giovedì 19 novembre 2015

Kant e quelle tre prove che non valgono nulla

Filosoficamente parlando, salire sul carro di Kant è sempre conveniente perchè si può star certi di arrivare a destinazione avendo guadagnato molto più di quanto si possedeva in partenza. Non mi stancherò mai di esaltare l'intelletto straordinario di Immanuel Kant, e al contempo non posso fare a meno di sorprendermi sempre di fronte alla vastità e alla completezza del suo pensiero. Il dibattito circa l'esistenza della divinità è da sempre pane quotidiano per la filosofia, e nel corso della storia ha spesso e volentieri animato confronti accesi ai quali è ancora oggi difficoltoso se non impossibile sottrarsi. Proprio l'illuminismo aveva minato le fondamenta delle teorizzazioni religiose e Kant, che dell'illuminismo è innegabilmente figlio, decise di confrontarsi col problema, come del resto molti suoi contemporanei. Quella dell'esistenza di Dio era questione piuttosto spinosa e appunto dibattuta, e fondamentalmente si reggeva su tre fondamentali e consolidate dimostrazioni filosofiche di esistenza che Kant, pur non intendendo escludere la fede, decise smontare meticolosamente nella sezione della Critica della ragion pura denominata Dialettica trascendentale, sostenendo appunto non tanto l'inesistenza di Dio, quanto l'assoluta impossibilità di provarne scientificamente l'esistenza. In questo senso, il percorso kantiano prende le mosse dalla cosiddetta "prova ontologica" ( teorizzata per la prima volta, come noto, da Anselmo d'Aosta ) che secondo il filosofo risulta limitata in virtù del suo essere erroneamente aprioristica. Infatti, secondo tale dimostrazione, la sola definizione di Dio quale entità perfetta ne implicherebbe l'esistenza senza possibilità di smentita poiché, se mancasse dell'esistenza, all'entità in questione verrebbe meno quella perfezione che invece, a priori, le deve invece essere intrinseca. A parere di Kant però, l'errore fondamentale di tale prova risiede essenzialmente nell'assoluta impossibilità di estrapolare una realtà da un semplice concetto nudo e crudo, e per avvalorare la propria posizione ricorre al celeberrimo esempio monetario, sostenendo che l'acquisizione del concetto di cento talleri, non sia sufficiente per renderli reali e sonanti nelle tasche dei pantaloni di colui che riesce a concepirli concettualmente. La seconda prova con la quale Kant si confronta è quella "cosmologica", che dal canto suo procede in senso inverso ( ossia a posteriori ), sostenendo che la divinità sia necessaria poiché logicamente pretesa dalla contingenza del mondo. Anche questa teorizzazione però, secondo Kant presenta un nervo scoperto facilmente individuabile, consistente specificatamente nel fatto che dimostrare la necessità di un ente non necessariamente ne implica l'effettiva l'esistenza; in altri termini, è possibile teorizzare la necessità di un ente, ma la teorizzazione di fatto non contribuisce in alcun modo a renderlo effettivamente esistente. La terza prova che Kant demolisce, quella "fisico - teleologica", è di fatto la più antica e considerata nella storia della Filosofia, e poggia sulla presunta necessità di un'esistenza ordinatrice, intrinseca al creato. Kant confuta la tesi secondo cui il tutto necessiterebbe di una causa infinita e assolutamente perfetta, sostenendo che l'ordine del tutto sia "relativamente" perfetto, negando dunque che le sue regole possano valere universalmente, in tutti i casi e senza condizioni. Ipotizzare la perfezione assoluta di un'entità creatrice, significa balzare in un sol colpo dal finito della natura all'infinito di Dio. E ciò non è possibile.
L'approccio di Kant al problema generato dalle tre dimostrazioni è in linea con il suo consueto modus operandi filosofico, e se da un lato il taglio empirico dato all'analisi della problematica pare stridere con una questione che dovrebbe a rigor di logica essere affrontata in maniera differente, dall'altro dimostra la straordinaria unicità di un pensatore in grado di sconfinare a piacimento in qualunque territorio filosofico. Chapeau.

Matteo Andriola

domenica 15 novembre 2015

Riflessioni sulla tragedia parigina

Coloro che possono vantarsi di possedere buona memoria storica, sicuramente non perderanno tempo per appellarsi alle inaudite violenze di crociati, conquistadores e inquisitori, rispolverando un termine di paragone sempre valido quando si tratta di confrontarsi con aberrazioni perpetrate in nome di un dio, simili a quella accaduta in una Parigi ancora scossa dall'attentato alla sede del periodico Charlie Hebdo. La reminescenza storica è sempre una valida alleata quando si tratta di cercare di comprendere il presente, in questo Machiavelli aveva certamente ragione, ma in casi come questo non sarà in grado di fornire molti appigli per giustificare qualcosa che non potrà mai conoscere attenuanti né motivazioni valide, e del resto, lo sterminio di innocenti non punisce singoli colpevoli, ma nelle intenzioni colpisce soltanto i membri di un paese colpevole o presunto tale. Chiamare in causa una divinità prima del sacrificio ricorda gli epici scontri narrati da Omero, ma sotto le mura di Troia gli dei richiedevano la violenza poiché quella determinata società la contemplava come strumento necessario e comunque per certi versi anche rituale, e dunque collettivamente la accettava e tollerava. Il mondo moderno ha perduto la ritualità e il valore simbolico della violenza, di pari passo con la proliferazione delle religioni monoteiste nelle quali le divinità, dovendo in se stesse racchiudere tutte quelle qualità estremamente positive che la società desidererebbe ardentemente riconoscersi, si trovano ad escludere dalla propria essenza aspetti meno nobili, possibili di fatto solo ed esclusivamente col frazionamento della divinità stessa. Contrariamente a quanto si possa credere, non è necessario essere atei per sposare la tesi di Marx secondo cui la religione sarebbe l'oppio dei popoli, e la Storia, sempre generosa in fatto di esempi, ha confermato la validità del suo pensiero al riguardo, sancendone l'assoluta veridicità senza possibilità di smentita ed eccezione. Anche profondendo un immane sforzo, è difficile intravedere motivazioni strettamente religiose in una violenza che non ha vincitori né vinti, ma soltanto carnefici e vittime che, inneggiando ora al proprio dio, ora agli aleatori concetti di uguaglianza e giustizia, non fanno altro che perpetrare nel tempo una violenza sempre più gratuita e insensata che, al rovescio della medaglia, presenta il becero volto dell'intolleranza e dell'odio. Certamente non è difficoltoso comprendere come gli interessi in gioco siano di natura diversa da quanto in realtà si vorrebbe far credere e, paradossalmente, episodi simili lo dimostrano inequivocabilmente anziché smentirlo.
Culturalmente però, entrambe le fazioni ne escono con le ossa frantumate, poiché la cultura ( e con essa la capacità di analisi ), unico strumento realmente in grado di consentire all'umanità un salto qualitativo capace di eliminare quell'inaccettabile intolleranza che anima entrambi gli schieramenti che occupano le due opposte posizioni della barricata, viene purtroppo ogni giorno declassata come superflua e non necessaria. La pace perpetua sognata da Kant era ed è purtroppo destinata a rimanere un'utopia, ma la teorizzazione della stessa rimane un bene necessario per tentare almeno di incanalare la morale sociale sul giusto binario, comprendendo quanto la linea di demarcazione tra ciò che è giusto è ciò che è sbagliato debba spesso essere molto più netta di quanto invece non sia. La violenza è l'eclatante valvola di sfogo di un enorme problema socioculturale che oramai domina una società che ha eretto i palazzi del potere sulle fondamenta dell'odio e dell'intolleranza, subordinando inalienabili diritti quali la vita e la libertà intellettuale a interessi di natura certamente diversa. 
L'epoca nichilista annunciata a gran voce da Nietzsche è in realtà appena iniziata, e come sostiene Vattimo, dopo averne preso atto è inevitabile conviverci, accettandolo come condizione ineluttabile della moderna esistenza umana; le manifestazioni e i proclami che seguiranno questa ingiustificabile tragedia non sono altro che il consueto corollario ad episodi di questo tipo, e certamente in breve tempo si attenueranno fino a dissolversi precipitando nell'oblio del dimenticatoio, in attesa di ricomparire puntualmente all'occorrenza.

Matteo Andriola