mercoledì 22 ottobre 2014

Wittgenstein e il "Tractatus logico-philosophicus": il potere del linguaggio

È quanto meno anomalo che un ingegnere aeronautico si converta alla Filosofia, e per questo, lo studio del pensiero di Wittgenstein deve essere affrontato con estrema cautela, tentando un approccio diverso e trasversale. Non si tratta di un filosofo come tutti gli altri, e credo che i profani della materia si debbano avvicinare a lui con estrema prudenza. Molti si aggrappano alla storiella del leone, altri lo citano, ma pochi lo conoscono e sono ancor meno quelli che lo capiscono. Non credo sia giusto scindere Ludwig Wittgenstein dagli studi scientifici inizialmente intrapresi e la sua filosofia, per quanto ci si sforzi di negarlo, non è altro che la svolta umanistica di uno scienziato pienamente formato. Ho sempre diffidato delle illuminazioni improvvise, ma al contempo non posso negare che esse esercitino sempre uno straordinario fascino su di me.
Nella prima parte del Tractatus logico-philosophicus, quella che ora mi preme analizzare, Wittgenstein individua nel linguaggio il fulcro centrale della Filosofia, e ciò che più gli interessa è la capacità dello stesso di rappresentare il mondo. La ricerca relativa a quella che potremmo chiamare "essenza della proposizione", è un percorso complesso e impervio e, per molti aspetti, si alimenta dalle ceneri del pensiero di quel Kant che in molti, a ragione, ancora prendevano come saldo e imprescindibile punto di partenza per le proprie teorizzazioni filosofiche. Nel Tractatus logico-philosophicus, opera tanto ambiziosa quanto controversa, Wittgenstein parte dall'assunto, a mio giudizio mai troppo convincente, che la proposizione sia "letteralmente" un'immagine logica della realtà. All'interno di una proposizione, sostiene, i nomi fanno le veci degli elementi, ed esprimono quelle relazioni che nella realtà vigono tra gli oggetti; ora però, e Wittgenstein lo sa bene, riesce difficile scorgere il nesso immediato tra gli elementi della proposizione e la situazione che essi vogliono rappresentare, e per uscire da quest'impasse, il filosofo chiama in causa il pensiero, il quale, a suo dire, contiene intrinsecamente quei simboli necessari per concepire il nesso che mette in relazioni i nomi costituenti la proposizione. In altri termini, il linguaggio rappresenta logicamente la realtà, ma lo può fare solamente grazie al pensiero, che contiene quei simboli che il linguaggio può soltanto sottintendere. Attingendo in maniera forse troppo rigida alle proprie conoscenze matematiche, Wittgenstein giunge a considerare la proposizione come "immagine logica della realtà", in quanto essa, esattamente come avviene nella realtà visibile, presenta una struttura i cui elementi presentano effettive possibilità combinatorie. In quanto immagine della realtà, ogni proposizione "sensata", sarà caratterizzata dalla "bipolarità", ovvero dalla possibilità di essere vera o falsa, in relazione alla realtà che rappresentano. In altri termini, la validità di una proposizione si dovrà verificare, sottoponendola al severo esame della realtà, e fino a quel momento essa sarà equidistante dalla verità e dalla falsità.
Per il Tractatus, Wittgenstein non poteva fare a meno di appoggiarsi al filosofo che prima di tutti aveva sostenuto l'indissolubile legame tra realtà e linguaggio, ossia Aristotele. Era stato lui il primo, infatti, a vincolare la veridicità di una proposizione al suo riscontro nella realtà. Per mille motivi, Wittgenstein non è Aristotele, e gli strumenti a sua disposizione gli consentono un'analisi filosofica per così dire "matematica", che il filosofo greco poteva al più soltanto desumere. Tuttavia, non possiamo negare che il Tractatus logico-philosophicus sia un testo molto tecnico, dei più complessi mai scritti, e Bertrand Russell ha il grande merito di averlo compreso prima degli altri. L'analisi di Wittgenstein diviene quasi matematica nel momento in cui si concentra sui connettivi logici ( "non", "e", "se" ) e sul loro "non essere rappresentanti". Ricorrendo all'esempio concreto, la proposizione "non piove" non è rappresentativa di nessuna realtà, in quanto non esiste una realtà che corrisponda a tale proposizione, semmai soltanto realtà che neghino la proposizione "piove"; semplificando la questione, la proposizione "non piove" è resa vera esattamente dal medesimo fatto che la rende falsa, ossia dalla proposizione "piove".
Wittgenstein introduce i cosiddetti "fatti atomici", che possono darsi assieme oppure no e che, combinati, originano quelle che definisce "proposizioni atomiche", altrimenti dette "elementari". Eredità dell'impostazione matematica, è lo schematismo il grande limite del Tractatus,  e Wittgenstein, riprendendo Russell e soprattutto Gottlob Frege, elabora le "tavole di verità" ( a mio giudizio poco filosofiche e molto scientifiche ) come strumento necessario per determinare la verità o la falsità di quelle che chiama "proposizioni molecolari", ossia quelle proposizioni ottenute mediante il ricorso ai connettivi logici. Pur non trovando sempre concreta rappresentazione nella realtà, le "proposizioni molecolari" possono anche configurarsi come vere ( "Se piove allora piove" ) e in questo caso si tratta di "tautologie", alle quali si contrappongono le proposizioni sempre false, ossia le "contraddizioni" ( "piove e non piove" ). Prive di bipolarità, collocandosi necessariamente o dalla parte del vero o da quella del falso, tutte le "proposizioni molecolari" risultano agli occhi di Wittgenstein "prive di senso" in quanto, contrariamente alle "proposizioni sensate", non possiedono alcun contenuto rappresentativo ( ed infatti, non vi è possibilità che nel medesimo istante e nel medesimo luogo piova e non piova ). A ben osservarle però, Wittgenstein lo sa benissimo, tanto le "tautologie" quanto le "contraddizioni", tradiscono inequivocabilmente gli insuperabili limiti del parlare e del pensare, in quanto, pur sforzandoci, ci risulta impossibile rappresentarci un mondo contraddittorio esattamente quanto ci risulta ci risulta impossibile rappresentarcene uno tautologico. 
Forse Wittgenstein sarebbe stato un ottimo ingegnere, ma probabilmente la Filosofia aveva più bisogno di lui di quanto non ne avesse l'ingegneria.

Matteo Andriola

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