venerdì 11 novembre 2016

Che Paese, l'America

Secondo un noto proverbio americano, il voto dell'Ohio corrisponde al voto della nazione, e infatti anche stavolta la tradizione è stata rispettata. Saggezza popolare a parte però, è innegabile che l'elezione di Donald Trump abbia sconvolto non poco un'opinione pubblica ancora poco propensa ad accettare l'esito di queste elezioni, anche se a bocce ferme il risultato appare in realtà meno clamoroso di quanto si voglia far credere. Al netto delle posizioni xenofobe e delle dichiarazioni sessiste, il magnate ha demolito con la retorica populista un'avversaria che della retorica e del populismo ha sempre fatto il proprio cavallo di battaglia; certamente il populismo è un'arma elettorale molto efficace a qualunque latitudine, e tutti coloro che si candidano ad occupare una poltrona sono sempre ben contenti di distribuirne a piene mani e senza limitazione. Il fallimento dei democratici è però il fallimento di un'idea che in questa società oramai fatica a reggersi in piedi, un'idea per cui la politica diventa un mestiere molto ben retribuito a prescindere dai risultati concretamente ottenuti; ma la debacle di Hillary Clinton coincide senza dubbio ( sarebbe stupido negarlo ) col fallimento della presidenza Obama, costruita attorno a simboli ideologici, grandi aspettative e succulente promesse mai mantenute.
Gli Stati Uniti in fin dei conti sono un Paese profondamente conservatore, in cui le pistole sono diffuse quanto i portachiavi e dove la pena capitale è da molti ritenuta uno strumento di giustizia legittimo e civile, una nazione nella quale per quarantadue volte ( prima di questa ) il presidente eletto è stato un maschio bianco. Hillary dunque, al contrario di quanti potessero credere, partiva ad handicap, ma se molti operai le hanno preferito un miliardario, evidentemente il suo programma avrebbe dovuto essere decisamente più convincente e accattivante per sperare di invertire una tendenza estremamente radicata. La posizione assunta in seguito allo scandalo che ai tempi coinvolse il marito poteva fare il suo gioco in un Paese troppo spesso contraddittoriamente bacchettone come l'America, ma se escludiamo l'impatto emotivo esercitato dalla Clinton, le proposte democratiche sono risultate troppo garantiste e inconsistenti per far presa su una popolazione evidentemente esasperata da lacerazioni sociali che ormai hanno raggiunto il parossismo. Non è difficile rendersi conto di come Trump abbia cavalcato un'onda certamente mai così propizia per chi come lui, in tempi diversi non avrebbe neppure mai lontanamente potuto pensare di candidarsi. Il miliardario repubblicano ha saputo toccare quelle corde che gli americani speravano venissero toccate, a prescindere da quello che si rivelerà l'effettivo mantenimento delle promesse; promettendo occupazione, lotta all'immigrazione clandestina e sicurezza, Trump ha probabilmente venduto un'illusione, ma Hillary nel frattempo è riuscita a vendere solamente la solita stucchevole retorica buonista. Trump ha vinto perchè lei ha perso, Trump è presidente perchè gli americani evidentemente credono che la malattia sia più tollerabile degli effetti collaterali di quella che troppo frettolosamente è stata spacciata per una miracolosa medicina. Chiamato a giocare al gioco della torre, il popolo "a stelle e strisce" ha scelto di lasciar cadere Hillary, preferendo scommettere sui proclami aggressivi di un magnate gonfio di dollari e "politicamente scorretto", piuttosto che accettare una maschera della virtù lungamente tollerata e oramai fin troppo ben conosciuta. Il tempo risponderà a molti interrogativi, ma l'impressione è che la montagna sia destinata a partorire un piccolo topo.

Matteo Andriola

martedì 19 luglio 2016

Non un golpe, ma una farsa

Che la Turchia fosse una polveriera era cosa nota, ma paradossalmente il tentato golpe ( anche se di questo non si è certo trattato ) mostra quanto quella realtà, nell'immaginario collettivo apparentemente così lontana culturalmente, sia in realtà poco dissimile da quella che si respira in molti paesi occidentali. Senza ipocrisie di sorta, è giusto riconoscere che tutti inizialmente, convinti che si trattasse effettivamente di un golpe e quasi affascinati dall'improbabile eventualità di un viandante del cielo che elemosinava asilo politico, abbiamo creduto che il grande architetto di questo tentativo sovversivo si trovasse comodo e pacifico a Mosca. Tutto assolutamente plausibile se si considera che Putin ha da tempo, per motivi peraltro mai taciuti, il dente avvelenato contro Erdogan, reo soprattutto di aver assunto una posizione decisamente ambigua nei confronti del terrorismo islamico. Le modalità, la durata e il fallimento del presunto golpe però, hanno rivelato in tempi brevissimi la verità, ossia hanno dimostrato che di golpe non si trattava affatto e che Putin, per grande fortuna del presidente turco, proprio nulla in tal senso aveva pianificato. I tempi del resto sono cambiati, e nella società attuale i rudimentali colpi di Stato di stampo sudamericano non sarebbero più neppure lontanamente ipotizzabili. Inoltre, non va dimenticato che Ankara, per dimensione e popolazione, non è propriamente il piccolo villaggio di Stepancikovo raccontato Dostoevskij e dunque, anche fingendo di credere che si sia trattato di una reale sovversione, non esiste sforzo di immaginazione in grado di farmi accettare l'idea che si sia potuto ristabilire l'ordine in un tempo così breve e in maniera tutto sommato indolore. Che Erdogan, nemico giurato della democrazia ( nonché vergognosamente negazionista circa il genocidio degli armeni ) si sia appellato proprio ad essa per riportare la situazione alla normalità è poi apparso subito contraddittorio, e la gestione del presunto problema ha aperto in tempi brevissimi uno squarcio su quella che di fatto era ed è la realtà dei fatti, ossia quella di una farsa finalizzata a consolidare agli occhi del cittadino medio la figura di un leader dal curriculum fin troppo eloquente in negativo. Erdogan, riportando l'ordine, in un sol colpo ha fornito una prova di forza e offerto una dimostrazione, evidentemente fasulla, di quanto egli sia un acceso sostenitore di quella democrazia che in realtà il suo governo certamente non incarna, a meno che con tale termine non si indichi qualcosa di diverso da ciò che con lo stesso gli antichi Greci intendevano. La posizione dei cosiddetti potenti della Terra, sempre molto attenti a non varcare i confini del "politicamente corretto", non è sorprendente purtroppo, ma mostra ancora una volta quanto la cricca ( Obama, Merkel e Hollande in testa ) sia più unita che mai nel gestire un equilibrio fondato scientificamente sul disordine; tutti cauti a pseudo golpe in corso, tutti sostenitori di un governo democraticamente eletto a farsa conclusa.
La Storia non mente, e qualunque colpo di Stato effettivamente tale si vada a ricercare entro i suoi meandri rivelerà caratteristiche del tutto diverse rispetto a ciò che per alcune ore in Turchia è stato ritenuto tale. Ora Erdogan, dopo aver puntato il dito contro l'odiato Gulen, conscio del potere deterrente della violenza e della paura, con il benestare di tutti punirà in maniera esemplare coloro che lui ha deciso di sacrificare in nome di questa infame recita funzionale al suo progetto, "signori nessuno" destinati in tempi brevissimi al dimenticatoio. A bocce ferme non si può fare a meno di constatare come il piano di Erdogan sia purtroppo perfettamente riuscito, in un colpo solo ha "riempito la botte" e "ubriacato la moglie"; che i potenti sempre molto puntuali quando si tratta di sfilare a braccetto e con volto costernato in ipocriti cortei d'occasione, siano conniventi è il "segreto di Pulcinella", anche perchè la Turchia pesa molto dal punto di vista militare, è una risorsa enorme per la NATO, e ciò purtroppo vale molto più della vita di una manciata di innocenti strumentalizzati e funzionali a un disegno più grande di loro. Nulla di democratico sotto il sole.

Matteo Andriola

venerdì 27 maggio 2016

Per uno studio su Giacomo Leopardi

I tentativi di ascrivere il pensiero di Giacomo Leopardi entro una determinata categoria filosofica risultano del tutto impossibili, un'impresa destinata a risolversi in completo e misero fallimento. Del resto, quale potrebbe essere la ragione per pensare soltanto di delimitare entro predeterminati confini un simile potenziale intellettuale, sapendo di trovarsi di fronte all'ingegno di quello che è indubbiamente uno dei maggiori e più completi pensatori che la Storia possa ricordare? Non può sorprendere che Giordani avesse intravisto uno smisurato talento in quel giovane certo al tempo ancora acerbo ma che, pur nella reclusione del "natio borgo selvaggio", iniziava a dar prova di una clamorosa conoscenza del mondo e soprattutto di una società che evidentemente comprendeva benissimo pur senza averla direttamente mai conosciuta. Soffermarsi su tale aspetto dell'analisi leopardiana è indubbiamente interessante e al contempo sorprendente, poiché uno sguardo attento può già notare negli scritti del giovane Leopardi una precocissima capacità di analisi di ciò che in effetti ancora non poteva conoscere, clamorosamente lucida e lungimirante al punto da risultare fin da subito talvolta addirittura profetica.
Senza lo Zibaldone, oggi non avremmo la fortuna di conoscere Giacomo Leopardi quanto effettivamente lo conosciamo, ma l'idea di questo diario, di questo "caos ordinato", pur ispirata dall'acuto consiglio del Vögel, deve aver attecchito immediatamente in un terreno che evidentemente doveva risultare fertile al punto da risolversi in un'enorme esternazione di ciò che il suo autore provava, e in definitiva di ciò che egli intrinsecamente era. Chi ritenesse le quasi cinquemila pagine di questo monumentale scritto alla stregua di una mera raccolta di pensieri "in libertà" commetterebbe un errore madornale, poiché nelle trame di un apparentemente caotico groviglio intellettuale si riscontra un'innegabile coerenza in grado di travalicare l'ordine strettamente cronologico di eventi e sensazioni, capace di configurarsi come vera e propria rappresentazione di un'interiorità desiderosa di esondare da quegli argini che la cattività familiare gli aveva forzatamente imposto e che la favola puerile L'Ucello, pur filtrata dai naturali limiti di una giovinezza non solamente anagrafica ma anche è soprattutto letteraria, inequivocabilmente tradiva. Il giovane Leopardi è proiettato all'infinito pur nella certezza di doversi continuamente confrontare con il limite invalicabile della crudele realtà, e non si rischia certo di cadere in contraddizione sostenendo ciò, in quanto la potenzialità del giovane è fin da subito destinata a fare i conti con una realtà che in tempi brevissimi gli presenta un dazio molto salato da pagare, e di conseguenza ciò che ci si ostina a considerare pessimismo è semmai un eccesso di realismo, ciò che oggi molti definiscono in maniera troppo sbrigativa "cinismo". La vicenda umana di Giacomo Leopardi non può essere sottovalutata, né si può azzardare un'analisi di ciò che il suo intelletto ci ha lasciato senza contemplare gli aspetti strettamente umani che soprattutto negli anni giovanili hanno scavato un solco profondissimo tra Leopardi e tutto ciò che si collocava al di fuori di lui. I Puerili in questo senso costituiscono almeno in parte un grido d'aiuto che però a Recanati nessuno poteva né voleva ascoltare, e analizzando la sconfinata letteratura leopardiana si dovrà convenire sul fatto che in ogni singola riga vi sia sempre e comunque l'autore al centro di un disegno ( qualunque esso sia ) in continua evoluzione e in perenne movimento. L'interiorità di Leopardi dunque, intimo palcoscenico in cui la Natura ha sconfitto senza difficoltà la divinità, è la pietra angolare di un percorso che si sviluppa seguendo linee direttrici inscindibili e indivisibili: quella letteraria e quella umana, salde in un rapporto simbiotico in cui la seconda sostiene la prima quasi fosse il suo scheletro portante. Non è ardito considerare dunque le opere della maturità ( soprattutto quelle in prosa ), prime fra tutte le Operette Morali, figlie di una gestazione lunga e complessa, iniziata in un periodo in cui Leopardi era soltanto un giovane di Recanati, colui che il Giordani chiamava affettuosamente "Contino".

Matteo Andriola

lunedì 8 febbraio 2016

Cosa resta del contemporaneo?

Epoche come quella che stiamo attraversando possiedono il non trascurabile vantaggio di prestarsi sempre e comunque ad analisi critiche, anche e soprattutto in virtù della tanto evidente quanto preoccupante latitanza di quella che molti chiamano etica, dispersa nella melma nichilista che Leopardi e Nietzsche, in tempi più o meno sospetti, avevano ampiamente previsto con lucida lungimiranza. Immolando la morale sull'altare dell'egoismo, si è colpevolmente accettato un collettivo tuffo nel precipizio del non ritorno, anteponendo sempre e comunque l'interesse del singolo a quello della società. Che la si osservi con l'occhio dell'ateo o meno, la società appare comunque senza un dio, assente più o meno giustificato, a seconda del punto dal quale ci si sforzi inutilmente di intravederlo. I conflitti religiosi tra monoteismi esagitati e belligeranti non sono nuovi nella loro essenza pretestuosa, e l'inconsistenza politica di potenze ( o presunte tali ) conniventi fondate sull'ipocrisia è quanto mai allarmante poiché conficca con decisione i chiodi nella bara di una speranza già da tempo morta e sepolta; alla faccia di Kant e della sua pace perpetua. L'individuo però non ha attenuanti, e certo non è meno colpevole accettando ovunque una spersonalizzazione metodica e costante capace di annichilire l'essenza stessa di ciò che ogni singolo e ogni società dovrebbero essere; gli ideali ( cosa poi saranno mai questi ideali? ), i cari vecchi ideali ai quali in periodi di crisi tutti si sentono in dovere di appellarsi, non vengono in ultima istanza mai neppure sfiorati. Sono scomparsi, spariti, decapitati dalla roncola di una contemporaneità che vende un "nulla" spacciandolo per un "tutto", che mercifica qualunque cosa, che toglie la speranza sostenendo ipocritamente di distribuirla. Ciò che per le bocche dei benpensanti prezzolati dovrebbe nobilitare l'uomo, in realtà è divenuto ciò che lo priva dell'unica cosa effettivamente in grado di nobilitarlo, ossia la libertà.
George Orwell fu profetico ipotizzando ( in questo caso in tempi evidentemente sospetti ) una società controllata dall'occhio del padrone, e mai come oggi 1984 dovrebbe diventare un testo obbligatorio per tutti, da leggere, rileggere e conservare gelosamente. La contemporaneità, questa ignobile contemporaneità fondata sul compromesso, ha avuto partita facile a insinuarsi subdolamente e proliferare in una società che si è imperdonabilmente negata sia la cultura sia quella bellezza che secondo il principe Myskin avrebbe presto o tardi salvato il mondo. Rileggendo L'idiota sono più che mai convinto che il protagonista del romanzo, evidentemente pervaso da immotivato ottimismo, abbia commesso un errore macroscopico ricorrendo al futuro anziché al condizionale; la bellezza semmai "salverebbe" il mondo, a condizione che questo si lasciasse però salvare. È fin troppo evidente però che il mondo, popolato da perversi demagoghi abilissimi a rovesciare la gerarchia delle priorità in nome di personali interessi, abbia scelto una lenta e dolorosa agonia, preferendola a una salvezza che forse sarebbe troppo responsabilizzante e faticosa da supportare. In tema di diritti assistiamo a sconcertanti scenari in cui la menzogna è divenuto lo strumento più utilizzato, e in cui il "politicamente corretto" assurge a nauseante e ipocrita consuetudine: all'occorrenza, tutti uniti e solidali in corteo, ma immediatamente pronti a divorarsi l'un l'altro il giorno successivo. Non esiste accettazione dell'altro, ma spesso neppure volontà di ottenere accettazione, non esiste realtà che non contempli la violenza come strumento risolutivo, non esiste società che non si fondi contemporaneamente sull'incoerenza e la contraddizione. Non potendo certamente scommettere su un presente indiscutibilmente e inesorabilmente nichilista, la fiducia nel futuro appare l'unica possibilità, anche se purtroppo ritengo sia obiettivamente mal riposta. Scegliere di sguazzare passivamente e arrendevolmente in questa contemporaneità è colpevole e intellettualmente abietto, ma al contempo è certamente la scelta maggiormente inflazionata, una scelta direttamente responsabile di un declino oramai inevitabile. Nessuno farà nulla per cambiare questa società, i gesti eroici sono materia di un'epica cronologicamente e concettualmente troppo lontana. Ci limiteremo, consapevolmente inconsapevoli, a osservare senza muovere un dito perchè, come sintetizzato dal sempre illuminante Guido Ceronetti: "Siamo come quelli delle Termopili. Sappiamo che i persiani passeranno ma noi restiamo lì".

Matteo Andriola