punizione per un ladro; eppure, se qualcuno sottraesse un qualcosa precedentemente sottrattogli, decidendo di riappropriarsene sarebbe ugualmente un ladro? In caso di risposta negativa, solamente il primo furto sarebbe sbagliato, mentre il secondo diverrebbe addirittura giusto, il che invaliderebbe di fatto la tesi del furto come atto universalmente sbagliato. Analogamente, il comportamento del singolo non potrà esimersi da una ponderazione precedente la messa in atto dello stesso. Senza sciorinare ora una miriade di esempi pratici, è doveroso aggiungere che chiunque, singolo o società che sia, nella valutazione morale di giusto e sbagliato subisca, come si vedrà in seguito, l'influenza del proprio filtro ( culturale o religioso che sia ) rimanendone irrimediabilmente condizionato. Ne consegue però che, a seconda del suddetto filtro, ogni azione, decisione o valutazione possa apparire in molti modi, senza per questo poter essere appunto valutata come intrinsecamente giusta o intrinsecamente sbagliata, impossibilitata a presentarsi con un unico volto. La stessa vita è un diritto inalienabile certo, ma provocatoriamente si può anche asserire che lo sia in determinati contesti e situazioni; qualora infatti l'uccisione di un despota consentisse di salvare un'intera società, la violazione del diritto alla vita sarebbe ancora da considerarsi assolutamente sbagliata? O piuttosto i concetti in questione non sono altro che un'elaborazione figlia del particolare? Già ora potrei riportare molti esempi ( del resto l'excursus potrebbe essere interminabile ), ma sono assolutamente certo che tutti concorrerebbero a consolidare la risposta affermativa a quest'ultimo interrogativo.
La questione è spinosa, anche perchè non si può neppure negare come i due concetti, per acquisire effettivamente valore, richiedano un'unanime accettazione all'interno della società poiché, a conti fatti, da questo e solo da questo dipende il loro eventuale rispetto. Questo è un aspetto non meno importante del problema che prenderò in esame. Ma com'è possibile ottenere accettazione alla luce di una totale mancanza di universalità? Ammetto di essere in difficoltà di fronte al quesito, ma se dovessi indicare un solo strumento di accettazione, non avrei dubbi a puntare il dito in direzione dell'abitudine. Un gruppo di singoli infatti, più o meno numeroso, riterrà giusto o sbagliato ciò che la consuetudine gli avrà insegnato ad accettare come tale, e ciò, in definitiva, altro non è se non un'ulteriore dimostrazione di quanto i concetti di giusto e sbagliato possano esistere soltanto in relazione a un contesto, di quanto difettino di quell'universalità che sarebbe la loro condizione necessaria di esistenza e validità. Ma procediamo con ordine...

Matteo Andriola

mercoledì 8 luglio 2015

Husserl e l'innovazione fenomenologica

Filosoficamente, il Novecento inizia con la pubblicazione da parte di Edmund Husserl delle Ricerche logiche, un testo spartiacque destinato a determinare la nascita della fenomenologia. Il termine in realtà era già stato introdotto da Hegel, ma l'accezione husserliana è decisamente diversa, poiché ora la fenomenologia si assume il compito di porsi come filosofia prima avente per oggetto di analisi i fenomeni. A Husserl, per il quale sarà determinante l'incontro con Franz Brentano, va riconosciuto di aver infuso dinamismo a una ricerca che sembrava aver esaurito la propria spinta propulsiva con le teorizzazioni di Kant e Schopenhauer che avevano avuto, tra gli altri, l'incomparabile merito di essersi dedicati alla ricerca intorno al concetto di fenomeno inteso come ciò che si manifesta o appare.
Approfondendo la questione, il fenomeno però, secondo Husserl, non si riduce solamente a ciò che viene percepito attraverso i sensi, ma è anche ciò che si manifesta astrattamente nel ricordo oppure ciò che si configura come evidentemente vero ( ad esempio l'aritmetica ) o anche solamente come apparentemente vero ( ad esempio confondere un'immagine per un'altra ). Iniziare col piede giusto non è semplice, poiché occorre accettare di considerare l'individuo intendendolo in quanto coscienza che, nella concezione husserliana, instaura con un determinato dato un rapporto che è il frutto dell'interazione tra il dato stesso e quello che viene definito "modo di datità", ossia il modo in cui il dato "si concede" al soggetto. Tale interazione viene da Husserl definita "intenzionalità", e di conseguenza lo studio della fenomenologia si deve considerare a tutti gli effetti come lo studio di tutti i "fenomeni intenzionali", quelli cioè vissuti dalla "coscienza intenzionale".
Husserl è consapevole di dover fronteggiare il passato filosofico più o meno recente, e inizia la propria opera sfidando a duello lo "psicologismo logico", colpevole di ricondurre la logica alla psicologia, riducendola a mero fenomeno naturale. Egli non ha riserve nel ritenere assurda tale posizione, sostenendo che i fautori dello psicologismo, filosoficamente parlando, peccassero gravemente nel momento in cui si rifiutavano di tener in conto la sostanziale differenza tra l'atto psichico in cui il pensiero si concretizza e il contenuto cui l'atto si riferisce. È innegabile infatti che possano esistere migliaia di atti psichici senza che il contenuto cui essi si riferiscono subisca la benché minima variazione ( un'espressione matematica può essere svolta innumerevoli volte da soggetti diversi, ma il risultato corretto rimarrà sempre il medesimo ) e ciò avverrebbe, secondo Husserl, in virtù del fatto che gli atti psichici sussistono idealmente, indipendentemente dall'evento psichico sensibile che li rende manifesti ( ed è impossibile non scorgere la filosoficamente onnipresente ombra platonica in tale posizione ). Nello specifico, l'errore imperdonabile consiste nell'identificare il dato col già menzionato "modo di datità". Addentrarsi entro un simile ginepraio filosofico però, è tanto stimolante quanto pericoloso e se Husserl si limitasse ad affondare il coltello nel corpo dello psicologismo, rischierebbe una condanna non meno severa di quella che lui stesso gli voleva infliggere. Infatti, il mosaico fenomenologico può completarsi solamente trovando una soluzione alla questione relativa all'accesso del soggetto alla dimensione ideale e Husserl, gettando sul tavolo la carta della cosiddetta "visione eidetica", ossia quell'intuizione che si genera in noi dalla visione di oggetti considerati indipendentemente dalla loro natura strettamente formale ( ad esempio, osservando un gruppo di quattro persone, cogliamo il numero quattro benché questo fisicamente non sia presente ), riesce a incastrare magistralmente l'ultima tessera.
Entro i confini della fenomenologia dunque, il concetto di fenomeno non si riduce ad essere soltanto ciò che appare, ma anche il suo modo di manifestarsi, che di fatto non risulta immediatamente evidente né tantomeno soggettivo. In altri termini, sostiene Husserl, ciò che il soggetto ha davanti è anzitutto un qualcosa di indipendente e possiede determinate caratteristiche che non dipendono in alcun modo da colui che le percepisce, e in questo senso, il filosofo introduce il concetto di "senso oggettuale" per indicare quelle peculiarità assolutamente proprie dell'oggetto e assolutamente indipendenti dal soggetto. Fondamentalmente l'innovativo squarcio aperto dalla fenomenologia consiste nell'aver inteso il fenomeno come il frutto di un'indissolubile sintesi tra "dato" e "modo di datità", e in virtù di ciò ne consegue che il fenomeno possa essere colto solamente con "atteggiamento fenomenologico", considerando cioè l'indissolubile sintesi appena menzionata. Per fare ciò però, sarà necessario sospendere ( "epochè fenomenologica" ) il senso oggettuale per concentrarsi sulla correlazione tra "dato" e "modo di datità", riconoscendo di fatto alla coscienza un ruolo di preponderante.

Matteo Andriola

lunedì 4 maggio 2015

Teoria e prassi nel pensiero di Jürgen Habermas

Tra i filosofi viventi, una particolare attenzione la merita senza alcun dubbio Jürgen Habermas, pensatore in grado come pochissimi di analizzare criticamente la realtà, osservandola quanto mai lucidamente in una maniera che quasi ossimoricamente amo definire come conservativamente lungimirante. Mi sono avvicinato alla sua filosofia con la giusta dose di scetticismo, ma ho conosciuto un pensatore clamorosamente all'avanguardia, degno collante tra le teorie filosofico-politiche passate e la freneticamente instabile modernità. Affrontando il pensiero di Habermas, si è inevitabilmente costretti a confrontarsi ripetutamente con le teorie di Marx ( dal cui determinismo tuttavia, a mio parere a ragione, prende le distanze ) cui innegabilmente deve moltissimo, e a parer mio non è neppure possibile negare l'influenza esercitata dal pensiero di Kant sul suo modus cogitandi, ma è sorprendente riscontrare come, pur rimanendo saldamente ancorato a concezioni filosofiche a lui precedenti ( su tutte quelle di Marx e Weber ) egli riesca a modellare un pensiero in grado di adattarsi quasi sartorialmente a una società in continuo mutamento. Non va dimenticato che Weber fu anzitutto un sociologo, peraltro di gran lunga superiore a quanto si sia disposti a riconoscere, e le sue teorie si fondavano sulla metodica osservazione di una società che vedeva la borghesia recitare indiscutibilmente il ruolo del protagonista dell'epocale cambiamento socio-economico che allora si stava verificando. A mio giudizio, Habermas è spesso troppo accademico, ma il suo contributo appare subito fondamentale in quanto la sua vanga filosofica si preoccupa di smuovere un terreno che, a mio giudizio, alla luce delle contingenze sociali, culturali ed economiche attuali, non potrebbe mai e poi mai essere lasciato a maggese. Trovando nella prassi un valido alleato, Weber aveva teorizzato che il denaro fosse, al pari del potere, l'elemento in grado di condizionare maggiormente i comportamenti umani, veicolandoli verso punti d'arrivo precisi e mirati, e che il capitalismo borghese avesse irrimediabilmente virato con grande decisione in direzione del consumismo. Quest'ultimo, in una logica perversa, avrebbe poi portato all'idealizzazione del possesso materiale e del suo susseguente consumo, divenendo a tutti gli effetti il termometro del benessere personale all'interno della società contemporanea. Accanto al consumismo, sosteneva Max Weber, la burocrazia aveva assunto un ruolo preponderante, divenendo la forma attraverso la quale il potere si esercitava trovando concretizzazione. Il denaro e il potere quindi, nella visione weberiana, concorrevano alla frantumazione della tanto ambiziosa quanto necessaria pretesa di individuare un senso alla vita dell'individuo, che di conseguenza però, si risolveva ad essere a tutti gli effetti uno strumento in vista di un fine. Weber aveva fatto centro, e oggi non possiamo non rendercene conto. Habermas non può fare a meno di riprendere tali punti di vista, peraltro difficilmente negabili, ma lavorandoci alacremente ( e attingendo anche al pensiero di Husserl ) vi integra concetti nuovi individuando all'interno della società contemporanea l'esistenza di due veri e propri livelli costituenti: il "sistema" e il "mondo della vita". Il primo coincide con l'aspetto rigidamente strumentale e prescrive azioni finalizzate al raggiungimento di precisi scopi quali ad esempio il possesso e il potere. Il secondo livello riguarda una sfera differente, ossia quella costituita dai valori e dalle tradizioni caratterizzanti una determinata società ( intesa però quale gruppo umano ) ed esprimibili attraverso il linguaggio.
Secondo Habermas, il capitalismo, con il suo sistema politico-economico, mediante il denaro e il potere, interferisce subdolamente con questa seconda sfera, non limitandosi a veicolarne i valori, ma di fatto addirittura determinandoli, tracciando vere e proprie linee guida, in grado di generare i caratteri peculiari del consumatore in quanto tale. Le necessità di quest'ultimo si traducono nella domanda che, attraverso i mezzi di diffusione, conia una forma mentis collettiva e irrimediabilmente standardizzata. La deriva irrazionale, di conseguenza, diviene inevitabile poiché tale irrazionalità è data proprio dal fatto che il sistema politico-economico, anziché uno strumento, diviene il solo e unico fine, che all'appagamento del bisogno, preferisce il mantenimento di se stesso ad oltranza. Habermas rivolge la propria attenzione anche all'opinione pubblica, che a suo giudizio si è nel tempo decisamente ridimensionata e snaturata, divenendo un mero strumento mediatico capace addirittura di rinnegare la propria essenza di pensiero comune. Se ciò è vero, allora sarà impossibile per chiunque non constatare la vittoria della ragione strumentale, cui il "mondo della vita" appare, oggi più che mai, totalmente asservito e subordinato. Non credo sia il caso di deporre le armi, ma vorrei avere lo stesso ottimismo di Habermas quando, complice il suo continuo richiamo all'Illuminismo, lascia uno spiraglio alla società, considerandola un insieme di individui capaci di relazionarsi attraverso un agire comunicativo in virtù del quale sarebbe potenzialmente ancora in grado di intervenire sull'agire strumentale invertendo la tendenza. Responsabilizzare l'individuo può essere una grande idea, ma purtroppo, anche considerando l'abissale distanza intellettuale che ci separa dall'Illuminismo, può esserlo soltanto nel meraviglioso mondo della teoria.

Matteo Andriola

martedì 28 aprile 2015

Introduzione a Sartre

Recentemente mi è stato chiesto di introdurre il pensiero filosofico di Jean Paul Sartre, presentando i caratteri fondamentali del suo esistenzialismo, evidenziandone la struttura e gli eventuali limiti. Certo di non sbagliare, ho sempre ritenuto L'essere e il nulla un'opera straordinaria, in grado di aprire fondamentali squarci nella tela di una ricerca filosofica tanto attuale e dinamica quanto intricata e complessa, meritevole di continui approfondimenti, termine di paragone irrinunciabile in questioni di esistenzialismo.
Analogamente ad Heidegger, Sartre concentra la propria ricerca sul concetto di essere, distinguendone due fondamentali manifestazioni: come essere "in sé" e come essere "per sé". Il primo si riduce a tutto ciò che è sprovvisto di coscienza ma con cui la coscienza continuamente si rapporta, ossia il mondo; il secondo invece, è l'essere presente a se stesso consapevole della propria individualità. Addentrandosi approfonditamente nella questione, entro la teorizzazione di Sartre, "in sé" e "per sé" si oppongono l'uno all'altro generando un rapporto in cui il primo risulta coincidere con tutto ciò che non è coscienza, ovvero il mondo inteso esclusivamente nella sua immutabile staticità. In altri termini, ciò che si oppone alla coscienza risulta irrimediabilmente identico a se stesso senza eccezioni, e tale condizione, non soggetta a mutamento, vincola alla mera immediatezza ogni dato esterno alla coscienza. Sartre sa bene di essersi incamminato su uno tra i sentieri filosofici più impervi che siano mai stati tracciati, e sceglie di procedere per gradi attribuendo all'essere "per sé" la responsabilità maggiore, ossia quella di attribuire senso e significato a quel mondo che gli si oppone esclusivamente con la sua pesante e immutabile staticità. La coscienza infatti risulta essere intrinsecamente "possibilità" e, in quanto tale, mutamento e perpetuo superamento; l'uomo conferisce significato all'essere "in sé" mediante la potenzialità nullificatrice della coscienza che possiede appunto la peculiarità di rendere nulla l'immediatezza di un dato, manipolandola al fine di mutarne senso e significato. Sartre, lo si capisce perfettamente, deve moltissimo ad alcune teorizzazioni a lui precedenti ma del resto, addentrandosi nei meandri dell'essere, sapeva bene che prima o poi si sarebbe dovuto confrontare con le gigantesche teorizzazioni di Heidegger, Husserl e Parmenide; tuttavia, non è possibile fare a meno di notare come egli riesca nel non facile compito di integrare una ricerca filosofica fondamentale, facendo perno proprio sul potenziale nullificatore della coscienza per giungere addirittura a far coincidere quest'ultima con il nulla. Secondo Sartre infatti, l'uomo risulta egli stesso un nulla, poiché la sua coscienza non può prescindere da quel processo di nullificazione che è l'imprescindibile innesco del processo conoscitivo: il "per sé" infatti può rapportarsi solo e soltanto a ciò che "non è" coscienza e che ad essa si oppone. Il discorso è ampio e complesso, ma questa teorizzazione preparatoria spiana la strada all'introduzione dell'illuminante concetto di libertà in quanto, secondo Sartre, l'uomo risulta libero soltanto in virtù di questo suo essere coscienza, poiché la libertà coincide proprio con la possibilità di attribuire significato e senso a qualcosa ( l'"in sé" ) che intrinsecamente non ne avrebbe. È questa dunque la libertà nella filosofia di Sartre, una libertà attorno alla quale ruota il suo esistenzialismo, che inevitabilmente responsabilizza l'individuo anteponendone clamorosamente l'esistenza alla stessa essenza: l'uomo infatti, in virtù della propria libertà, altro non è se non ciò che liberamente sceglie di essere. Attingendo ancora una volta al pensiero di Heidegger, Sartre intravede però nella libertà una vera e propria condanna poiché l'uomo, destinato ad affermare dinamicamente la propria libertà, può di fatto riuscirci solamente attraverso il continuo e perenne superamento di ciò che esiste, mediante la propria potenzialità di scegliere. Perpetrare la scelta a oltranza è di fatto la vera essenza dell'uomo in quanto egli è ciò che è soltanto in virtù della propria perpetua scelta che, contrariamente a quanto si possa credere, non è secondo Sartre facoltativa, bensì inevitabile e impossibile da negare. Vittima della condanna ad affermare la propria libertà mediante la scelta, l'uomo si riduce a scegliere continuamente, e di fatto, in virtù di ciò, risulta sempre e comunque responsabile senza condizioni. Osservandola attentamente però, la medaglia della libertà rivela al suo rovescio le fosche tinte del concetto dell'angoscia. Uscendo dalla metafora, Sartre sostiene in definitiva che l'uomo si riduca ad essere ciò che non è, poiché la libertà intesa come scelta implica una progettazione in costante divenire in cui la perennemente instabile possibilità d'essere vanifica la stabilità del presente. In altri termini, condannato al continuo mutamento attraverso la scelta, l'individuo risulta costretto a convivere con l'aspettativa di divenire ciò che ha progettato, vivendo uno stato di perenne e angosciante attesa derivante dalla presa d'atto dell'incompiutezza di un'esistenza dominata dal perpetuo superamento del senso e del significato. Ci sarebbe molto da aggiungere.

Matteo Andriola

lunedì 16 marzo 2015

Kierkegaard e il problema della scelta

Ho sempre considerato Søren Kierkegaard come un filosofo anomalo, un pensatore illuminato e affascinante, poco propenso a fornire soluzioni e risposte, quanto piuttosto orientato verso la spiegazione e l'analisi di problematiche e situazioni che lo conducono a erigere strutture di pensiero sempre figlie di profonde osservazioni e meticolose elaborazioni. Spesso per tale motivo, a torto, lo si ritiene lontano dalla grandezza di altri filosofi, ma personalmente ho sempre visto in lui un pensatore straordinario, moderno e conservatore al tempo stesso, in grado di fornire continuamente fondamentali argomenti d'indagine. Quello della "scelta" è sicuramente uno di questi.
Partendo dall'assunto che l'esistenza umana si riduca fondamentalmente alla "possibilità", in Enten-Eller, cui la comune traduzione Aut-Aut non rende completamente giustizia, il filosofo danese presenta la celeberrima contrapposizione tra i due ideali di condotta di vita: quello estetico e quello etico. Nella vita estetica, incarnata dalla figura di Don Giovanni, dominano la fugace ricerca del piacere e dell'estemporanea ebbrezza quali condizioni tese a impedire l'incanalamento dell'esistenza verso finalità concrete e definite, strumenti atti a evitare una qualsivoglia concretizzazione dell'esperienza vitale. L'esteta infatti, di fronte alla possibilità, di fatto rinuncia a scegliere, coltivando esclusivamente l'interessante, subendo passivamente la bellezza anziché dominarla attivamente. È proprio questa vita inconcludente e incompiuta ad appagare l'esteta, che ha nella rinuncia alla scelta in luogo del godimento dell'istante, la propria esaltante vittoria. La non scelta però, teorizza Kierkegaard, violenta se stessa nel momento in cui subentra nell'esteta la consapevolezza che rifiutarsi di scegliere sia in realtà l'innesco di un rovesciamento dell'essenza stessa della possibilità che, proprio in virtù della non scelta, diviene di fatto impossibile e dunque, ciò che in prima istanza appariva appagante, in realtà non risulta tale proprio perchè irresoluto e incompiuto. Senza concretizzazione, la possibilità genera quindi angoscia, e la ripetitività dell'incompiutezza vanifica un percorso, quello estetico, che porta l'esteta a "non essere" o, se si preferisce, a "poter essere" in eterno.
Kierkegaard, sulla cui filosofia le personali tribolazioni religiose e sentimentali lasciano un segno molto più netto di quanto si voglia ammettere, sviluppa una teorizzazione che spesso, troppo frettolosamente si crede di aver dominato. Infatti, occorre uno sforzo intellettuale significativo per comprendere come il pensatore danese non cada in contraddizione sostenendo che, contrariamente alla concezione che in origine convince l'esteta della propria assoluta indipendenza, la libertà risieda in definitiva proprio nella scelta che inizialmente rifuggeva, nel poter scegliere in vista di una realizzazione individuale; il soggetto estetico, se vorrà realizzare se stesso e la propria essenza, rinunciando alla condotta estetica, non potrà fare a meno di svoltare in direzione etica. La virata etica non deve ritenersi però la tappa di un naturale e progressivo percorso, quanto piuttosto un cambiamento drastico ed emotivamente violento, una presa di coscienza del nulla insito in sé o, se si preferisce, va inteso come quella scelta che l'individuo, fintanto che si trovava a vivere lo stadio estetico, rifiutava a priori e di cui in realtà era assolutamente incapace. Tra le possibilità che gli si prospettano, l'uomo etico, incarnato dalla figura del marito, diviene tale proprio sgombrando il campo dalle opzioni e decidendo di scegliere una e una sola via, quella che gli permetterà di dare concretezza a se stesso, divenendo ciò che è. Strumento determinante affinché l'esteta possa virare in direzione etica è la disperazione, quel sentimento generato dalla presa di coscienza della propria nullità. La disperazione dunque, nella concezione kierkegaardiana si configura come condizione necessaria e per certi aspetti addirittura positiva, in quanto la sola a permettere all'esteta la piena comprensione del valore della scelta. La scelta etica però, a conti fatti, è a sua volta un palliativo poiché non necessariamente salva l'individuo dall'errore del peccato, in quanto il rispetto delle norme vigenti nella società in cui vive diviene, in seguito alla scelta, una nuda e cruda conformazione alle consuetudini, un moralismo figlio di un senso del dovere scaturente dal fatto che quella determinata società impone "conditio sine qua non" il rispetto aprioristico di determinate norme. L'obbligatorietà dell'allineamento a una norma però non rende necessariamente il suo rispetto un ossequio, quanto piuttosto soltanto un accettabile compromesso, un viatico per poter vivere entro quella società che porta però l'individuo etico a sprofondare nell'abisso dell'universalità, anziché in quello della singolarità come avveniva per l'esteta. Neppure l'ideale etico dunque può considerarsi un traguardo accettabile, e il ripiegamento su Dio diviene, a giudizio di Kierkegaard, inevitabile, anche se certamente non privo di difficoltà. È ancora una volta la disperazione, peraltro consapevole, a generare quell'insoddisfazione necessaria per gettarsi a capofitto nella scelta religiosa. Si tratta della svolta più difficile e coraggiosa in quanto richiede il totale annichilimento della ragione in luogo dell'assurdo, del paradossale e dell'incomprensibile; in altri termini, la scelta religiosa richiede un totale annullamento di sé, paradossalmente funzionale all'affermazione della propria individualità. Nella fede infatti, pur ritrovando la propria individualità, occorre spogliarsi di qualunque residuo di razionalità e lanciarsi nell'abisso dell'incomprensibile, nel profondo e spiazzante abisso di Dio. Secondo Kierkegaard infatti, Dio chiede ossequio incondizionato verso qualcosa che alla ragione non può che apparire assurdo e irragionevole se misurato secondo un criterio razionale, in quanto si sottrae completamente al suo metro di valutazione. Occorre credere a Dio, e per certi versi fidarsi di ciò che chiede senza condizioni accettando l'imperscrutabile e l'incomprensibile. Soffermiamoci infatti sull'episodio del sacrificio di Isacco: cosa ci può essere di razionale  nella richiesta avanzata da Dio ad Abramo? Come può la ragione comprendere una richiesta così terribile e razionalmente ingiustificabile? Non la può comprendere, ma la svolta religiosa richiede accettazione e solitudine.

Matteo Andriola

sabato 28 febbraio 2015

Dentro alla morale kantiana: il concetto di imperativo

Lo ammetto, davanti alla vastità del pensiero di Immanuel Kant provo sempre una sensazione di soggezione, un timore reverenziale che a volte mi spaventa. Posso provarci, ma non riuscirò mai, almeno credo, a comprendere come la mente umana possa giungere a una teorizzazione tanto smisurata e complessa. Anche se Nietzsche non sarebbe d'accordo, so bene di trovarmi di fronte a quello che, filosoficamente parlando, è senza dubbio un genio strutturale, né del resto posso negare di aver conosciuto Konigsberg per il fatto che questa cittadina gli abbia dato i natali, ma non esagero se sostengo pubblicamente di poterne argomentare a buon diritto. Kant infatti è tradizionalmente ostico per tutti, ma personalmente, pur essendo convintamente nietzscheano, ho sempre trovato un particolare feeling con la sua filosofia, e per quanto lui abbia sempre tentato di mettermi in difficoltà, senza presunzione posso affermare che, pur essendoci spesso riuscito, non abbia mai ottenuto il mio scalpo. Il suo criticismo è una brutta gatta da pelare, ma se si riesce a comprenderne l'intelaiatura, allora sarà impossibile negarne la grandezza, e sarà molto difficile evitare di tenerselo come compagno di viaggio per tutti gli studi filosofici successivi. Kant è sfuggente, è vero. Anzi, è un filosofo che difficilmente si piega al volere di chi lo studia, ma se gli si è fedeli, certamente si verrà ripagati con la stessa moneta.
Il mare magnum kantiano è molto pescoso, ma scegliere il punto in cui gettare l'amo non è semplice. Ho sempre trovato illuminante la teorizzazione kantiana relativa alla morale e per questo, evitando preamboli potenzialmente fuorvianti, decido di addentrarmi nella Critica della ragion pratica, analizzando i sempre fondamentali concetti di imperativo ipotetico e imperativo categorico. Nella sezione denominata Analitica, Kant, animato dal desiderio di individuare i principi in grado di regolare la volontà, effettua la distinzione tra "massime" e "imperativi". Entro il suo sistema, le massime si configurano come precetti dal valore meramente soggettivo, mentre gli imperativi, di valore oggettivo, hanno pretesa di universalità, sono cioè validi senza esclusione né condizione per tutti gli esseri razionali.
Da buon illuminista Kant, comprendendo che la teorizzazione necessiti di fondamenta più che mai solide, desume che la sensibilità e la ragione procedano su binari decisamente separati, in cui la prima possa piegarsi solo forzatamente ai comandi della seconda, proprio grazie all'autorità degli imperativi, che impongono all'inclinazione sensibile una regola universalmente valida. Nella sua analisi del resto, è certamente il primo a rendersi conto di percorrere una strada più volte battuta e, fedele alle ben note biforcazioni costanti nel suo pensiero, effettua una distinzione all'interno del concetto stesso di imperativo: l'imperativo può essere ipotetico ( se l'azione è rivolta a un fine ed è condizionata dal fine in questione ) o categorico ( se comanda incondizionatamente a prescindere da un fine, valevole cioè oggettivamente ). Secondo Kant, tra ragione e sensibilità esiste un insolubile intrinseco contrasto, e solo un comando della ragione può riuscire a piegare la sensibilità e condurre all'universalità. Tutto ciò concorre ad escludere la possibilità che la legge espressa dall'imperativo categorico possa essere per così dire "materiale", e ci impone di considerarla solo e soltanto dal punto di vista "formale". Kant esclude dunque che essa possa prescriverci cosa fare, sostenendo invece che ci debba semmai indicare come comportarsi al fine di realizzare un'azione moralmente corretta. Prendendo le mosse dalla formula generale, l'imperativo categorico ha tre svincoli fondamentali che ne strutturano il percorso ampliandone sempre più la completezza. La formula generale impone di agire secondo una massima che si vuole assuma validità universale. È chiaro ed evidente che il principio che ci guida debba portarci ad analizzare i limiti e gli estremi della sua portata, debba cioè portare ad interrogarsi se si tratti di una massima o di un imperativo. E fin qui va bene. Kant però inizia ad articolare il postulato generale, asserendo che si debba agire come se la massima in questione dovesse diventare un'universale legge della natura, riconoscendole di fatto la capacità di sconfinare nell'universo sensibile. La formulazione prosegue con un'ulteriore integrazione che prescrive di agire intendendo sempre come fine e mai come mezzo sia la propria persona, sia quella di ogni altro, in quella che si configura come una vera e propria affermazione della dignità. L'ultimo passaggio prescrive di agire in modo tale che la volontà, relativamente alla massima, possa riconoscere a se stessa un'universale capacità legislatrice. Questa terza formulazione può ritenersi il punto d'arrivo del percorso in quanto essa, di fatto, giunge ad affermare un caposaldo imprescindibile della morale kantiana, ossia l'autonomia, che dunque, proprio in virtù di se stessa, è e sarà sempre libera.
La vera moralità però, per essere realmente tale, deve necessariamente obbedire per ossequio alle leggi che essa stessa si impone, e non rispettare prescrizioni esterne soltanto per paura delle conseguenze che la loro trasgressione comporterebbe. In questo senso, la "soprasensibilità" di cui parla Kant altro non è se non la capacità dell'uomo morale di imporsi leggi in grado di assumere valore universale proprio perchè indipendenti dalla sfera sensibile e, proprio per questo, ad essa applicabili. Nel riconoscere la superiorità della ragione però, Kant non può negare che l'uomo agisca comunque anche nell'universo sensibile, soggiacendo conseguentemente a inclinazioni e desideri appunto sensibili; ciò di fatto lo porta a constatare come l'uomo possa rispettare le leggi morali soltanto riuscendo ad accettarle come un mero dovere. Infatti, non è proprio dell'essere umano, semmai di un santo, seguire spontaneamente una legge morale; essendo però impossibile la santità terrena, la ragione dovrà riuscire a imporre alla sensibilità il proprio primato, costringendola di fatto a piegarsi forzatamente al suo cospetto. Ed infatti, secondo Kant, l'azione morale è proprio quell'azione in cui la ragione, ergendosi sulla sensibilità, le impone il proprio primato gerarchico. Ci sarebbe molto altro da aggiungere.

Matteo Andriola

giovedì 5 febbraio 2015

Spinoza e l'unicità della sostanza

Baruch Spinoza è un filosofo molto pretenzioso, richiede sempre grande impegno e costanza, ma se si è disposti a concedergli il massimo sforzo, saprà ripagare con gli interessi la fatica profusa. Rifiutare una cattedra ad Heidelberg per salvare la propria autonomia intellettuale dice molto di questo straordinario filosofo olandese scomunicato dalla comunità ebraica con l'infamante accusa di eresia. Non è semplice inquadrare un pensatore tanto controverso, eppure la sua filosofia è tra le più ambiziose e al contempo coraggiose che si possano studiare.
Spinoza erige il proprio sistema filosofico sull'unico caposaldo a suo dire impossibile da scardinare: Dio. Il Dio di Spinoza è dotato di infiniti attributi infinitamente perfetti, e al di fuori di esso non può esserci assolutamente nulla. In altri termini, se si ammette che Dio sia tutto, esso dovrà allora necessariamente coincidere con la Natura, in quanto la sua totalità, per ovvie ragioni, escluderebbe senza appello una sua separazione dal creato, che quindi con esso si troverebbe armoniosamente a coincidere. Tale panteismo si identifica come un ordine necessario, e peraltro, elemento non trascurabile, geometricamente strutturato. L'Etica del resto, ci si presenta da subito proprio con un'architettura geometrica, e la sua suddivisione in definizioni, assiomi, proposizioni, dimostrazioni e scoli altro non è se non la prova che per Spinoza tutto, senza eccezioni, derivi da Dio secondo un rigido rapporto di causa - effetto. Nella sua teorizzazione però, Spinoza, che innegabilmente deve moltissimo a Parmenide, non può sottrarsi al confronto con quello che ai miei occhi è destinato a rimanere uno dei filosofi più sopravvalutati di sempre, ossia Cartesio. Analizzandone il pensiero, Spinoza aveva coraggiosamente puntato il dito contro il suo sistema, accusandolo di essersi colpevolmente e imperdonabilmente contraddetto. Ho sempre sposato con convinzione la teoria di Spinoza e ritengo che abbia ragione nell'individuare una una falla macroscopica nel dualismo cartesiano. Infatti, se da un lato Cartesio affermava che Dio per esistere non necessitasse di nulla se non di se stesso, dall'altro definiva contraddittoriamente sostanze anche la "res cogitans" e la "res extensa" che però, dipendendo da Dio, non potevano in realtà avere dignità di sussistenza. Spinoza, che filosoficamente vale molto più di Cartesio, individua in Dio l'unica e sola sostanza ( in quanto causa di se stesso, infinito ed eterno ), affermandone l'unicità relegando la "res cogitans" è la "res extensa" a meri attributi di esso e i singoli pensieri e corpi a semplici accidenti.
In maniera logicamente conseguente poi, Spinoza nega senza esitazione la possibilità che il finito possa essere sostanza, e dunque nega pure l'eventualità che possa esserlo l'uomo. Quest'ultimo infatti altro non è se non il risultato di un connubio tra mente e corpo, in cui la mente però, risulta essere soltanto l'idea del corpo o, se si preferisce, la conoscenza dell'estensione corporea. Secondo Spinoza, l'immanenza di Dio implica il fatto che la realtà non derivi, ma proceda da esso poiché, in quanto sostanza, Dio risulta essere tanto "res cogitans" quanto "res extensa". A ben guardare, ne consegue che le singole idee e i singoli corpi non possano interagire tra loro, ma al contrario possano soltanto procedere parallelamente in un lungo percorso privo di interazione, trovando coincidenza solo e soltanto in Dio.
Agli occhi di molti, Spinoza sarà pure stato un eretico, ma agli occhi miei il suo pensiero reciterà sempre un ruolo da protagonista nello sconfinato universo filosofico. Cartesio non sarebbe d'accordo.

Matteo Andriola

mercoledì 14 gennaio 2015

Nessun dio può odiare una matita

Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, probabilmente non esagero ritenendo la satira lo specchio della libertà di un Paese. Tristemente attuale, il dibattito relativo agli eventuali limiti che essa dovrebbe imporsi tiene banco in maniera piuttosto vigorosa. La presenza di un limite negherebbe il concetto stesso di satira, questo è vero, ma ciò che spesso, troppo spesso, viene sottovalutato è il fatto che non sia possibile né corretto fare i conti esclusivamente con il livello di tolleranza del proprio Paese o della propria confessione, facendone l'unico termine di paragone. La recente tragedia cui abbiamo assistito impotenti, altro non è se non l'ennesima dimostrazione di quanto la vita sia oramai subordinata ad interessi differenti, un valore non più inalienabile e imprescindibile, quanto piuttosto una merce di scambio da utilizzare in una guerra destinata a concludersi senza vincitori né vinti. Le vittime del terribile attentato al periodico Charlie Hebdo pagano un dazio infinitamente salato, capri espiatori di una situazione di esacerbata intolleranza che li ha visti diventare un subdolo e abietto pretesto nelle mani di un fanatismo sempre più becero e ingiustificabile.
In situazioni come questa, la banalizzazione e la generalizzazione sono i nemici più ostici da fronteggiare, e l'ignoranza induce sempre più di frequente a ritenere che il colpevole di un gesto tanto efferato quanto vigliacco non sia il singolo in quanto tale, ma piuttosto ciò che esso rappresenta.
La Storia è però una maestra troppo autorevole e competente quando si tratta di fornire un insegnamento, e con il consueto rigore didattico ci ricorda come la religione, anche quella cristiana, abbia mietuto vittime con clamorosa regolarità nel corso dei secoli. Gli esempi sono troppi e sarebbe impossibile riportarli tutti in questa sede, ma pescando in un passato neanche troppo lontano, credo che alle popolazioni centroamericane massacrate dai conquistadores, i cattolici Cortes e Pizarro non dovessero apparire molto diversi da come appaiono oggi coloro che si rendono colpevoli di ingiustificabili barbarie in nome di un profeta che non può neppure essere raffigurato. Gli spagnoli tuttavia, e non è un mistero, non avrebbero neppure levato un'ancora se nel nuovo mondo non vi fosse stata l'opportunità di allungare le mani su enormi quantitativi d'oro, né i crociati dal canto loro avrebbero preso la strada di Gerusalemme se a Roma non avessero intravisto in questi pellegrinaggi armati la possibilità di un lauto guadagno. La religione, oggi come allora, a conti fatti, risulta il pretesto più valido e facilmente vendibile, in grado di rendere accettabile anche ciò che razionalmente non potrebbe mai esserlo. Il ricordo dell'attentato alle torri gemelle o le sconvolgenti immagini delle decapitazioni dell'ISIS sono ancora davanti agli occhi di tutti, e per quanto mi sforzi di trovare un senso a tutto ciò che da sempre accade, concludo sempre la mia ricerca a mani vuote. Tutti agiscono in nome di un dio, qualunque sia, caritatevole e misericordioso, ma per soddisfare le sue richieste, travisando e maneggiando ad arte il suo messaggio, ricorrono al contraddittorio strumento della violenza. Il superamento di Dio auspicato da Nietzsche, in questo senso, prescindendo dalla posizione religiosa di ciascuno, responsabilizzerebbe l'individuo, ponendolo di fronte a se stesso senza condizioni, privandolo di uno strumento che, snaturandosi, troppo spesso si tramuta in pretesto. Non è oggetto dell'intervento l'opportunità di credere o meno, ma partendo dal presupposto di scegliere la strada della Fede, qualunque essa sia, non si potrà fare a meno di constatare come nessun dio possa pretendere il sacrificio del sangue, di cui è invece perennemente assetato soltanto l'uomo, capace di perpetrare orribili violenze in nome di un credo, senza voler ammettere che il reale problema risieda in realtà nell'innata inclinazione dell'individuo a non accettare l'altro poiché ritenuto diverso, e di conseguenza inferiore. L'impressionante manifestazione di solidarietà tenutasi a Parigi dovrebbe configurarsi non come una manifestazione anti islamica, quanto piuttosto come una presa di posizione contro una situazione insostenibile in cui sono sempre gli innocenti a fare le spese di un disegno perverso in cui potere e interessi scavalcano con inconcepibile noncuranza il valore di quella vita che ogni uomo dovrebbe amare più di qualunque altra cosa, sia che creda sia che non creda. Come accennato, non mi preme in questa sede entrare in merito alla questione della Fede, poiché credo di non aver titolo se non per sostenere la mia intima posizione al riguardo; quello della Fede è un argomento delicato, la cui verità, come sosteneva Kierkegaard, è un discorso del singolo, suo e soltanto suo. Da qualunque angolazione la si osservi però, la violenza come strumento religioso risulta una contraddizione nei termini, e un mondo che si professa civile e moralmente evoluto, non può fare a meno in nessun caso di poggiare sulle solide fondamenta della tolleranza, in cui il rispetto della vita altrui è e sarà sempre il viatico migliore per raggiungere il rispetto di se stessi. In un Paese laico e democratico, la scelta religiosa rappresenta uno straordinario esempio di libertà che tutti dovrebbero proteggere gelosamente, ma la società ha sprecato troppo spesso l'occasione per riscattarsi e temo se la lascerà sfuggire anche questa volta, calpestando il prossimo e il diritto di espressione, preferendo mantenere in vita una tensione sempre più pericolosa e retrograda. Nel riscontrare il potenziale ottenebrante della religione, Marx colse nel segno definendola "oppio dei popoli", e mai come oggi tale espressione risulta di sconvolgente attualità. Non mi illudo che la situazione possa cambiare, poiché non riconosco al genere umano la preziosa dote della tolleranza, ma sono certo di non sbagliare sostenendo che nessun dio, qualora dovesse esistere, possa accettare che un suo figlio muoia a causa di un disegno, a causa di una matita. Per quanto io mi possa sforzare, non intravedo nulla di religioso in ciò che sta accadendo, né riuscirò mai a convincermi del fatto che un dio possa pretendere ciò che la Storia ha voluto e vuole farci credere che pretenda.
L'Illuminismo ci ha lasciato in eredità molte teorizzazioni, ma il suo merito più grande è stato quello di rifiutare l'accettazione passiva di convinzioni secolari, e nessun filosofo del tempo potrebbe sentirsi offeso per il fatto che, per l'occasione, io scelga di rispolverare Voltaire, che sarebbe sicuramente sceso in piazza per manifestare la propria solidarietà alle vittime della tragedia parigina e che, senza remore né timori di sorta, avrebbe certamente ripetuto, gridandola a squarciagola, una delle più note affermazioni a lui attribuite: "Non sono d'accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee".

Matteo Andriola