lunedì 3 agosto 2015

Giusto e sbagliato: un'analisi concettuale

Qui di seguito viene riportato un estratto di uno studio al quale da tempo mi sto dedicando, in vista di un'esposizione seminariale


Giusto e sbagliato sono concetti dei quali troppo frequentemente si tende ad abusare, tirandoli in ballo spesso senza particolare cognizione di causa. La stessa Filosofia è da sempre foriera di intuizioni e teorizzazioni più o meno significative al riguardo, ma la necessità di districarsi entro il meraviglioso ginepraio della teoria rende il lavoro, sebbene complicato, decisamente dinamico e stimolante; Platone, Aristotele, Rousseau, Kant, Beccaria, Rawls e molti altri si sono interessati al problema della giustizia, elaborando, come vedremo, teorie a volte divergenti, a volte convergenti. Da tempo, anch'io mi sto interrogando circa il reale valore di tali concetti e il loro intrinseco significato, e il mio interesse filosofico ha in questi tempi svoltato in tale direzione. Non posso negare che l'osservazione corra sempre in mio aiuto, offrendomi spesso validissimi strumenti per aprire nuovi squarci sulla tela della ricerca. L'universalità è merce molto rara, e troppo spesso si deve arrendere di fronte al predominio del particolare, il quale, poggiando sulla concretezza, riesce sempre ad articolarsi in molteplici esempi di natura più diversa. Non ho mai pensato che negare la loro dignità di esistenza nel campo dell'universale sia un grande azzardo, poiché non serve spingersi verso lidi troppo lontani per veder confermata tale ipotesi. Il passaggio dalla teoria alla prassi è però in questo caso doveroso per introdurre al problema, e a tal proposito gli esempi indubbiamente si sprecano, ma dovendo scegliere un caso emblematico, ritengo la pena capitale possa assolvere adeguatamente il compito. Prescindendo dalla posizione che chiunque possa avere al riguardo, è ora sufficiente constatare come la pratica in questione sia, a seconda del contesto e dei singoli individui, ritenuta una soluzione ( e dunque giusta ) oppure un'aberrazione ( e dunque sbagliata ); più banalmente, vita quotidiana non può sottrarsi all'annosa questione relativa a ciò che è giusto e ciò che non lo è, e in nome di tali concetti ogni individuo effettua o non effettua quotidianamente le proprie scelte, anche quelle apparentemente più insignificanti.
L'antiteticità delle posizioni parrebbe gettare confusione sulla ricerca in questione, eppure, a ben osservarla, essa è in grado di offrire un quadro piuttosto esplicativo di una problematica sempre dinamica e meritevole di ricerche filosofiche. È assolutamente evidente che un concetto quale la giustizia, e dunque anche quale il suo contrario, debba entrare entro la sfera legislativa di una società, inclusa un'ipotetica società anarchica ( la cui stessa costituzione sarebbe ritenuta nella fattispecie assolutamente giusta e inviolabile ai fini del mantenimento della società in questione ), nonché entro la sfera decisionale di ogni singolo soggetto. La convivenza di società e soggetti regolati da differenti sistemi normativi mostra chiaramente quanto la strada del giusto e dello sbagliato non sia benedetta dall'evidenza, e rende difficoltoso comprendere come si possa giungere a dirimere la questione. Certo non è semplice, ma non ho molti dubbi nell'indicare la strada della morale come l'unica eventualmente percorribile; ritengo sia insindacabile che qualunque normativa atta a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è infatti, necessiti di un precedente inquadramento morale. Per punire un reato occorre prima determinarlo come tale, stabilendo cioè che esso vada a ledere un qualche diritto che, al contrario, sarà da ritenersi imprescindibile oltre ogni ragionevole dubbio. Ad esempio, si è generalmente concordi nell'indicare nel furto la violazione di un diritto, e dunque si è ben disposti nel riconoscerlo come sbagliato, considerando di conseguenza come giusta la punizione per un ladro; eppure, se qualcuno sottraesse un qualcosa precedentemente sottrattogli, decidendo di riappropriarsene sarebbe ugualmente un ladro? In caso di risposta negativa, solamente il primo furto sarebbe sbagliato, mentre il secondo diverrebbe addirittura giusto, il che invaliderebbe di fatto la tesi del furto come atto universalmente sbagliato. Analogamente, il comportamento del singolo non potrà esimersi da una ponderazione precedente la messa in atto dello stesso. Senza sciorinare ora una miriade di esempi pratici, è doveroso aggiungere che chiunque, singolo o società che sia, nella valutazione morale di giusto e sbagliato subisca, come si vedrà in seguito, l'influenza del proprio filtro ( culturale o religioso che sia ) rimanendone irrimediabilmente condizionato. Ne consegue però che, a seconda del suddetto filtro, ogni azione, decisione o valutazione possa apparire in molti modi, senza per questo poter essere appunto valutata come intrinsecamente giusta o intrinsecamente sbagliata, impossibilitata a presentarsi con un unico volto. La stessa vita è un diritto inalienabile certo, ma provocatoriamente si può anche asserire che lo sia in determinati contesti e situazioni; qualora infatti l'uccisione di un despota consentisse di salvare un'intera società, la violazione del diritto alla vita sarebbe ancora da considerarsi assolutamente sbagliata? O piuttosto i concetti in questione non sono altro che un'elaborazione figlia del particolare? Già ora potrei riportare molti esempi ( del resto l'excursus potrebbe essere interminabile ), ma sono assolutamente certo che tutti concorrerebbero a consolidare la risposta affermativa a quest'ultimo interrogativo.
La questione è spinosa, anche perchè non si può neppure negare come i due concetti, per acquisire effettivamente valore, richiedano un'unanime accettazione all'interno della società poiché, a conti fatti, da questo e solo da questo dipende il loro eventuale rispetto. Questo è un aspetto non meno importante del problema che prenderò in esame. Ma com'è possibile ottenere accettazione alla luce di una totale mancanza di universalità? Ammetto di essere in difficoltà di fronte al quesito, ma se dovessi indicare un solo strumento di accettazione, non avrei dubbi a puntare il dito in direzione dell'abitudine. Un gruppo di singoli infatti, più o meno numeroso, riterrà giusto o sbagliato ciò che la consuetudine gli avrà insegnato ad accettare come tale, e ciò, in definitiva, altro non è se non un'ulteriore dimostrazione di quanto i concetti di giusto e sbagliato possano esistere soltanto in relazione a un contesto, di quanto difettino di quell'universalità che sarebbe la loro condizione necessaria di esistenza e validità. Ma procediamo con ordine...

Matteo Andriola

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