sabato 13 dicembre 2014

Nietzsche e l'eterno ritorno

Continuo a preferirgli una bella donna, ma il fascino che Nietzsche esercita su di me supera di gran lunga la semplice infatuazione. Del resto, se è vero che una fragorosa esplosione provoca una reazione più veemente rispetto a quanto non faccia un'armoniosa melodia, nessuno più di Nietzsche può vantarsi di essere riuscito, con il proprio pensiero violento e insieme rivoluzionario, nella non facile impresa di sconvolgere il mondo della filosofia occidentale. In molti possono dargli del pazzo, forse per alcuni ciò è più edificante, ma come spesso avviene, definire qualcuno folle equivale ad ammettere che questi abbia ragione. Così parlò Zarathustra è un testo troppo geniale per pensare di poterlo comprendere pienamente, e infatti quando penso di averlo finalmente domato, Nietzsche non perde occasione per ricordarmi che il coltello dalla parte del manico lo impugna ancora lui.
Quella dell' "eterno ritorno" è un'elaborazione filosofica gigantesca, e lo è ancor di più se la consideriamo quale parte di un disegno più ampio e complesso. Giocando su un terreno minato, Nietzsche rifiuta l'eventualità che la realtà possa essere valutabile dall'esterno, poiché esclude categoricamente l'esistenza di criteri che possano consentire una simile operazione; a conti fatti dunque, qualunque giudizio morale su di essa non può avere alcun fondamento in quanto la morale altro non è, a suo giudizio, se non una mera invenzione umana. Chi osserva la realtà intravedendovi un finalismo inoltre, commette un errore clamoroso, in quanto essa è e sarà sempre senza scopo, e Nietzsche, troppo scaltro per lasciarsi sfuggire l'occasione, colpisce a morte gli ideali ad essa correlati, ritenendoli subdole creazioni di individui che per mezzo di questi si illudono di poter effettivamente vivere la propria vita. La realtà nel suo divenire non ha un senso compiuto, non è un disegno in cui la causa e l'effetto si concatenano tra loro in un indissolubile legame, ma soltanto un insieme di eventi non classificabili gerarchicamente, poiché tutti validi alla stessa maniera. In altri termini, tutti gli eventi, proprio in virtù della loro inclassificabilità, mantengono secondo Nietzsche una sorta di innata verginità che li rende appunto privi di determinatezza e senso compiuto. È ciò che Nietzsche, con una scelta tatticamente perfetta, chiama "innocenza del divenire". 
Nietzsche non offre molta scelta all'individuo, il cui unico atteggiamento possibile di fronte alla realtà è la sopportazione; ma il verbo "sopportare", in questo caso, non contiene intrinsecamente concetti quali la passiva rassegnazione e l'annullamento di sé, quanto piuttosto serve ad indicare una vera e propria reazione attiva alla realtà, attraverso la netta imposizione dei propri istinti vitali, accompagnata dal conseguente rifiuto delle tanto numerose quanto futili costruzioni illusorie. L'esito delle nostre azioni, qualunque esso sia, va accettato senza condizioni, rifiutando con veemenza, inutile dirlo, di attribuirne i meriti alla divinità o ai suoi surrogati. Pur responsabilizzandolo, Nietzsche non è certo indulgente con il genere umano, ed infatti dinanzi alla realtà l'individuo è solo, isolato nella propria condizione. 
Filosoficamente, è risaputo, Nietzsche è un pensatore dalle concezioni piuttosto elitarie, ed infatti riconosce a pochi eletti la facoltà accettare l' "innocenza del divenire", soltanto a coloro che sono disposti ad accettare senza condizioni la ripetizione degli eventi in eterno. Esprimere un dubbio rispetto a tale accettazione tradisce l'insoddisfazione di un individuo che non ha vissuto pienamente la propria esistenza, denota una fiducia nel futuro che però, in quanto tale, implica speranza, quella che secondo Nietzsche è la nemica giurata della vita. Chi spera infatti, non vive qui e ora, ma rinvia nell'illusoria attesa di tempi e condizioni migliori. La speranza va violentemente abbattuta, vivendo la propria vita desiderando riviverla in eterno, auspicando che si ripeta nel tempo, esattamente così com'è già stata. È l' "eterno ritorno dell'uguale", che mostra quanto Nietzsche, come di consueto filosoficamente violento, scavalcando con un balzo deciso la concezione lineare del tempo, scelga di imporre una concezione circolare che abbia nella perpetua ripetizione la propria ultima essenza. Non è semplice comprendere appieno la portata di una simile costruzione filosofica in quanto, come detto, essa può avere compiutezza soltanto se inserita entro quel tortuosissimo dedalo che è il pensiero nietzscheano. Qui sarebbe doveroso aprire una parentesi, che aprirei volentieri se non fossi assolutamente certo di correre il serio rischio di non chiuderla se non in tempi lunghissimi. Ci troviamo infatti in presenza di una teorizzazione enormemente complessa e straordinariamente affascinante: pensare al "ritorno dell'uguale" è una tappa necessaria nel cammino che conduce al ben noto "oltreuomo", un cammino che ancora oggi pare purtroppo una meravigliosa utopia.

Matteo Andriola

martedì 2 dicembre 2014

Nuove prospettive leopardiane

Quando si decide di avventurarsi nel complesso e apparentemente inestricabile universo leopardiano, oltre ad attingere al residuo coraggio intellettuale di cui si dispone, si deve obbligatoriamente accettare la condizione di doversi confrontare con l'ostico e al contempo fascinoso concetto di "Pessimismo". Il termine, benché criticamente corretto e diffusamente accettato, è però senz'altro soggetto alla possibilità di una facile travisazione, al rischio cioè di non essere percepito per ciò che, rapportato a Leopardi, effettivamente significa. Se ci concentrassimo esclusivamente sul significato intrinseco e decontestualizzato del termine, converremmo sul fatto che esso venga correntemente utilizzato per indicare la tendenza a ritenere elevata la probabilità che gli eventi futuri siano destinati ad una conclusione negativa. Da qualunque angolazione la si osservi però, una simile interpretazione, pur scolasticamente rigida e rigorosa, non può che risultare superficiale e dunque filosoficamente inadatta ai fini di un'adeguata valutazione del pensiero del recanatese; se così fosse, infatti, le sue teorizzazioni si ridurrebbero banalmente ad una pura e semplice tendenza al negativo. Fossilizzarsi su tale lettura però, non sarebbe soltanto riduttivo, sarebbe clamorosamente sbagliato, e non ci consentirebbe una corretta e lucida valutazione della filosofia leopardiana. Per scavalcare l'idea, sarebbe in realtà sufficiente ricordare che mai Leopardi, filosofo prim'ancora che poeta, ricorse al termine "pessimismo" in riferimento al proprio pensiero, né del resto ciò sarebbe stato possibile. Ed il punto focale di una dissertazione intorno all'opportunità dell'utilizzo di tale termine in riferimento alle straordinarie elucubrazioni di Leopardi, consiste proprio nello stabilire anzitutto cosa lui pensasse del proprio pensiero; del resto, sarebbe ottuso ritenere che la concezione che egli stesso possedeva del proprio intelletto debba piegarsi alle esigenze della critica anziché viceversa. Delle proprie costruzioni filosofiche egli non avrebbe neppure lontanamente potuto concepire la definizione di "pessimismo", in quanto ciò sarebbe equivalso ad accettarne un'intrinseca soggettività, peraltro condizionata e limitante se consideriamo la costante pretesa di universalità del pensiero stesso. Così come lo concepiamo correntemente, il concetto indica fondamentalmente la convinzione di un'ipotetica posteriorità negativa, che mal si sposa con un pensiero assolutamente sentenziante come quello di Leopardi che, dal canto suo, sentenzia. Sentenzia sempre. A ben guardare, il suo pensiero si sorregge per certi versi proprio in virtù della stessa costante ricerca di universalità, ed è da escludere che egli potesse avere percezione di se stesso come pessimista poiché, contrariamente a quanto si possa pensare, fin da giovane non aveva esitato a mostrare una piena consapevolezza della grandezza del proprio ingegno. Pur provandoci, non sono mai riuscito a immedesimarmi in Leopardi, tuttavia lo conosco a sufficienza per sapere quanto pretendesse da se stesso, e se è vero che l'aspettativa tradisce consapevolezza, allora non possiamo negare di trovarci di fronte ad uno degli individui più consapevoli di cui si possa avere memoria.
I Canti sono sublimi, ma Leopardi è più grande nella prosa che nei versi, e di fronte alla straordinaria lungimiranza delle Operette Morali non posso fare a meno di chinare la testa, e chiunque sia dotato di buonsenso dovrebbe fare altrettanto. Quest'opera non finirà mai di sorprendermi, ma ciò che ricavo dal suo studio è la netta convinzione che Leopardi sia definibile in molti modi, ma sicuramente non come pessimista nell'accezione corrente del termine. Se è vero che per lui il passato costituiva uno strumento imprescindibile per la comprensione del proprio presente, un termine di paragone impietoso per giudicare la società umana, è altrettanto vero che ogni sua valutazione, per quanto proiettata verso il futuro, dovesse ai suoi occhi apparire come un lucido e concretissimo "Realismo". Non va infatti dimenticato che Leopardi fu un osservatore del presente, del suo presente, straordinariamente attento e acuto e quindi, ogni accusa di "tendere al negativo" come naturale inclinazione di spirito, non potrebbe che sminuire semplicisticamente quella valutazione critica di una contemporaneità, secondo lui inesorabilmente destinata a involvere in maniera razionale e quasi matematica. Il presente e il futuro dovevano apparire agli occhi di Leopardi in strettissimo contatto, quasi in un rapporto di causa-effetto ineludibile e impossibile da superare. Lo sguardo che Leopardi volge al presente di una società a lui contemporanea, ma paradossalmente da lui separata da una distanza incolmabile ( e il caos intellettuale dello Zibaldone ce lo dimostra inequivocabilmente ), è lucidamente scisso da un'esperienza di vita che, al contrario, tendenzialmente dovrebbe influenzare anche il più attento osservatore. In altri termini, sebbene sia innegabile che l'esperienza condizioni l'individuo, in Leopardi il dramma umano concorre a plasmare il suo "modus cogitandi", ma non il suo punto di vista; egli infatti, pur elaborando filosoficamente in virtù dell'esperienza, acquisendo peraltro una capacità di analisi assolutamente fuori norma, non risulta mai e poi mai condizionato nel pensiero giudicante dal proprio vissuto; l'esperienza conferisce sensibilità e illimitatezza all'ingegno di Leopardi, senza che esso però subisca quell'influenza che normalmente, a causa di uno o più contraccolpi psicologici, condurrebbe a quella già citata tendenza al negativo che al recanatese non appartiene, né apparterrà mai. Si assiste dunque a una scissione tra ciò che Leopardi è e ciò che Leopardi pensa, tra un "io corporeo" è un "io pensante" che, proprio in virtù di tale dualismo, conferisce di diritto pretesa di onniscienza alle teorizzazioni leopardiane. L'onniscienza in questione, però, si configura qui come una reale e concreta capacità di elevarsi sulla realtà e giudicarla, proprio in virtù della scissione, da una posizione del tutto privilegiata.
Come accennato, l'esperienza in Leopardi interviene immediatamente sulla sua capacità di erigere costruzioni mentali, ma non su quello che effettivamente è il suo pensiero. Se una scissione è una divisione, allora Leopardi risulta da subito diviso da una "alterità" e del resto, vivendo una giovinezza dedita allo studio "matto e disperatissimo", a causa di un vissuto castrante e limitante, si divide fin da subito da quella realtà che lui, soltanto più tardi, proprio in virtù di questa iniziale divisione da essa, riuscirà a giudicare con maniacale meticolosità e lucidissima imparzialità. Le pareti della biblioteca tanto maniacalmente allestita dal mediocre Monaldo, i limitanti confini del "carcere recanatese", scavano un primo profondissimo solco tra il filosofo e tutto ciò che è altro, e i fratelli, oltre ai genitori, divengono i suoi unici interlocutori, i quali però, vivendo entro il medesimo angusto contesto, non possono che risultare uno sbiadito riflesso di ciò che egli stesso è e percepisce di essere. Essi infatti non possono né mai potranno porsi come "alterità", semmai soltanto come comparse sgambettanti all'interno di un palcoscenico che in quel momento è anche e soprattutto quello di Leopardi. La biblioteca nella quale trascorre interminabili giornate di studio diviene per lui, quasi paradossalmente, il luogo deputato all'evasione intellettuale, il primo microcosmo nel quale rifugiarsi entro una solitudine che, di fatto, diverrà presto un elemento imprescindibile nella sua ricerca di universalità.
Tale fittizio universo costituisce, di fatto, la prima scissione tra Leopardi e ciò che pare adeguato definire "altro da lui", ed è peraltro una scissione che non ho mai faticato a ritenere consapevole. Che sia consapevole, anche se non volontaria infatti, lo si evince piuttosto nitidamente dallo smodato zelo con cui, anima e corpo, si dedica ad uno studio che, per quanto vivamente caldeggiato, non può dirsi effettivamente imposto, poiché, se così fosse, risulterebbe inspiegabile quell'onnivoro desiderio di sapere che caratterizzerà sempre il genio recanatese, e che lo porterà a profondere uno sforzo fisico oltre che intellettuale sulle ben note "sudate carte"; al contempo però, tale inusitata bramosia, lo renderà consapevole di una diversità di pensiero che quindi, a conti fatti, risulta vera e propria concausa della scissione in questione. La frattura fra Leopardi e tutto ciò che, a tutti gli effetti, è un "non io", non è da intendersi ingenuamente però, si badi bene, come una frattura fra lui, rigidamente ateo, e la Natura onnipotente; quest'ultima infatti, campo di ricerca privilegiato di tutte le ricerche leopardiane, severa interlocutrice dell'islandese delle Operette, è qui ancora lontana dal configurarsi come oggetto d'analisi. Inizialmente infatti, questa "alterità" esterna a Leopardi è semplicemente qualcosa d'altro, qualcosa che si colloca palesemente al di fuori, e che si oppone ad un "io" consapevole in un rigoroso sistema dialettico in cui "io" e "non io" si oppongono, portando il primo ad esclude il secondo nello stesso istante in cui lo contempla. Leopardi, la cui enormità non è ancora sta del tutto compresa, non considera la realtà a lui esterna come un elemento partecipante, ma al contrario, soltanto come un elemento "al di fuori" che, proprio in virtù di tale estraneità con l'io pensante, ne afferma la solidissima consistenza. Va però puntualizzato che il processo mentale in questione si realizza non tanto come opposizione della "alterità", quanto come opposizione alla "alterità". In altri termini, non è il "non io" ad opporsi al già menzionato "io", quanto piuttosto il contrario. Leopardi infatti scinde se stesso percependosi come diverso, fors'anche come escluso, in quanto tale diversità diviene il primo elemento attraverso cui egli riesce ad affermare se stesso in una realtà nella quale, altrimenti, sarebbe impossibilitato ad imporre la propria essenza. La presa di coscienza di una diversità apre in Leopardi un fondamentale squarcio su quello che è il suo reale ed effettivo "io"; egli infatti non è ne sarà mai "parte di", ma sempre è soltanto "sustanza" di se stesso.

Matteo Andriola

martedì 28 ottobre 2014

Marsilio e Ockham sono più moderni di noi

Seppur con le dovute cautele del caso, il dibattito relativo alla natura del potere spirituale è quanto mai vivo e attuale. In un'epoca come la nostra, preoccupantemente monca di teorie politiche, la questione stuzzica il mio interesse e, senza nascondere le mie perplessità per una figura, quella del pontefice, che ritengo anacronistica almeno nella forma, trovo incredibile che, pur modificandosi nel tempo, il dibattito relativo al rapporto fra potere temporale e potere spirituale abbia mantenuto inalterata la propria vitalità. Soltanto un ottuso potrebbe sostenere che la società sia effettivamente laica, e nella fattispecie, la figura del papa ha consolidato nel corso dei secoli la propria connotazione politica, e in questo senso, con i caratteri che il ruolo stava assumendo, fu molto più coerente Bonifacio VIII di quanto non lo sia stato il casto e puro Celestino V, costretto a gettare la spugna di fronte all'impossibilità di rendere puro un potere oramai vittima di se stesso e dell'imperante corruzione. Ancora oggi, come detto, la querelle relativa agli eventuali limiti del potere spirituale è percepita come straordinariamente attuale, soprattutto in una società che professa laicità senza crederci veramente. Sostengo la laicità dello Stato, ma più mi guardo attorno e meno la scorgo, e per quanto lo si voglia negare, forse oggi più di ieri, il pontefice è un alleato cui pochi si sentono di rinunciare. 
Come spesso mi accade, per comprendere il Presente, certo di non sbagliare, attingo al Medioevo, culla naturale di una disputa che ieri toglieva il sonno a Dante Alighieri e che oggi, seppur in maniera diversa, mantiene inalterata la propria vigoria. Due pensatori hanno affrontato la questione con una veemenza che, quasi contraddittoriamente, trova un'incredibile modernità nella propria essenza profondamente Medioevale: Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham. Marsilio decide di incamminarsi su un sentiero piuttosto impervio, ponendosi l'obiettivo di far crollare la pretesa assolutistica di un papato che agli occhi di molti aveva perso notevolmente prestigio. Parallelamente, Ockham contempla addirittura, in maniera certo clamorosa, la possibilità di un papa eretico, giustificando un'eventuale resistenza nei suoi confronti da parte dei fedeli. Secondo Marsilio, la società è il frutto del desiderio insito in qualunque individuo di condurre un'esistenza che meriti essere effettivamente vissuta; dal canto suo, Ockham assume una posizione destinata a suscitare non meno scalpore, sostenendo la possibilità che il potere temporale prevarichi quello spirituale, riconoscendo a un sovrano temporale la possibilità di deporre un pontefice che non si mostri ossequioso verso le Scritture. Contrariamente ad alcune correnti di pensiero che auspicavano l'unione dei due poteri, Ockham, tanto cauto quanto lungimirante, si mostra invece accanito sostenitore della loro divisione, utile a suo giudizio per preservare una sorta di equilibrio bipolare.
I due filosofi, in un moderno quanto sorprendente slancio di inconsueto sapore democratico, sono concordi nel ritenere il popolo quale depositario del potere, ed entrambi accettano il rischio di sostenere una tesi che inevitabilmente avrebbe finito per scontrarsi contro un potere, quello del papa, mai troppo incline ad accettare di essere messo in discussione. A mio giudizio, anche in relazione al tempo in cui vive, Marsilio, individuando la società quale risultato dell'opportunismo dei singoli, è di una modernità sconvolgente nel ritenere che gli uomini si associno soltanto per andare oltre la mera sopravvivenza, tentando così di realizzare appieno le proprie potenzialità. Le contese, di esempi il Medioevo ne offre molti, dominano la società e la pace può essere garantita solo a patto di impedire che ognuno persegua il proprio vantaggio. Solamente le leggi e un "guardiano" in grado di imporle e vigilare sulla loro pedissequa applicazione, possono garantire la sopravvivenza di uno Stato e tali norme, a suo giudizio ritrovano la propria essenza nell'essere imposte con la forza da chi ne ha l'autorità. La loro validità dunque, secondo Marsilio, non dipende da una qualsivoglia subordinazione a un'entità superiore, quanto piuttosto dall'esclusivo fatto di essere emanate correttamente. Chi conosce il Medioevo sa bene che gli slanci democratici erano merce rarissima al tempo, e per questo, che due pensatori concordino nel conferire ai cittadini una responsabilità legislativa, è da considerarsi un fenomeno straordinariamente all'avanguardia. Sia Marsilio che Ockham, infatti, sono in perfetta sintonia nel riconoscere ai cittadini il delicato compito di entrare nel meccanismo legislativo, e laddove il primo sostiene che i sudditi debbano stabilire le normative in grado di regolare la vita della comunità, il secondo, individuando negli uomini il tramite tra Dio e il potere dello Stato, attribuisce ai cittadini la facoltà di assegnare il potere. Anche se Ockham, ritornando parzialmente suoi propri passi, in casi eccezionali contempla la possibilità che il papa destituisca un sovrano temporale divenuto pericoloso, i due pensatori, troppo acuti per cadere in errore, non faticano a riconoscere nel papato una subdola macchina politica e tentano encomiabilmente di riportarlo entro i ranghi attraverso le proprie teorizzazioni. Marsilio infatti, consapevole del fatto che la Chiesa ricorra troppo spesso a Dio come strumento persuasivo, ridimensiona la forza terrena della legge divina, negando che essa possa risultare vincolante nell'esistenza temporale degli individui; essa infatti, per natura eterna e infallibile, non può né potrà mai possedere nel mondo terreno quella forza coercitiva necessaria per renderla effettivamente valida. Il potere spirituale, che né Marsilio né Ockham negano, può trovare la piena realizzazione soltanto esercitando un ruolo per così dire didattico, educando religiosamente i fedeli in maniera non coercitiva.
Testi come il Defensor pacis e il Dialogus, a conti fatti, non meritano di giacere impolverati dimenticati su uno scaffale, ma il loro contenuto, straordinariamente lungimirante, necessita più che mai di una riscoperta in grado di rinvigorirne freschezza e vitalità.

Matteo Andriola

mercoledì 22 ottobre 2014

Wittgenstein e il "Tractatus logico-philosophicus": il potere del linguaggio

È quanto meno anomalo che un ingegnere aeronautico si converta alla Filosofia, e per questo, lo studio del pensiero di Wittgenstein deve essere affrontato con estrema cautela, tentando un approccio diverso e trasversale. Non si tratta di un filosofo come tutti gli altri, e credo che i profani della materia si debbano avvicinare a lui con estrema prudenza. Molti si aggrappano alla storiella del leone, altri lo citano, ma pochi lo conoscono e sono ancor meno quelli che lo capiscono. Non credo sia giusto scindere Ludwig Wittgenstein dagli studi scientifici inizialmente intrapresi e la sua filosofia, per quanto ci si sforzi di negarlo, non è altro che la svolta umanistica di uno scienziato pienamente formato. Ho sempre diffidato delle illuminazioni improvvise, ma al contempo non posso negare che esse esercitino sempre uno straordinario fascino su di me.
Nella prima parte del Tractatus logico-philosophicus, quella che ora mi preme analizzare, Wittgenstein individua nel linguaggio il fulcro centrale della Filosofia, e ciò che più gli interessa è la capacità dello stesso di rappresentare il mondo. La ricerca relativa a quella che potremmo chiamare "essenza della proposizione", è un percorso complesso e impervio e, per molti aspetti, si alimenta dalle ceneri del pensiero di quel Kant che in molti, a ragione, ancora prendevano come saldo e imprescindibile punto di partenza per le proprie teorizzazioni filosofiche. Nel Tractatus logico-philosophicus, opera tanto ambiziosa quanto controversa, Wittgenstein parte dall'assunto, a mio giudizio mai troppo convincente, che la proposizione sia "letteralmente" un'immagine logica della realtà. All'interno di una proposizione, sostiene, i nomi fanno le veci degli elementi, ed esprimono quelle relazioni che nella realtà vigono tra gli oggetti; ora però, e Wittgenstein lo sa bene, riesce difficile scorgere il nesso immediato tra gli elementi della proposizione e la situazione che essi vogliono rappresentare, e per uscire da quest'impasse, il filosofo chiama in causa il pensiero, il quale, a suo dire, contiene intrinsecamente quei simboli necessari per concepire il nesso che mette in relazioni i nomi costituenti la proposizione. In altri termini, il linguaggio rappresenta logicamente la realtà, ma lo può fare solamente grazie al pensiero, che contiene quei simboli che il linguaggio può soltanto sottintendere. Attingendo in maniera forse troppo rigida alle proprie conoscenze matematiche, Wittgenstein giunge a considerare la proposizione come "immagine logica della realtà", in quanto essa, esattamente come avviene nella realtà visibile, presenta una struttura i cui elementi presentano effettive possibilità combinatorie. In quanto immagine della realtà, ogni proposizione "sensata", sarà caratterizzata dalla "bipolarità", ovvero dalla possibilità di essere vera o falsa, in relazione alla realtà che rappresentano. In altri termini, la validità di una proposizione si dovrà verificare, sottoponendola al severo esame della realtà, e fino a quel momento essa sarà equidistante dalla verità e dalla falsità.
Per il Tractatus, Wittgenstein non poteva fare a meno di appoggiarsi al filosofo che prima di tutti aveva sostenuto l'indissolubile legame tra realtà e linguaggio, ossia Aristotele. Era stato lui il primo, infatti, a vincolare la veridicità di una proposizione al suo riscontro nella realtà. Per mille motivi, Wittgenstein non è Aristotele, e gli strumenti a sua disposizione gli consentono un'analisi filosofica per così dire "matematica", che il filosofo greco poteva al più soltanto desumere. Tuttavia, non possiamo negare che il Tractatus logico-philosophicus sia un testo molto tecnico, dei più complessi mai scritti, e Bertrand Russell ha il grande merito di averlo compreso prima degli altri. L'analisi di Wittgenstein diviene quasi matematica nel momento in cui si concentra sui connettivi logici ( "non", "e", "se" ) e sul loro "non essere rappresentanti". Ricorrendo all'esempio concreto, la proposizione "non piove" non è rappresentativa di nessuna realtà, in quanto non esiste una realtà che corrisponda a tale proposizione, semmai soltanto realtà che neghino la proposizione "piove"; semplificando la questione, la proposizione "non piove" è resa vera esattamente dal medesimo fatto che la rende falsa, ossia dalla proposizione "piove".
Wittgenstein introduce i cosiddetti "fatti atomici", che possono darsi assieme oppure no e che, combinati, originano quelle che definisce "proposizioni atomiche", altrimenti dette "elementari". Eredità dell'impostazione matematica, è lo schematismo il grande limite del Tractatus,  e Wittgenstein, riprendendo Russell e soprattutto Gottlob Frege, elabora le "tavole di verità" ( a mio giudizio poco filosofiche e molto scientifiche ) come strumento necessario per determinare la verità o la falsità di quelle che chiama "proposizioni molecolari", ossia quelle proposizioni ottenute mediante il ricorso ai connettivi logici. Pur non trovando sempre concreta rappresentazione nella realtà, le "proposizioni molecolari" possono anche configurarsi come vere ( "Se piove allora piove" ) e in questo caso si tratta di "tautologie", alle quali si contrappongono le proposizioni sempre false, ossia le "contraddizioni" ( "piove e non piove" ). Prive di bipolarità, collocandosi necessariamente o dalla parte del vero o da quella del falso, tutte le "proposizioni molecolari" risultano agli occhi di Wittgenstein "prive di senso" in quanto, contrariamente alle "proposizioni sensate", non possiedono alcun contenuto rappresentativo ( ed infatti, non vi è possibilità che nel medesimo istante e nel medesimo luogo piova e non piova ). A ben osservarle però, Wittgenstein lo sa benissimo, tanto le "tautologie" quanto le "contraddizioni", tradiscono inequivocabilmente gli insuperabili limiti del parlare e del pensare, in quanto, pur sforzandoci, ci risulta impossibile rappresentarci un mondo contraddittorio esattamente quanto ci risulta ci risulta impossibile rappresentarcene uno tautologico. 
Forse Wittgenstein sarebbe stato un ottimo ingegnere, ma probabilmente la Filosofia aveva più bisogno di lui di quanto non ne avesse l'ingegneria.

Matteo Andriola

mercoledì 15 ottobre 2014

Kierkegaard e la "verità del singolo"

Se l'avessi incontrato a un evento mondano, probabilmente l'avrei invidiato per la sua aria scanzonata e sovente guascona; l'eleganza mescolata allo snobismo che di consuetudine sciorinava in pubblico faceva di Søren Kierkegaard un perfetto mentitore, un dissimulatore capace di nascondere la propria reale condizione a quella che era solito chiamare "folla bestiale". Senza remore, oggi posso dire di essermi convinto che fosse un bugiardo, e la sua maschera era senz'altro piuttosto ingannevole se si considera che dietro di essa si celava uno degli individui che non è esagerato annoverare tra i più tormentati dell'intera Danimarca. Nato nel 1813, ricevette una rigida educazione religiosa che personalmente credo l'abbia condizionato più di quanto si voglia ammettere; nell'arco di circa sette anni perse il padre e cinque fratelli, in quella che interpretò come un'autentica punizione divina per una colpa a noi ignota commessa dal genitore. Sentimentalmente non si può dire che il giovane fosse meno inquieto, se si considera che interruppe il fidanzamento con Regina Olsen, a causa di un mai specificato turbamento interiore che funestava il suo animo senza dargli tregua. Che Kierkegaard fosse un animo profondamente turbato non è in alcun modo opinabile, ma non sono mai riuscito a giudicarlo instabile o illogico, e il frequente ricorso agli pseudonimi fa di lui un filosofo tanto grande quanto sfuggente. La questione degli pseudonimi è in realtà più complessa di quanto si pensi, e il ricorso ad essi non è altro che un geniale stratagemma per responsabilizzare il lettore, privandolo di qualunque condizionamento.
Alla luce di quanto accadutogli, Kierkegaard doveva sentirsi decisamente in credito con Dio, eppure, sostenendo la "verità del singolo", ci fornisce una delle più alte e pure dimostrazioni di fede che la Filosofia ricordi. Secondo lui, è il "singolo" ad elevarsi sulla collettività, anche e soprattutto in materia di fede, e la verità ha come proprio compito l'affermazione assoluta dell'individualità. Attaccando Hegel, Kierkegaard si scaglia contro le ricerche metafisiche indirizzate alla ricerca di verità universali e concetti assoluti ( quali ad esempio la coscienza ) che non possono avere senso a meno che non vengano rigidamente contestualizzati alla soggettività del singolo individuo. Una conoscenza che scavalchi l'individualità è un'assurdità, in quanto tale individualità si concretizza proprio in relazione ad altre singolarità, e non in rapporto all'umanità intesa come entità autonoma dotata di vita propria. Una simile concezione dell'umanità negherebbe in assoluto la singolarità dell'individuo, potendo peraltro perpetrare crimini orrendi, semplicemente celandosi dietro la spersonalizzante maschera della moltitudine; ed infatti, è la folla ad aver ucciso Gesù Cristo, non il singolo. Paradossalmente, in materia religiosa, la conoscenza diviene secondo Kierkegaard uno strumento fuorviante, in quanto essa nulla ha a che vedere con la fede, ma al più con un nozionismo fine a se stesso. Il singolo individuo può e deve ricercare la salvezza, rimanendo però consapevole di poterla raggiungere esclusivamente attraverso la fede, e la conoscenza storica del Cristianesimo, in questo senso, può tranquillamente valere molto meno della totale ignoranza in materia. È in Cristo soltanto che si trova la chiave della salvezza, e non nei proseliti di una Chiesa come quella danese che Kierkegaard non ha remore nel definire "pagana". Il rapporto con Gesù è intimo e personale e tale intimità rappresenta agli occhi del filosofo l'unica strada possibile per la salvezza; ogni uomo, inteso nella propria individualità, instaura con Cristo un rapporto esclusivo che di fatto costituisce, e non potrebbe essere altrimenti, l'unico viatico possibile per ottenere la salvezza. 
A ben vedere, al di fuori di questo privilegiato rapporto, la religione può addirittura risultare contraddittoria nella sua incomprensibilità. Che Dio, a cui sarebbe sufficiente una parola,  si faccia uomo e decida di morire per salvare l'umanità, è un controsenso dal quale è impossibile uscire per mezzo della ragione; la storia di Cristo è propedeutica alla fede, ma non indispensabile per la salvezza. Il rapporto dell'uomo con Dio è un mistero che accomuna tutti i singoli, affermandone l'individualità. Ecco perchè, secondo Kierkegaard, la verità può risiedere soltanto nel singolo.

Matteo Andriola

lunedì 6 ottobre 2014

Thomas Hobbes e la teoria dello Stato

Verità e leggenda spesso riescono a fondersi armoniosamente, ma pare tutto sommato verosimile che la madre di Thomas Hobbes, il 5 aprile del 1588, abbia dichiarato di essere in preda alle doglie a causa del timore che l'Inghilterra venisse invasa dagli spagnoli. L'Invincibile Armata, di invincibile aveva molto poco, e Filippo II dovette chinare il capo di fronte alla superiorità inglese, ma tanto bastò per far maturare nel giovane Thomas la convinzione di essere "figlio della paura". La vicenda è curiosa, sicuramente affascinante, ma l'episodio inserisce il nascituro entro una dimensione per certi versi romanzesca.
Pochi filosofi, a mio giudizio, hanno rivoluzionato la Filosofia quanto Thomas Hobbes, e le sue teorie politiche non possono essere ridimensionate neppure a distanza di secoli. Non posso negarlo, quella del "contratto sociale" è una teoria così illuminante che mai cesserà di affascinarmi, e la teorizzazione consegnataci da Hobbes è talmente straordinaria da risultare attuale sempre e comunque. Egli si interroga sulla legittimità dello Stato, e la teoria contrattualistica secondo cui gli uomini avrebbero creato artificialmente una società stipulando un ideale contratto, diviene per lui lo strumento deputato alla giustificazione di tale legittimità. Con il patto, ci dice Hobbes, gli individui si sono accordati per trasferire i propri diritti naturali a una persona "civile", la cui volontà unica ha soppiantato quella comune e quella singola di ciascuno. Importa poco che l'accordo non abbia fondamento storico, la questione si gioca nel campo della teoria, e proprio per questo è più attendibile e rilevante. Se crediamo alla teoria contrattualistica, siamo costretti a convenire con Hobbes nel ritenere che il principio fondativo di uno Stato affondi le proprie radici nel consenso degli uomini, anziché nella volontà divina. Non credo esageri nel paragonare la forza di uno Stato a quella di un essere mostruoso, e col Leviatano Hobbes, perfettamente consapevole di procedere entro un terreno minato, ci offre uno dei più straordinari testi politici che siano mai stati scritti. Il potere può essere detenuto da un singolo ( monarchia ) o da un'assemblea ( democrazia ), ma in entrambi i casi si tratterà di un potere artificiale e le singole volontà che allo stato di natura risultavano indipendenti, sono destinate a fondersi in quella della "persona sovrano-rappresentativa", ossia la "persona artificiale" che diviene l'effettiva detentrice della sovranità. Essa, sovrana e al contempo rappresentativa, risulta indispensabile per l'esistenza stessa dello Stato, che in sua assenza si ridurrebbe a un disordinato coacervo di individui privi di una qualunque volontà politica. La nuova volontà pubblica dunque, si emancipa da quella del singolo e la volontà dello Stato trova concretezza unicamente nel suo rappresentante, appunto la "persona artificiale". La chiave della teoria hobbesiana sta proprio qui, ossia nell'affermare che la rappresentanza non consista nella mera rappresentazione della volontà dei molti, quanto piuttosto nella creazione di una nuova volontà del tutto indipendente. Alla luce di ciò, che la "persona artificiale" sia un monarca o un'assemblea, poco cambia, ciò che conta è che i poteri siano assolutamente unificati in una sovranità "assoluta", "indivisibile" e "irresistibile". Nel dettaglio, dovendo rispondere esclusivamente alle leggi naturali, il sovrano risulterà "assoluto" in quanto obbligatoriamente "sciolto" da qualunque legge civile sulla quale si erge, "indivisibile" in quanto detentore unico di tutti i poteri, "irresistibile" in quanto gli individui, nel riconoscergli legittimità attraverso il patto, di fatto negano la contraddittoria possibilità di resistergli. Nella concezione hobbesiana dello stato non può non trovare posto la Chiesa, che però non risulta un'entità indipendente, ma al contrario concorre alla realizzazione di uno Stato al contempo civile ed ecclesiastico, guidato dal medesimo detentore della sovranità. Hobbes infatti, nega con veemenza l'opportunità della separazione tra potere temporale e potere spirituale, in quanto tale divisione porterebbe i due poteri tentare continuamente di prevaricarsi, obbligando così i cittadini a dover obbedire a due sovrani. 
Forse è ardito ritenere che Hobbes abbia fondato la moderna teoria politica, ma non mi stancherò mai di ripetere che, senza il suo contributo, teorie illuminanti come quelle di John Rawls e Robert Nozick non avrebbero trovato un terreno tanto fertile su cui germogliare e fiorire rigogliosamente.

Matteo Andriola 

martedì 23 settembre 2014

Introduzione al problema della conoscenza

Da tempo mi interesso al problema della conoscenza e non posso negare di essere da sempre affascinato dalla ricerca militante in questo campo che mai e poi mai potrà risultare anacronistico, un terreno che in molti hanno provato a coltivare, e che dal tempo di Platone sino a quello di Hegel si è sempre mantenuto più che mai fertile. Ogni giorno utilizzo i miei sensi migliaia di volte, ma non mi illudo che ciò mi permetta di conoscere nel senso proprio del termine ed anzi, più li utilizzo e più mi convinco di quanto essi siano clamorosamente limitati. In molti hanno già dedicato pagine e pagine alla questione, e sono consapevole di aggiungermi ad una schiera piuttosto nutrita, ma le mie riflessioni mi hanno condotto entro un labirinto dal quale è assai difficile uscire, nel quale è particolarmente affascinante muoversi, pur dovendolo a volte obbligatoriamente fare con passo cautamente incerto. Smentendo San Tommaso, sembra accettabile riconoscere evidenti limiti alla conoscenza sensoriale, in quanto i cinque sensi permettono di conoscere in maniera "specifica" ( quella cosa, quell'oggetto, quell'individuo ) e, più o meno approfondita che sia, la conoscenza "particolare" non risulta essere in grado di fornirci un valido supporto per giungere a quella "universale".
Ma cosa si intende con questi due termini? Procediamo con ordine. La realtà, quella percepibile attraverso i sensi, presenta una miriade di casi particolari, ossia una moltitudine di manifestazioni parziali ( appunto "particolari" ) di insiemi che li racchiudono e che è opportuno definire "concetti". Il caso "particolare", dunque, altro non è se non una manifestazione di un concetto ma, si badi bene, soltanto "una" tra le molte possibili, e non certamente "la" manifestazione dell'insieme che lo include. Ogni concetto, dunque, si estrinseca in casi particolari, i quali si configurano come manifestazioni di esso, ad esso riconducibili, ma considerabili soltanto quali parziali testimonianze e non quali categorie o appunto concetti. A tal proposito, si consideri il seguente esempio: la "categoria" ( o "concetto" ) di "cane", di fatto, è un insieme che contiene molti sottoinsiemi rappresentati dalle differenti razze canine, i quali, a loro volta, contengono moltissimi elementi corrispondenti ai singoli cani esistenti. Ora, è chiaro ed evidente che la realtà sensibile, quella percepibile attraverso i sensi, è rappresentata dagli elementi ( i singoli esemplari ), in quanto gli unici ad essere raggiungibili dai sensi, gli unici che ad essi soggiaciono. Al concetto, alla categoria madre, non è possibile aver accesso attraverso i sensi, in quanto quello di "cane" è a tutti gli effetti un concetto cui possiamo facilmente ricondurre i vari sottoinsiemi e i moltissimi elementi, ma al quale non possiamo certo giungere attraverso la percezione sensibile, alla quale, semmai, soggiace appunto "un" cane o, se si preferisce, soggiaciono tutti i cani, intesi però come singoli esemplari ( o se si preferisce, come elementi di un insieme ). La conoscenza "particolare" ( che si rivolge sempre agli elementi e mai agli insiemi ), come lo è necessariamente quella sensibile, è inequivocabilmente parziale, in quanto ci può portare a conoscere molto, forse tutto di un determinato elemento, di quel preciso elemento, ma ci dice poco o nulla del concetto "universale", a cui non si potrà mai giungere attraverso la via sensibile, la quale, al più, in seguito all'acquisizione di molti casi particolari, ci potrà fornire degli strumenti utili per categorizzare induttivamente, ma non ci condurrà mai al concetto o categoria. In altri termini, la conoscenza di molti casi particolari ci potrà fornire, attraverso il ragionamento induttivo, la capacità di racchiudere un caso particolare entro un insieme, di inserire poi un insieme entro un altro insieme ( rendendolo di fatto un sottoinsieme ), ma non ci consentirà l'accesso al concetto, alla "conoscenza universale" o, se si preferisce, alla conoscenza "dell'universale", che ai sensi è destinata a rimanere inaccessibile, e non potrà mai ad essi soggiacere. Non solo: in alcuni casi, la conoscenza sensibile, oltre che limitata può risultare addirittura fuorviante, in quanto una conoscenza anche approfondita di numerosi casi particolari rischia di condurre il soggetto percepente, sempre attraverso il ragionamento induttivo, a categorizzare erroneamente, non tenendo conto delle eventuali eccezioni che, se presenti, sono destinate a invalidare la categorizzazione, rendendola falsa a tutti gli effetti. Come sostenuto da Bertrand Russell infatti, ai fini di una conoscenza universale, il ragionamento induttivo non può che risultare fallibile, in quanto un tacchino, dopo aver osservato un numero elevatissimo di casi particolari sempre uguali, potrebbe ben concludere che l'ora del suo pasto sia sempre la medesima, ma la vigilia di Natale, purtroppo per lui, si vedrebbe smentito e pronto per essere servito in tavola. Allo stesso modo, per quanto ci si possa sforzare di giungere a un qualunque concetto attraverso i sensi ( e l'unico modo apparentemente plausibile sarebbe proprio il ragionamento induttivo ), l'impresa non potrà che naufragare miseramente. La strada per giungere al concetto, ammesso che sia raggiungibile, è impervia e piuttosto tortuosa.

Matteo Andriola

venerdì 19 settembre 2014

Heidegger è sempre Heidegger

Non c'è niente da fare, di fronte a Martin Heidegger è sempre doveroso togliersi il cappello in segno di riverenza. Non esiste filosofo che sia stato capace di risultare al tempo stesso così moderno e così conservatore, in grado di sviluppare un pensiero così innovativo pur rimanendo saldamente ancorato alla tradizione. In qualunque epoca fosse vissuto, avrebbe comunque fatto il filosofo e questa sua naturale inclinazione alla teorizzazione, rende piuttosto difficoltoso introdurre un pensiero che certo risulta ostico in molti suoi aspetti. Sinceramente, non consiglierei Essere e tempo come testo da leggere per avvicinarsi alla Filosofia e onestamente non credo siano in molti ad essere in grado di comprenderlo appieno, tuttavia, contrariamente a quanto si possa pensare, ciò non ne sminuisce il valore, ma al contrario ne nobilita la qualità, facendone un testo filosoficamente del tutto elitario. Che esso rappresenti uno snodo decisivo nel lungo percorso filosofico però, è cosa innegabile. 
Riesumando meritevolmente il pionieristico pensiero di Parmenide, Heidegger punta l'indice contro la Filosofia moderna, colpevole di aver accantonato in maniera del tutto ingiustificabile la ricerca sull'essere. Se però il capolavoro heideggeriano Essere e tempo inizia constatando la lontananza da tale ricerca, clamorosamente rifiuta di gettarsi a capofitto, come invece sarebbe legittimo attendersi, in una trattazione sull'essere in quanto tale, ma piuttosto si concentra sull'ente che con l'essere ha un rapporto privilegiato, ossia ciò Heidegger chiama "esserci" ( "Dasein" ) e noi tutti chiamiamo "uomo". Mi rendo conto che tale definizione possa risultare ostica, ma Heidegger vi ricorre a ragion veduta, utilizzandola per indicare la presenza dell'essere qui e ora, un'essere che appunto "c'è" e si realizza appieno soltanto nell'uomo che, contrariamente a tutti gli altri enti ( statici e immutabili ), si trova a poter scegliere tra un ventaglio di possibilità d'essere. Heidegger deve molto a Husserl, ma ha la forza e il coraggio di metterne parzialmente in discussione il pensiero, non condividendone la teoria secondo cui la percezione possa spiegarsi soltanto in relazione al soggetto percepente e che il manifestarsi non possa non dipendere dalla coscienza. In altri termini, laddove Husserl sosteneva che apparire significasse essere presente "fisicamente" dinanzi al soggetto percepente, Heidegger non lega indissolubilmente la presenza alla percezione diretta, ma sostiene che tutti gli enti siano effettivamente "presenti" per lo più in virtù della loro "utilizzabilità". Ogni ente dunque, vi è anche senza essere percepito, ma fintanto che non viene utilizzato, non può dirsi "presente", semmai soltanto "percepito". Heidegger non intende negare la teoria fenomenologica, ma con un ragionamento apparentemente contraddittorio sostiene che il fenomeno non sia soltanto ciò che si manifesta, ma che per certi versi sia anche e soprattutto ciò che non si manifesta. Ricorrere all'esempio è sempre utile: ipotizziamo di impugnare una matita e di iniziare a disegnare; il nostro rapporto con essa si ridurrebbe alla sua utilizzabilità, e non alla mera percezione, non alla sua "semplice presenza". La matita dunque, si manifesterebbe, sottraendosi alla pura percezione diretta, in quanto noi ci rapporteremmo ad essa utilizzandola per quella che è la sua reale funzione; in altri termini, ci rapporteremmo con un mezzo anziché con un oggetto, con un ente che in quel momento non ci giunge in quanto matita, bensì in quanto strumento. Heidegger definisce il rapporto con gli oggetti un "prendersi cura" di essi, legando il loro manifestarsi all'utilizzabilità. Quella che Heidegger definisce "semplice presenza" è la mera manifestazione dell'oggetto inteso come tale, ma non è la modalità primaria a disposizione dell'uomo per rapportarsi agli enti della conoscenza, che possono essere conosciuti appieno soltanto in virtù della loro utilizzabilità, appunto "prendendosene cura". Alla luce di quanto detto, tutti gli enti si inseriscono entro un disegno in cui ogni ente rimanda allo scopo per cui è utilizzabile; è il cosiddetto "sistema dei rimandi". L'intero sistema dei rimandi è il "mondo" e l'essere proprio dell'uomo, è un "essere nel mondo", ossia l'instaurazione di un insieme di rapporti fondato sull'utilizzabilità di tutti gli enti. Secondo Heidegger dunque, l'esistenza non si riduce alla conoscenza degli oggetti, ma legandosi indissolubilmente alla loro utilizzabilità, si concretizza in un vastissimo ventaglio di possibilità di utilizzo o, se preferiamo, di possibilità di azione. In altri termini, l'uomo esiste perchè agisce "attivamente", non perché percepisce "passivamente".
Potrei proseguire, il pensiero di Heidegger è molto vasto, ma per il momento credo sia giusto prendere atto della grandezza di un filosofo, la cui modernità riesce ancora a stupirmi.

Matteo Andriola

domenica 14 settembre 2014

L'illusione di un governo giusto: la democrazia

L'uomo non perde occasione per dimostrare di essere troppo facilmente ingannabile, ed anzi, molto spesso accetta addirittura l'inganno di buon grado, convincendosi di non essere vittima di un raggiro. Del resto, da qualunque prospettiva la si osservi, una buona menzogna è certo più rassicurante di una terribile verità. Chi la conosce, sa che la Storia è la maestra più sincera che esista quando si tratta di spiegare la società, e certo non mente quando ci insegna che l'uomo necessita sempre e comunque di una guida cui affidarsi totalmente, e poco importa se di tipo temporale o spirituale. Si è detto e scritto molto al riguardo, e la contemporaneità quotidiana non perde occasione per presentare i limiti sociali dell'essere umano, del tutto incapace di regolamentarsi senza assoggettarsi a un potere che gli imponga una linea direttrice piuttosto netta e marcata. Quella del "contratto sociale" è una teoria piuttosto affascinante, ma la sua validità è strettamente vincolata all'ipotetica condizione originaria dello "stato di natura", perchè se la si sposta sul piano pratico, inizia a fare acqua da tutte le parti. Aristotele forse non sbagliava definendo l'individuo un "animale politico", ma probabilmente ne sopravvalutava le qualità, intendendolo come protagonista attivo di un disegno che lo vede invece soltanto arrendevole subordinato.
L'evoluzione sociale ha visto l'individuo, in modi e contesti differenti, battersi ovunque per quei diritti che riteneva di meritare, e ciò soprattutto in campo politico ha generato dispute secolari che hanno contribuito a scrivere in maniera indelebile pagine e pagine di Storia. L'emancipazione del singolo si è realizzata attraverso l'illusione di poter scegliere il proprio destino, e la sua conseguente affermazione individualistica ha comportato una progressiva diminuzione del prestigio dei governi verticistici, che ha reso quasi ovunque la monarchia e i suoi surrogati, a prescindere degli opprimenti e retrogradi simboli di ingiustizia. Se per un uomo è difficile ammettere di avere un padrone, per una società è molto più difficile ammettere di essere suddita, e un sovrano, per quanto capace, è destinato a diventare un despota per il solo fatto di sedersi su un trono indossando una corona e impugnando uno scettro. Dittatori e tiranni hanno confermato un timore che però è motivato soltanto in relazione al caso specifico, in quanto essi non sono altro che la degenerazione di entità che non necessariamente sono destinate a negare diritti e giustizia ai subordinati. La sovranità popolare è stata ovunque accolta con grida trionfali ma spesso, il tanto celebrato desiderio di libertà è rimasto intrappolato nelle inestricabili trame della rete della teoria. Celebrare l'avvento di un governo di natura democratica aveva più senso ieri di quanto non ne abbia oggi e gli entusiasmi del passato erano motivati da quella che si configurava come una conquista anzitutto concettuale. In altri termini, la democrazia ateniese, la repubblica a Roma e l'abbattimento dell'ancien regime in Francia contribuirono in maniera determinante all'evoluzione ideologica della società, ma non rappresentarono in alcun modo un punto d'arrivo.
Il governo del popolo, oggi ovunque "indiretto", non ha migliorato la situazione, ma anzi, nella maggioranza dei casi non è trascorso molto tempo prima che l'entusiasmo lasciasse il posto al rimpianto. Il sogno della democrazia diretta è stato abbandonato da tempo, e nella stragrande maggioranza dei casi ciò che non passa attraverso il voto è ritenuto antidemocratico, ma analizzando la questione con attenzione, votare scegliendo tra un ventaglio di opzioni imposte dall'alto, di democratico ha soltanto il retrogusto. Quando Mark Twain sostiene che se il voto servisse a qualcosa non verrebbe concesso, è molto meno provocatorio di quanto si voglia credere e i governi eletti impiegano pochissimo tempo per snaturare la propria concettuale democraticità, virando verso direzioni decisamente antidemocratiche. Nulla vieta ad una monarchia di essere più democratica di una repubblica e indicando nel "politico onesto" il "politico capace", Benedetto Croce coglie nel segno, risolvendo una questione concretamente molto più semplice di quanto si possa credere. La democrazia ha snaturato se stessa rivelando il proprio inganno e divenendo nel tempo lo strumento preposto per deresponsabilizzare gli eletti che, a tutti gli effetti, si sentono investiti di un incarico che, in quanto figlio di un suffragio, pare essere giustificato in ogni sua azione. Socrate e Platone non avevano remore nel mostrarsi antidemocratici, cogliendo in tempi non sospetti la contraddizione di una forma di governo fondamentalmente utopistica. Molto tempo dopo, nel saggio La democrazia in America, Alexis de Tocqueville riterrà la "dittatura della maggioranza" ben più subdola e pericolosa della tirannia dei vecchi regimi dispotici, individuando proprio nel suo presunto punto di forza, il reale nervo scoperto della democrazia.
Le moderne democrazie, di democratico hanno ben poco e quella del voto è una "vittoria di Pirro", che in tempi neppure molto lunghi si ritorce contro un elettore che ha liberamente scelto un governo che si sente completamente legittimato in ogni sua azione proprio in virtù del voto che l'ha determinato. Contrariamente a quanto si possa pensare, la democrazia non spoglia i governi di quel rigido personalismo che necessariamente anima i singoli che li compongono, e l'illusione di un governo giusto, in grado di adoperarsi per la collettività, svanisce inesorabilmente al cospetto di un individualismo sempre più dilagante e pericoloso.

Matteo Andriola

mercoledì 3 settembre 2014

Il mondo di Schopenhauer

Nel 1820, l'allora trentaduenne Arthur Schopenhauer iniziò l'attività di libero docente all'università di Berlino fissando le proprie lezioni in contemporanea con quelle dell'odiato Hegel. Non si può dire mancasse di personalità, ma tatticamente non fu una grande idea: la sua aula rimase desolatamente vuota. Neppure il tempismo era stato perfetto se si considera che l'anno precedente Il mondo come volontà e rappresentazione aveva subito diverse stroncature. Pochi in quel momento lo immaginavano, ma quell'irriverente filosofo che aveva osato sfidare Hegel, di frecce al proprio arco ne aveva parecchie e quell'opera troppo frettolosamente stroncata senza appello era destinata a lasciare un'impronta indelebile nella storia della Filosofia. 
Schopenhauer non era tipo da mostrare gratitudine, ma in cuor suo sapeva bene di dovere molto a Kant, che aveva subordinato il processo conoscitivo al soggetto piuttosto che all'oggetto, sostenendo contemporaneamente la distinzione tra tra una realtà apparente ( il "fenomeno" ) e una realtà oggettiva ( il "noumeno" ). Schopenhauer parte dall'assunto che il mondo sia una rappresentazione del soggetto e che i sensi giochino un ruolo fondamentale nel processo conoscitivo, in quanto è grazie ad essi che il soggetto si rapporta alla realtà, che dunque, in virtù di ciò, non "è" ma "appare". Tuttavia, il suo pensiero non ricalca fedelmente quello di Kant, che ammetteva l'esistenza di un'oggettività residua indipendente e impercepibile dal soggetto ( il "noumeno", appunto ), ma se ne discosta escludendo la possibilità di un'esistenza noumenica indipendente dal soggetto, sostenendo che la realtà esista soltanto in relazione a chi la percepisce, subordinandola di fatto al suo essere percepita. In altri termini, è il soggetto a determinare l'esistenza della realtà, che senza di lui non esisterebbe indipendentemente, e che dunque altro non è se non una sua "rappresentazione" perchè ciò che esiste, esiste per il soggetto e nulla può esistere se non in relazione ad esso. Secondo Schopenhauer quindi, la realtà, in quanto rappresentazione del soggetto, è apparenza o, riprendendo l'amata cultura indiana, è "velo di Maya".
Ammettendo ciò però, ci si potrebbe chiedere perchè non esistano tante realtà quanti sono i soggetti percepenti, ma Schopenhauer, attingendo ancora una volta a piene mani al pensiero kantiano, secondo cui la conoscenza avverrebbe attraverso le universali forme a priori della coscienza ( "spazio" e "tempo" ), esce dall'impasse affermando che il mondo sia uno soltanto, proprio perchè i soggetti lo percepiscono attraverso le medesime forme. La realtà nasce nel momento in cui l'intelletto congiunge "spazio" e "tempo" attraverso quella che Schopenhauer ritiene a tutti gli effetti l'unica categoria, ovvero la "causalità". Neppure lui però, può esimersi dal riconoscere che vi siano contemporaneamente entità in grado di sottrarsi allo "spazio", al "tempo" e alla "causalità", ossia quelle stesse entità eterne e universali che Platone aveva chiamato "idee". Configurandosi come gli insiemi fungenti da categoria per i casi particolari ( l'idea di cane è la categoria che include i singoli cani esistenti ) ed essendo gerarchicamente ad essi superiori, esse non saranno percepibili attraverso le medesime forme della conoscenza con cui vengono percepiti appunto i casi particolari, ma il soggetto, elevandosi al di sopra della propria individualità e rinunciando alla "causalità", le riconoscerà ugualmente come proprie rappresentazioni.
A questo punto, il discorso potrebbe sembrare concluso poiché tutto parrebbe risolversi nell'illusione, ma Schopenhauer, poco incline all'arrendevolezza, nel riconoscere l'illusorietà del mondo, rovescia clamorosamente la prospettiva della tradizione filosofica, indicando nel corpo lo strumento per sollevare l'ingannevole "velo di Maya". Il corpo infatti, altro non è se non pura volontà. Ma questa, è un'altra storia.

Matteo Andriola

venerdì 29 agosto 2014

Nel vortice nichilista

Non scommetterei un centesimo su questa società, non lo farei nemmeno sotto tortura perchè sono certo che perderei. Di occasioni per la redenzione la Storia ne ha offerte parecchie, ma il percorso involutivo non si è fermato e la spinta individualista ha corroso con pazienza e metodo la struttura portante di una società che si è abbandonata alla deriva nichilista non concedendo neppure l'onore delle armi. Senza sconfinare nello storicismo, non possiamo negare di essere figli della Storia, e in particolar modo non possiamo negare di esserlo del Novecento ben oltre l'aspetto anagrafico, e a conti fatti, il centennio passato ci ha tolto molto più di quanto ci abbia dato. Non si può neppure dire che sia stato magnanimo lasciandoci in eredità quel sostrato individualista che di fatto è il primo responsabile del colpo mortale inferto all'etica.
Il secolo scorso ha avvolto nelle proprie spire tutto il percorso umano che l'ha preceduto, esacerbando l'inclinazione contraddittoriamente individualista dei membri del tessuto sociale, fungendo da detonatore per una situazione sociale irrimediabilmente esasperata e progressivamente crepata nelle fondamenta da incrinature insanabili. Superando l'impatto emotivo dei casi specifici, non ho remore nell'indicare proprio nell'uccisione dell'etica il crimine più grave commesso dal Novecento che, negando definitivamente l'inalienabilità del diritto alla vita, ha abbandonato l'individuo in balia del proprio becero ed effimero individualismo, privandolo conseguentemente di certezze etiche e valori stabili. Che l'avvento del capitalismo abbia delle responsabilità è innegabile, ma sarebbe riduttivo ritenerlo la causa unica di quella degenerazione che, affondando le proprie radici nell'individualismo, ha inaugurato la lunga e tuttora inconclusa stagione nichilista. Caposaldi e certezze etiche hanno perso consistenza come neve al sole e l'ideale contratto teorizzato da Rousseau e Locke è soltanto un ricordo lontano, tanto che quella stipula ha lasciato il posto ad una società fondata su una perenne lotta senza quartiere, in cui ogni mezzo è giustificato dal fine. Dal canto suo, il laicismo, pur responsabilizzando l'individuo, ne ha al contempo palesato l'impossibilità di vivere senza la fede e l'incapacità propugnare "motu proprio" una morale cui assoggettarsi. Negando l'inalienabilità del diritto alla vita e subordinandolo al fine individuale, la società ha estrinsecato una tendenza nichilista che ha poi visto, per inevitabile effetto domino, sgretolarsi ogni certezza. Il relativismo ha un'importanza filosofica più grande di quanto si possa credere, ma i suoi più accaniti teorizzatori falliscono nel voler relativizzare anche il diritto alla vita, che non potrà mai e poi mai essere valutato in relazione al contesto. Non posso e non voglio concedere attenuanti ad una società in cui la vita è diventata una merce, un oggetto di scambio il cui valore è oramai drammaticamente quantificabile numericamente. Violando l'inalienabilità del diritto alla vita, viene a cadere la costruzione etica che necessariamente su di essa deve poggiare e la conseguente disgregazione dei valori è la logica conseguenza di un vorticoso processo nichilista richiusosi su se stesso. Qualcuno potrebbe sostenere che non sia mai stato diverso e magari potrebbe chiamare in causa Platone, ancora lui, che in tempi non sospetti aveva anticipato tutti con il mito della caverna: a cosa reagisce infatti lo schiavo liberato, se non a un nichilismo ante litteram? La strada che porta a raggiungere e superare Nietzsche sarebbe troppo lunga da ripercorrere ora, ma ritengo doveroso sottolineare come il diritto alla vita abbia visto nel tempo mutare drasticamente la propria consistenza valoriale. Fintanto che esso veniva immolato in nome di un ideale, condivisibile o meno, lo si inseriva entro una dimensione eticamente aulica che per certi versi ne nobilitava il sacrificio. Molti sacrifici del passato venivano alimentati da un fine eticamente nobile almeno in teoria, e la vita diveniva spesso l'estremo mezzo con cui affermare valori altrimenti inaffermabili e irraggiungibili. Il tempo però ( e il Novecento in particolar modo ) ha vilipeso la dignità della vita azzerandone il valore attraverso sacrifici che non ritrovano il proprio motivo se non nella ricerca dell'utile individuale. L'eroica morte degli spartani alle Termopili e il suicidio di Catone a Utica sono purtroppo oramai aneddoti per sciorinare in pubblico la propria cultura, ma il loro significato è andato irrimediabilmente perduto.
Smentendo la tanto decantata evoluzione intellettuale, gli orrori del Novecento ( dai genocidi alle condanne capitali, dalle guerre di espansione alle persecuzioni razziali ) denunciano a gran voce la sconfitta dell'etica, precipitata oramai nel tritacarne nichilista. L'involuzione individualista ci presenta un individuo che non può risultare vittima, bensì più che mai colpevole in quanto artefice della società, e dunque direttamente responsabile della caduta nichilista. Per quanto mi sforzi, la sua colpevolezza mi impedisce di riporre nell'individuo la speranza di una radiosa rinascita di nietzscheana memoria, e il nichilismo, anziché un ostacolo da superare, ben presto verrà definitivamente accettato come un compagno di viaggio col quale convivere.

Matteo Andriola

sabato 23 agosto 2014

Il dialogo interreligioso è auspicabile da tutti, atei compresi

Se osservato da una diversa angolazione, un filosofo notoriamente ateo come Karl Marx può offrire un interessante punto di partenza per introdurre una disamina di tipo religioso. Riconosco che ciò possa apparire strano, ma se definendola "l'oppio dei popoli", Marx certamente tenta di infliggere un colpo mortale alla religione, al contempo ne afferma l'influenza, chinando la testa di fronte al suo enorme potere persuasivo che neppure lui, ateo, può riuscire a negare. Per quanto possibile, affronterò la questione senza ricorrere all'esempio specifico, cercando di non cedere alla tentazione di togliermi qualche sassolino dalla scarpa, in quanto ritengo il dialogo interreligioso una necessità anzitutto concettuale. 
Neppure ad un osservatore disattento può sfuggire quanto la religione condizioni la vita di una società umana sempre più multietnica e multiculturale, e sebbene le divinità greche ci sembrino lontanissime e le scomuniche medioevali anacronistiche, sarebbe ottuso credere che la religione abbia visto nei secoli ridimensionarsi il proprio ruolo. Nel tempo essa è mutata, spesso nella forma ma non nella sostanza, in funzione di un esercizio sempre più saldo delle proprie funzioni. Non mi interessa ora addentrarmi in una pur sempre stimolante argomentazione teologica, né tantomeno intendo chiarire in questa sede la mia posizione al riguardo; al momento mi preme soltanto intervenire riguardo all'opportunità del dialogo interreligioso in relazione al ruolo che la religione ricopre oggi all'interno della società. Che occupi un posto di prim'ordine del resto, neppure da posizioni agnostiche o atee lo si potrebbe negare, ed infatti ribadisco come Marx stesso sia in definitiva incapace di negarne l'enorme potere trainante.
Imbarcarsi in una riflessione di argomento religioso è però sempre questione delicata, e fondamentalmente credo che l'errore oggi più comune consista nell'osservare la religione assumendo sempre e comunque una posizione di partenza, che necessariamente finirà per influenzare la valutazione fin dai suoi primi passi. Essa è una realtà radicata nella società umana, a prescindere dal credo e dal "credere", e come tale dev'essere valutata. In altri termini, ci si potrà interrogare circa la natura o l'esistenza stessa della divinità, ma non circa l'effettiva presenza della religione all'interno della società. Come pretesto o come causa, il confronto religioso da sempre origina laceranti contrasti, qualunque sia la posizione che ognuno decida di assumere. Apparentemente, l'affollamento di chiese, moschee, templi e sinagoghe parrebbe riconoscere alla religione un saldissimo valore aggregante, ma rovesciando la medaglia non si può fare a meno di notare quanto essa ne possieda al contempo uno disgregante e laddove origina aggregazione, troppo spesso getta il seme per disgregare, generando divisione profonda appena al di fuori dei luoghi di culto. La millenaria storia delle religioni le ha sovente incanalate su binari rigorosamente conservatori, escludendole da una modernità che forse per certi aspetti non potrebbero neppure possedere, ma in un'epoca in cui il concetto di nichilismo è ritornato terribilmente attuale, ciò non dovrebbe precludere la possibilità di un costruttivo dialogo interreligioso, che dovrebbe essere auspicabile da tutti, atei e agnostici compresi. La religione, con atto di maturità, dovrebbe non soltanto raccogliere gli onori, ma anche accollarsi gli oneri che qualunque potere necessariamente deve sobbarcarsi, agendo in funzione aggregante, responsabilmente consapevole della propria capacità di spostare gli equilibri, guidando una società umana che non perde occasione per dimostrare di non essere autonoma.
Se si crede per convinzione, indubbiamente si crede anche per necessità e, senza entrare nel merito della fondatezza del credo o più in generale del "credere", non è un mistero che la religione abbia assolto nei secoli e assolva tuttora un ruolo consolatorio, offrendo ai moltissimi fedeli una ragione di vita che certo potremmo valutare in molti aspetti ma non potremmo mai arrivare a negare. A prescindere dalla loro fondatezza, le religioni svolgono anche il sempre allietante incarico di deresponsabilizzare l'individuo, rendendogli sopportabili i dolori terreni. Amo morbosamente Dostoevskij e quando Ivan Karamazov afferma "se Dio non esiste, tutto è permesso" non posso che inchinarmi di fronte all'enormità del narratore russo, che con una frase secca e concisa riesce a sintetizzare, come meglio non si potrebbe, l'essenza ultima della fede religiosa. Che esista o meno la divinità, l'uomo non è pronto per sopravvivere rinunciando ad essa e alla sua forza consolatrice, e proprio per tale motivo il dialogo interreligioso rappresenterebbe in questo momento storico uno strumento di straordinaria modernità in una società in cui il progresso scientifico è inversamente proporzionale a quello etico.
Oggi come ieri, la religione è un potere politico non meno che spirituale e come tale, modernizzandosi, dovrebbe agire. Trovo contraddittorio combattere sotto il vessillo di un dio, giustificando posizioni e gesti in nome della fede, eppure, assieme al denaro, la religione è causa, concausa o pretesto della stragrande maggioranza dei conflitti della storia. Ancora oggi, tra le religioni vi è un abisso molto più profondo di quanto si voglia ammettere e l'apertura al dialogo, nella maggior parte dei casi, si configura come mera disponibilità di convenienza, che però ai miei occhi altro non fa se non scavare tra di esse un solco sempre più profondo. Anziché ridurre la fede alla pura militanza, le religioni dovrebbero agire consapevoli del proprio potere trainante, ricercando e promuovendo un dialogo che non sia diretto ad affermare il proprio primato sulle altre, ma che sia propedeutico al raggiungimento di una cooperazione che prescinda dalle diversità. Le alte sfere religiose, nessuna esclusa, ben consapevoli della forza persuasiva esercitata dal proprio credo, non dovrebbero ricorrere alla predicazione per convertire e affermare la propria superiorità, bensì per unire in un costruttivo confronto. Per il nobile fine che si pone del resto, persino dal punto di vista dell'ateo un dialogo religioso è sempre auspicabile. Ovunque, il potere spirituale ha un'innegabile influenza temporale e la comunicazione interreligiosa diverrebbe un vero e proprio strumento unificante in una società che, mai come oggi, avrebbe bisogno di un saldo bastone su cui poggiarsi.
In questo senso, fede, ateismo e agnosticismo si collocano sullo stesso piano nel valutare l'opportunità di un dialogo che non snaturerebbe affatto le religioni in questione, ma anzi, paradossalmente, ne affermerebbe il valore anche agli occhi di chi non è un fedele. In tale prospettiva, la questione relativa all'esistenza della divinità diverrebbe superflua perchè, che essa esista o meno, la religione rimarrebbe comunque un' innegabile realtà.

Matteo Andriola

lunedì 18 agosto 2014

La caverna di Platone è più affollata che mai

Durante le sue lezioni, quello che poi sarebbe diventato il mio relatore di tesi, compiacendosi della grandezza della propria disciplina, era solito ripetere che se non avessimo capito il pensiero di Platone non avremmo capito neppure la Filosofia successiva. Al tempo credevo calcasse volutamente la mano, abbandonandosi ad un aristocratico snobismo accademico di maniera, ma non impiegai molto tempo per ritornare sui miei passi e capire che in realtà aveva ragione lui. Non so se Platone sia stato il più grande filosofo esistito, probabilmente no, ma sicuramente è quello che maggiormente ha condizionato i pensatori successivi: lo ritrovo in Leibnitz, in Kant, in Schopenhauer e persino in Nietzsche. Il fatto che Platone sia stato allievo di Socrate poi, ci impone di considerarlo con riverenza religiosa quasi a prescindere.
La società cui Platone si rivolge, per svariati motivi è una società molto diversa dalla nostra, e il ricorso ai miti aveva molto più senso allora di quanto non ne avrebbe oggi, tuttavia commetteremmo un grave errore se considerassimo il mito alla stregua di una semplice storiella coreografica. Ammetto di non essere mai stato un accanito sostenitore dell'attualizzazione del passato e penso che chi lo sia, molto spesso con il proprio sforzo finisca per travisare ciò che sta inopinatamente tentando di attualizzare. Chiunque abbia studiato la Repubblica di Platone però, giunto al libro VII deve necessariamente aver sussultato almeno una volta di fronte al mistero filosofico del mito della caverna; io non faccio eccezione, ed anzi ancora oggi non posso fare a meno di stupirmi davanti alla sua modernità. Se c'è una cosa che ho imparato dai miti, è che essi hanno sempre un'interpretazione generale indipendente che precede quella particolare, e la seconda necessariamente dipende dalla prima. Platone, che del ricorso al mito è un maestro, lo sapeva bene, ed anzi confidava proprio sul fatto che il lettore fosse consapevole dell'esistenza di differenti livelli interpretativi gerarchicamente ordinati. Ha ragione Nicola Abbagnano quando sostiene che la versione razionale completa di ogni mito sarebbe un controsenso e credo di non sbagliare indicando proprio in questa peculiarità la forza persuasiva dei racconti platonici.
Ritornando nello specifico del mito della caverna, dopo averlo velocemente ripercorso, credo sia opportuno osservarne alcuni aspetti. Platone immagina che alcuni schiavi si trovino incatenati sul fondo di una caverna, rivolti contro la parete e impossibilitati a voltarsi. Davanti a loro si muovono le ombre di alcune statuette mosse alle loro spalle da uomini accovacciati dietro ad un muretto. Dietro di esse, un fuoco proietta le ombre. Uno schiavo, liberatosi dalle catene, riesce a voltarsi e, risalendo la caverna, scopre che ciò che fino a quel momento aveva potuto vedere non era la realtà, ma soltanto una sua fittizia rappresentazione. Uscito dalla caverna, la luce del sole gli si manifesta in tutta la sua luminosità, rivelandogli la verità. Lo schiavo liberato ha scoperto la verità, ma è reticente di fronte alla possibilità di rientrare nella caverna per rivelare a quelli che un tempo erano i suoi compagni di prigionia che fino a quel momento sono stati ingannati da una menzogna e che quelle ombre non sono altro che un'illusione. Teme che questi, non credendogli, dopo averlo deriso lo uccidano.
Esistono diverse letture del mito, che dev'essere obbligatoriamente affrontato tenendo in considerazione la ben nota "teoria delle idee", ma come anticipato è ora di mio interesse concentrarmi sulla sua genericità anziché sulla sua specificità. Platone è troppo intelligente per lasciarsi sfuggire l'occasione di offrire un pronto riscatto alla memoria del suo maestro, ed infatti dietro allo schiavo liberato non possiamo fare a meno di intravedere Socrate, simbolo di un'auspicata emancipazione intellettuale, condannato a morte perchè, intellettualmente libero, rifiuta di scendere a compromessi. In altri termini, tralasciando i diversi piani di lettura, la liberazione dalla prigionia intellettuale diviene una necessità sociale e Socrate più di chiunque altro può rappresentare la coraggiosa scelta di chi rifiuta la costrizione della schiavitù ed esce dalla caverna alla ricerca della verità, anche a costo della vita. Socrate paga cara la propria emancipazione, ma agli occhi di Platone ( ed anche ai miei ) è un vero e proprio eroe perchè rifiuta le catene dell'ignoranza. 
Anche sforzandomi di non farlo, non posso fare a meno di notare come la società attuale abbia incatenato molti schiavi sul fondo di quella caverna, costringendoli ad una cattività forzata che pone davanti ai loro occhi soltanto ombre, subdole menzogne travestite da realtà. Interi popoli ridotti in schiavitù intellettuale, resi incapaci di ribellarsi ad una cattività che troppo spesso viene confusa con la libertà. Oggi, la caverna raccontataci da Platone è più affollata che mai, ed è affollata da schiavi che colpevolmente coltivano la propria condizione come una virtù, convinti che la catena sia il normale prezzo da pagare per vivere in società, una società che addita ogni schiavo liberato con disprezzo, accusandolo di essere un pericoloso sovversivo. Se siamo schiavi politicamente ed economicamente, lo siamo perchè anzitutto siamo soggiogati intellettualmente, felici di ammirare ombre danzanti sulla parete della caverna, protetti dal vincolo della catena. Se solo ce ne rendessimo conto, scopriremmo di aver fino ad oggi creduto a delle menzogne e iniziando a considerare la libertà dell'intelletto come un bisogno vitale, capiremmo come Socrate non sia in realtà il simbolo della ribellione, ma piuttosto il simbolo di quella stessa libertà intellettuale che dovrebbe essere imprescindibile prerogativa di ognuno e che invece, oggi più di ieri, è un'assente ingiustificata all'interno della società.

Matteo Andriola

lunedì 11 agosto 2014

Sulla pena capitale

Dopo aver pugnalato a morte Marat nella vasca da bagno, Charlotte Corday dichiarò di aver ucciso un uomo per salvarne centomila. Mi ha sempre affascinato questa fanciulla che, ironia della sorte, perse la vita quattro giorni dopo aver ottenuto l'immortalità storica per aver compiuto un gesto sicuramente "più grande di lei". La lama della ghigliottina, infatti, sentenziò senza condizioni la sua colpevolezza. Pur non condividendolo, posso tranquillamente dire di comprendere il gesto della Corday, che doveva certo nutrire profondo odio verso Marat, ma ancor più doveva avere a cuore quei "centomila" che col suo gesto intendeva salvare. Più o meno direttamente, Jean Paul Marat era stato il responsabile di moltissime esecuzioni e la Corday non aveva a disposizione molti mezzi per rendere inoffensivo quello che ai suoi occhi doveva apparire né più né meno di un assassino. Al contrario, alla sua esecuzione esisteva l'alternativa del carcere, che però non venne neppure contemplata.
La ghigliottina è oramai un oggetto da museo, ma la pena capitale continua ad essere in vigore in diversi Paesi e il dibattito generato dalla legittimità di uno strumento di giustizia che impone una morte "non necessaria" ha prodotto una letteratura così vasta da far scricchiolare gli scaffali più resistenti delle biblioteche. Non entrerò in questa sede nell'analisi dei casi specifici, in quanto è ora mio interesse analizzare la problematica nel suo complesso, focalizzandomi esclusivamente sull'esercizio di una pratica che ritengo illegittima senza condizioni. La questione presenta certo numerose implicazioni etiche, ma quando mi viene chiesto di indicare il motivo per il quale io sia drasticamente contrario alla pena capitale, senza esitazioni indico nella sua concettuale contraddittorietà la motivazione predominante. Essendo la vita un diritto inalienabile, non esiste oggi società regolamentata da leggi scritte ( incluse quelle in cui vige la pena capitale ) che non annoveri fra i reati l'omicidio volontario, e alla Giustizia si riconosce, tra gli altri, l'ingrato compito di comminare sanzioni proporzionate ai reati commessi, affermando la superiorità della Legge sul singolo individuo. Non si può negare che le sanzioni concorrano a rendere solide le fondamenta di una società che si è irrimediabilmente spogliata dell'etica, ma la pretesa di adottare la pena capitale facendone un esempio di giustizia, a ben vedere, non può che sconfinare nel territorio della contraddittorietà. Se da un lato infatti si dovrà obbligatoriamente riconoscere alla Legge un razionale primato gerarchico sul reato, dall'altro non si potrà fare a meno di negare la razionalità di un provvedimento che "legalmente" punisca un crimine ricorrendo a un altro crimine. Permeata di contraddittorietà e irrazionalità, la pena capitale testimonia l'irrimediabile fallimento civile della società che la applica. 
Ho perso da tempo la stima nel genere umano per illudermi che le leggi vengano rispettate per ossequio, perciò non esiterei a scommettere parecchi soldi sul fatto che gli uomini, nella stragrande maggioranza dei casi, non delinquano soltanto per paura delle conseguenze. In considerazione di ciò, piuttosto che come strumento di giustizia, la pena capitale si configura come strumento deterrente, barbaro ammonimento di ciò che potrebbe accadere ai responsabili di determinati crimini. Nella sua funzione deterrente che la relega a mero strumento punitivo e intimidatorio, non posso fare a meno di individuare un intrinseco potere disgregante, capace di far decadere il compito più nobile che alla Legge si dovrebbe riconoscere, quello educativo. Non è accettabile che la Giustizia, peraltro contraddittoriamente, violi l'inalienabile diritto alla vita e se, pur non giustificandolo, non fatico a comprendere le motivazioni di un genitore che impulsivamente decide di farsi giustizia uccidendo l'assassino della figlia, non riesco a concedere attenuanti a un'istituzione che, ergendosi sui singoli, per sua stessa essenza dovrebbe esercitare le proprie funzioni razionalmente e nel rispetto di quella morale di cui per sua natura dovrebbe essere il più affidabile garante. Sostituendosi a una punizione che non contempli la lesione del diritto alla vita ( come ad esempio, la detenzione ), la pena capitale non ha funzione riparatrice, non ristabilisce lo status quo precedente il delitto per cui è stata comminata, ma punendo con la morte il condannato, sostituisce soltanto un crimine con un altro. Il perverso sollievo che genera in coloro che la sostengono poi, rende la pena capitale una cartina tornasole utile per comprendere la reale natura dell'animo umano, che non è affatto desideroso di giustizia come invece si potrebbe pensare. Sono infatti sempre più convinto che l'individuo, oggi più di ieri, non brami realmente il trionfo della Legge, ma senta soltanto l'esigenza di illudersi che ciò avvenga. Nell'immaginario collettivo, il cattivo deve perdere e la sua sconfitta definitiva può essere sancita soltanto dalla morte, che in realtà altro non è se non l'emblema di una clamorosa sconfitta etica. La collettività, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, non desidera la giustizia, in quanto, se così fosse, non esiterebbe a proclamarsi unanimemente contraria ad una pratica eticamente ingiusta e concettualmente contraddittoria, e caldeggerebbe la sua abolizione auspicandone la sostituzione con la detenzione. Quest'ultima, la cui durata dovrebbe certamente essere regolata dal diritto, punirebbe ugualmente il colpevole, e lo renderebbe inoffensivo senza ledere l'inalienabile diritto alla vita. La "non necessaria" morte del condannato, invece, appaga soltanto il desiderio di una folla irrazionale che si convince che un efferato criminale possa ottenere ciò che merita soltanto salendo sulla forca.
Se mi venisse offerta la possibilità di invitare a cena un personaggio del passato, senza esitazioni inviterei William Shakespeare, per potergli chiedere come sia riuscito a conoscere così perfettamente la natura umana. Nessuno meglio di lui infatti è riuscito a rappresentare i reconditi meandri dell'animo umano e certo non è ricorso a molta immaginazione quando, scrivendo Il mercante di Venezia, ha caratterizzato il personaggio di Shylock, il degenere usuraio che accetta di prestare del denaro a Bassanio, a condizione che Antonio, garante del suo debitore, gli conceda una libbra della propria carne in caso di mancato pagamento del debito; con le tasche vuote ma moralmente appagato dal solo sacrificio umano. La libbra di carne Shylock non la otterrà, ma se ipoteticamente potessimo invitarlo ad esprimere un parere sulla legittimità della pena capitale, certamente deciderebbe di sedersi "dalla parte del torto", per citare Brecht. Purtroppo, rischierebbe di non trovare posto.

Matteo Andriola

venerdì 8 agosto 2014

A proposito di Nietzsche

Se fossi stato un ligio credente di un villaggio prussiano e durante la mia passeggiata quotidiana mi fossi imbattuto in Nietzsche che annunciava a squarciagola la morte di Dio, probabilmente avrei rischiato un mancamento e avrei additato quel baffuto figuro come un pazzo o, peggio ancora, come il demonio in persona. Possiamo facilmente immaginare che una simile reazione l'abbiano avuta in molti tra i contemporanei del filosofo di Rocken, o perlomeno tutti coloro che sentivano di non poter vivere senza un dio da venerare, la cui esistenza non era oggetto di discussione. Nietzsche sapeva che non avrebbe trovato particolare indulgenza nei suoi confronti, tanto era provocatoria la portata del suo annuncio, e soltanto la più o meno diffusa laicizzazione della società ha consentito la corretta ricezione del suo messaggio che, contrariamente a quanto si possa pensare, non può certo considerarsi un mero invito all'ateismo. La perentorietà dell'annuncio giustifica almeno in parte coloro i quali, in buona fede, hanno equivocato il messaggio nietzscheano. Per quanto stimolante, studiare Nietzsche è tutt'oggi un'impresa faticosa e l'impressione che se ne ricava è quella che il filosofo prussiano abbia ancora qualcosa da dirci e che si riprometta di farlo la prossima volta che torneremo sui suoi scritti. Ci ho fatto il callo e non mi fido di lui al punto da poter dire con sicurezza che il suo pensiero non ci nasconda ancora qualcosa, per cui ogni volta mi aspetto di trarre nuovi spunti dai suoi scritti. Che il suo messaggio fosse destinato a sconvolgere l'allora vigente morale religiosa del resto, Nietzsche lo sapeva benissimo; e in realtà era proprio ciò che voleva.
Nel 1882, quando nella Gaia scienza annuncia la morte di Dio, è già un filosofo maturo con alle spalle scritti di importanza capitale ( primo fra tutti, La nascita della tragedia ), e dunque il suo grido assordante si deve considerare come il frutto di un pensiero meticolosamente costruitosi nel tempo. Come anticipato, sarebbe errato ricondurre il clamoroso annuncio nietzscheano al mero e semplice ateismo, in quanto esso racchiude in se stesso significati molto più ampi. Con Socrate prima e Platone poi, secondo Nietzsche, ha avuto inizio un lento e inesorabile declino che ha portato all'ossessiva ricerca della verità, una verità che però neppure la vita e la natura possono conoscere. Nietzsche non era certo tipo da lasciarsi condizionare dal timore reverenziale ed infatti condanna senza appello Socrate e Platone, rei di aver diviso l'essere in due parti: una parte sensibile e illusoria, l'altra trascendente e irraggiungibile. Accettare che la verità risieda nell'irraggiungibile mondo trascendente però, significa anche ammettere di vivere in un mondo privo di senso e consistenza. La religione ( il Cristianesimo in particolare ) ha poi fatto il resto, prosegue il filosofo, portando a un definitivo sovvertimento gerarchico della morale, affermando il primato dei valori antivitali dei più deboli ( gli "schiavi" ) su quelli vitali dei più forti ( i "signori" ), in vista di un indimostrabile premio ultraterreno. La classe sacerdotale, debole e colma di risentimento verso quella dei signori, non potendo competere nel campo dei valori vitali ( come la forza e il coraggio ), ha messo in atto un meticoloso lavoro di avvelenamento, introducendo valori antivitali ( come la rinuncia e il sacrificio ) che la potessero rendere competitiva. Annunciandone la morte, Nietzsche non nega Dio, ma ne sentenzia soltanto la fine: la fine della religione cristiana e con essa il crollo di tutti quei valori illusori sui quali fino a quel momento si era retta la civiltà. La svalutazione del mondo terreno e dei suoi valori vitali ha disgregato tutte le certezze, generando nell'individuo il più completo senso di smarrimento dettato dal suo essere in balia di incerte e illusorie credenze. Una mancanza assoluta e totale di valori e certezze che si definisce "nichilismo". Col consueto fervore, Nietzsche condanna l'individuo moderno e il suo maldestro tentativo di liberarsi dal nichilismo sostituendo ai vecchi valori dei semplici surrogati, come ad esempio la fiducia nel progresso: lo scienziato, sia pure quello ateo, ricerca una verità spinto dalla "fede" di poterla trovare, sostituendo di fatto una fede con un'altra. Secondo Nietzsche, occorre prendere atto della morte di Dio e obbligatoriamente rinunciare alla ricerca della verità ( che non può essere raggiunta ), partecipando attivamente, secondo quello che lui definisce "nichilismo estremo", alla distruzione di tutte quelle illusioni alle quali fino a quel momento l'individuo, vittima della sua stessa debolezza, si era saldamente aggrappato. E Dio è l'emblema di tutte queste illusioni.
Tra il 1883 e il 1885, Nietzsche scriverà Così parlò Zarathustra, proseguendo nella propria analisi approfondendo il tema dell'oltreuomo. Avremo modo di parlarne.

Matteo Andriola

mercoledì 6 agosto 2014

Riflessioni mattutine intorno al conflitto tra Israele e Palestina

Come ogni giorno da circa un mese, l'argomento cui i quotidiani dedicano il maggior numero di pagine è la guerra tra Israele e Palestina. Mi rendo perfettamente conto che la complessità della questione sia tale da non poter essere analizzata nelle poche righe che un blog mette a disposizione, e peraltro rimango dell'idea che probabilmente non sarebbe neppure la sede opportuna. Tuttavia, non posso sottrarmi alla tentazione di esprimere un parere al riguardo. La vicenda storica è quanto mai complessa e troppi sono gli interessi in gioco per poter valutare questa guerra soltanto indicando con l'indice teso la parte del torto e quella della ragione. Israele ha assunto una posizione di assoluto predominio nello scacchiere mondiale, divenendo un interlocutore che sovente siede capotavola al tavolo delle trattative mondiali, un tavolo che, come noto, è tutt'altro che rotondo. Di fatto, il peso politico ed economico raggiunto è sufficiente ad Israele per collocarsi in una posizione di privilegio, un privilegio tale da rendere tollerabile se non addirittura legittima l'invasione della Palestina agli occhi dell'ONU, che si limita timorosamente ad invitare alla moderazione. Come se ciò fosse sufficiente per rifarsi quella verginità morale che le Nazioni Unite hanno perduto oramai da tempo.
Per chi come noi lo osserva da lontano, il conflitto, con le sue innumerevoli vittime civili, è emotivamente d'impatto e lascia spazio alle più svariate considerazioni e prese di posizione. La mediazione degli Stati Uniti è insolitamente mite, ma non sorprende se consideriamo gli stretti rapporti economici e non solo che li legano a Israele; l'ONU si defila affidando a Ban Ki-moon parole a dir poco sconcertanti per mitezza e qualunquismo. Le tregue a ore, parentesi ironicamente tragiche che sentenziano come la guerra sia oramai la drammatica costante, spezzano la monotonia di una quotidianità che ha nella morte il proprio motivo dominante.
Sto con Vattimo, del quale ho infinita stima intellettuale, quando nel condannare le violenze di Israele si appella alla Storia, sottintendendo che un popolo che ha subito l'orrore dell'Olocausto dovrebbe aver raggiunto una maggiore maturità civile. Non condivido però la posizione di coloro i quali, nella condotta bellica israeliana, intravedono un pretesto per dedicarsi alla purtroppo sempre frequente attività di revisionismo storico, un revisionismo teso a ridimensionare ciò che la memoria storica ci ha consegnato come uno dei più grandi crimini dell'umanità che, senza condizioni, tale deve restare. Che nel conflitto contro la Palestina, Israele non reciti il ruolo di vittima è cosa fin troppo evidente, ma tale valutazione deve obbligatoriamente spogliarsi di facili dietrologie. Non so se il Professor Vattimo, che certamente la Storia la conosce molto bene, condanni Israele in virtù del suo passato; francamente non credo. Osservo disorientato ciò che avviene nella striscia di Gaza, la smobilitazione delle truppe israeliane lascia dietro di sé un numero impressionante di interrogativi, ma un numero ancor più elevato di vittime, civili per lo più, che sono solo e soltanto vittime, a prescindere dalla bandiera avvolta attorno alla bara. La Storia, in questo caso, non ci potrà aiutare a comprendere i motivi di una carneficina, ammesso che ve ne siano, ma ci potrà semmai spiegare le ragioni del conflitto. Già Nietzsche del resto, con lo scritto Sull'utilità e il danno della Storia per la vita del 1874, si scagliava contro lo storicismo, accusandolo di annientare l'uomo atrofizzandone la creatività nel presente. Lo storicismo, quello rigoroso, sa essere deresponsabilizzante e, spesso, è il più grande giustificazionista degli orrori del presente. Cadere nella sua rete è molto, troppo facile. 

Matteo Andriola