sabato 28 febbraio 2015

Dentro alla morale kantiana: il concetto di imperativo

Lo ammetto, davanti alla vastità del pensiero di Immanuel Kant provo sempre una sensazione di soggezione, un timore reverenziale che a volte mi spaventa. Posso provarci, ma non riuscirò mai, almeno credo, a comprendere come la mente umana possa giungere a una teorizzazione tanto smisurata e complessa. Anche se Nietzsche non sarebbe d'accordo, so bene di trovarmi di fronte a quello che, filosoficamente parlando, è senza dubbio un genio strutturale, né del resto posso negare di aver conosciuto Konigsberg per il fatto che questa cittadina gli abbia dato i natali, ma non esagero se sostengo pubblicamente di poterne argomentare a buon diritto. Kant infatti è tradizionalmente ostico per tutti, ma personalmente, pur essendo convintamente nietzscheano, ho sempre trovato un particolare feeling con la sua filosofia, e per quanto lui abbia sempre tentato di mettermi in difficoltà, senza presunzione posso affermare che, pur essendoci spesso riuscito, non abbia mai ottenuto il mio scalpo. Il suo criticismo è una brutta gatta da pelare, ma se si riesce a comprenderne l'intelaiatura, allora sarà impossibile negarne la grandezza, e sarà molto difficile evitare di tenerselo come compagno di viaggio per tutti gli studi filosofici successivi. Kant è sfuggente, è vero. Anzi, è un filosofo che difficilmente si piega al volere di chi lo studia, ma se gli si è fedeli, certamente si verrà ripagati con la stessa moneta.
Il mare magnum kantiano è molto pescoso, ma scegliere il punto in cui gettare l'amo non è semplice. Ho sempre trovato illuminante la teorizzazione kantiana relativa alla morale e per questo, evitando preamboli potenzialmente fuorvianti, decido di addentrarmi nella Critica della ragion pratica, analizzando i sempre fondamentali concetti di imperativo ipotetico e imperativo categorico. Nella sezione denominata Analitica, Kant, animato dal desiderio di individuare i principi in grado di regolare la volontà, effettua la distinzione tra "massime" e "imperativi". Entro il suo sistema, le massime si configurano come precetti dal valore meramente soggettivo, mentre gli imperativi, di valore oggettivo, hanno pretesa di universalità, sono cioè validi senza esclusione né condizione per tutti gli esseri razionali.
Da buon illuminista Kant, comprendendo che la teorizzazione necessiti di fondamenta più che mai solide, desume che la sensibilità e la ragione procedano su binari decisamente separati, in cui la prima possa piegarsi solo forzatamente ai comandi della seconda, proprio grazie all'autorità degli imperativi, che impongono all'inclinazione sensibile una regola universalmente valida. Nella sua analisi del resto, è certamente il primo a rendersi conto di percorrere una strada più volte battuta e, fedele alle ben note biforcazioni costanti nel suo pensiero, effettua una distinzione all'interno del concetto stesso di imperativo: l'imperativo può essere ipotetico ( se l'azione è rivolta a un fine ed è condizionata dal fine in questione ) o categorico ( se comanda incondizionatamente a prescindere da un fine, valevole cioè oggettivamente ). Secondo Kant, tra ragione e sensibilità esiste un insolubile intrinseco contrasto, e solo un comando della ragione può riuscire a piegare la sensibilità e condurre all'universalità. Tutto ciò concorre ad escludere la possibilità che la legge espressa dall'imperativo categorico possa essere per così dire "materiale", e ci impone di considerarla solo e soltanto dal punto di vista "formale". Kant esclude dunque che essa possa prescriverci cosa fare, sostenendo invece che ci debba semmai indicare come comportarsi al fine di realizzare un'azione moralmente corretta. Prendendo le mosse dalla formula generale, l'imperativo categorico ha tre svincoli fondamentali che ne strutturano il percorso ampliandone sempre più la completezza. La formula generale impone di agire secondo una massima che si vuole assuma validità universale. È chiaro ed evidente che il principio che ci guida debba portarci ad analizzare i limiti e gli estremi della sua portata, debba cioè portare ad interrogarsi se si tratti di una massima o di un imperativo. E fin qui va bene. Kant però inizia ad articolare il postulato generale, asserendo che si debba agire come se la massima in questione dovesse diventare un'universale legge della natura, riconoscendole di fatto la capacità di sconfinare nell'universo sensibile. La formulazione prosegue con un'ulteriore integrazione che prescrive di agire intendendo sempre come fine e mai come mezzo sia la propria persona, sia quella di ogni altro, in quella che si configura come una vera e propria affermazione della dignità. L'ultimo passaggio prescrive di agire in modo tale che la volontà, relativamente alla massima, possa riconoscere a se stessa un'universale capacità legislatrice. Questa terza formulazione può ritenersi il punto d'arrivo del percorso in quanto essa, di fatto, giunge ad affermare un caposaldo imprescindibile della morale kantiana, ossia l'autonomia, che dunque, proprio in virtù di se stessa, è e sarà sempre libera.
La vera moralità però, per essere realmente tale, deve necessariamente obbedire per ossequio alle leggi che essa stessa si impone, e non rispettare prescrizioni esterne soltanto per paura delle conseguenze che la loro trasgressione comporterebbe. In questo senso, la "soprasensibilità" di cui parla Kant altro non è se non la capacità dell'uomo morale di imporsi leggi in grado di assumere valore universale proprio perchè indipendenti dalla sfera sensibile e, proprio per questo, ad essa applicabili. Nel riconoscere la superiorità della ragione però, Kant non può negare che l'uomo agisca comunque anche nell'universo sensibile, soggiacendo conseguentemente a inclinazioni e desideri appunto sensibili; ciò di fatto lo porta a constatare come l'uomo possa rispettare le leggi morali soltanto riuscendo ad accettarle come un mero dovere. Infatti, non è proprio dell'essere umano, semmai di un santo, seguire spontaneamente una legge morale; essendo però impossibile la santità terrena, la ragione dovrà riuscire a imporre alla sensibilità il proprio primato, costringendola di fatto a piegarsi forzatamente al suo cospetto. Ed infatti, secondo Kant, l'azione morale è proprio quell'azione in cui la ragione, ergendosi sulla sensibilità, le impone il proprio primato gerarchico. Ci sarebbe molto altro da aggiungere.

Matteo Andriola

giovedì 5 febbraio 2015

Spinoza e l'unicità della sostanza

Baruch Spinoza è un filosofo molto pretenzioso, richiede sempre grande impegno e costanza, ma se si è disposti a concedergli il massimo sforzo, saprà ripagare con gli interessi la fatica profusa. Rifiutare una cattedra ad Heidelberg per salvare la propria autonomia intellettuale dice molto di questo straordinario filosofo olandese scomunicato dalla comunità ebraica con l'infamante accusa di eresia. Non è semplice inquadrare un pensatore tanto controverso, eppure la sua filosofia è tra le più ambiziose e al contempo coraggiose che si possano studiare.
Spinoza erige il proprio sistema filosofico sull'unico caposaldo a suo dire impossibile da scardinare: Dio. Il Dio di Spinoza è dotato di infiniti attributi infinitamente perfetti, e al di fuori di esso non può esserci assolutamente nulla. In altri termini, se si ammette che Dio sia tutto, esso dovrà allora necessariamente coincidere con la Natura, in quanto la sua totalità, per ovvie ragioni, escluderebbe senza appello una sua separazione dal creato, che quindi con esso si troverebbe armoniosamente a coincidere. Tale panteismo si identifica come un ordine necessario, e peraltro, elemento non trascurabile, geometricamente strutturato. L'Etica del resto, ci si presenta da subito proprio con un'architettura geometrica, e la sua suddivisione in definizioni, assiomi, proposizioni, dimostrazioni e scoli altro non è se non la prova che per Spinoza tutto, senza eccezioni, derivi da Dio secondo un rigido rapporto di causa - effetto. Nella sua teorizzazione però, Spinoza, che innegabilmente deve moltissimo a Parmenide, non può sottrarsi al confronto con quello che ai miei occhi è destinato a rimanere uno dei filosofi più sopravvalutati di sempre, ossia Cartesio. Analizzandone il pensiero, Spinoza aveva coraggiosamente puntato il dito contro il suo sistema, accusandolo di essersi colpevolmente e imperdonabilmente contraddetto. Ho sempre sposato con convinzione la teoria di Spinoza e ritengo che abbia ragione nell'individuare una una falla macroscopica nel dualismo cartesiano. Infatti, se da un lato Cartesio affermava che Dio per esistere non necessitasse di nulla se non di se stesso, dall'altro definiva contraddittoriamente sostanze anche la "res cogitans" e la "res extensa" che però, dipendendo da Dio, non potevano in realtà avere dignità di sussistenza. Spinoza, che filosoficamente vale molto più di Cartesio, individua in Dio l'unica e sola sostanza ( in quanto causa di se stesso, infinito ed eterno ), affermandone l'unicità relegando la "res cogitans" è la "res extensa" a meri attributi di esso e i singoli pensieri e corpi a semplici accidenti.
In maniera logicamente conseguente poi, Spinoza nega senza esitazione la possibilità che il finito possa essere sostanza, e dunque nega pure l'eventualità che possa esserlo l'uomo. Quest'ultimo infatti altro non è se non il risultato di un connubio tra mente e corpo, in cui la mente però, risulta essere soltanto l'idea del corpo o, se si preferisce, la conoscenza dell'estensione corporea. Secondo Spinoza, l'immanenza di Dio implica il fatto che la realtà non derivi, ma proceda da esso poiché, in quanto sostanza, Dio risulta essere tanto "res cogitans" quanto "res extensa". A ben guardare, ne consegue che le singole idee e i singoli corpi non possano interagire tra loro, ma al contrario possano soltanto procedere parallelamente in un lungo percorso privo di interazione, trovando coincidenza solo e soltanto in Dio.
Agli occhi di molti, Spinoza sarà pure stato un eretico, ma agli occhi miei il suo pensiero reciterà sempre un ruolo da protagonista nello sconfinato universo filosofico. Cartesio non sarebbe d'accordo.

Matteo Andriola