martedì 28 ottobre 2014

Marsilio e Ockham sono più moderni di noi

Seppur con le dovute cautele del caso, il dibattito relativo alla natura del potere spirituale è quanto mai vivo e attuale. In un'epoca come la nostra, preoccupantemente monca di teorie politiche, la questione stuzzica il mio interesse e, senza nascondere le mie perplessità per una figura, quella del pontefice, che ritengo anacronistica almeno nella forma, trovo incredibile che, pur modificandosi nel tempo, il dibattito relativo al rapporto fra potere temporale e potere spirituale abbia mantenuto inalterata la propria vitalità. Soltanto un ottuso potrebbe sostenere che la società sia effettivamente laica, e nella fattispecie, la figura del papa ha consolidato nel corso dei secoli la propria connotazione politica, e in questo senso, con i caratteri che il ruolo stava assumendo, fu molto più coerente Bonifacio VIII di quanto non lo sia stato il casto e puro Celestino V, costretto a gettare la spugna di fronte all'impossibilità di rendere puro un potere oramai vittima di se stesso e dell'imperante corruzione. Ancora oggi, come detto, la querelle relativa agli eventuali limiti del potere spirituale è percepita come straordinariamente attuale, soprattutto in una società che professa laicità senza crederci veramente. Sostengo la laicità dello Stato, ma più mi guardo attorno e meno la scorgo, e per quanto lo si voglia negare, forse oggi più di ieri, il pontefice è un alleato cui pochi si sentono di rinunciare. 
Come spesso mi accade, per comprendere il Presente, certo di non sbagliare, attingo al Medioevo, culla naturale di una disputa che ieri toglieva il sonno a Dante Alighieri e che oggi, seppur in maniera diversa, mantiene inalterata la propria vigoria. Due pensatori hanno affrontato la questione con una veemenza che, quasi contraddittoriamente, trova un'incredibile modernità nella propria essenza profondamente Medioevale: Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham. Marsilio decide di incamminarsi su un sentiero piuttosto impervio, ponendosi l'obiettivo di far crollare la pretesa assolutistica di un papato che agli occhi di molti aveva perso notevolmente prestigio. Parallelamente, Ockham contempla addirittura, in maniera certo clamorosa, la possibilità di un papa eretico, giustificando un'eventuale resistenza nei suoi confronti da parte dei fedeli. Secondo Marsilio, la società è il frutto del desiderio insito in qualunque individuo di condurre un'esistenza che meriti essere effettivamente vissuta; dal canto suo, Ockham assume una posizione destinata a suscitare non meno scalpore, sostenendo la possibilità che il potere temporale prevarichi quello spirituale, riconoscendo a un sovrano temporale la possibilità di deporre un pontefice che non si mostri ossequioso verso le Scritture. Contrariamente ad alcune correnti di pensiero che auspicavano l'unione dei due poteri, Ockham, tanto cauto quanto lungimirante, si mostra invece accanito sostenitore della loro divisione, utile a suo giudizio per preservare una sorta di equilibrio bipolare.
I due filosofi, in un moderno quanto sorprendente slancio di inconsueto sapore democratico, sono concordi nel ritenere il popolo quale depositario del potere, ed entrambi accettano il rischio di sostenere una tesi che inevitabilmente avrebbe finito per scontrarsi contro un potere, quello del papa, mai troppo incline ad accettare di essere messo in discussione. A mio giudizio, anche in relazione al tempo in cui vive, Marsilio, individuando la società quale risultato dell'opportunismo dei singoli, è di una modernità sconvolgente nel ritenere che gli uomini si associno soltanto per andare oltre la mera sopravvivenza, tentando così di realizzare appieno le proprie potenzialità. Le contese, di esempi il Medioevo ne offre molti, dominano la società e la pace può essere garantita solo a patto di impedire che ognuno persegua il proprio vantaggio. Solamente le leggi e un "guardiano" in grado di imporle e vigilare sulla loro pedissequa applicazione, possono garantire la sopravvivenza di uno Stato e tali norme, a suo giudizio ritrovano la propria essenza nell'essere imposte con la forza da chi ne ha l'autorità. La loro validità dunque, secondo Marsilio, non dipende da una qualsivoglia subordinazione a un'entità superiore, quanto piuttosto dall'esclusivo fatto di essere emanate correttamente. Chi conosce il Medioevo sa bene che gli slanci democratici erano merce rarissima al tempo, e per questo, che due pensatori concordino nel conferire ai cittadini una responsabilità legislativa, è da considerarsi un fenomeno straordinariamente all'avanguardia. Sia Marsilio che Ockham, infatti, sono in perfetta sintonia nel riconoscere ai cittadini il delicato compito di entrare nel meccanismo legislativo, e laddove il primo sostiene che i sudditi debbano stabilire le normative in grado di regolare la vita della comunità, il secondo, individuando negli uomini il tramite tra Dio e il potere dello Stato, attribuisce ai cittadini la facoltà di assegnare il potere. Anche se Ockham, ritornando parzialmente suoi propri passi, in casi eccezionali contempla la possibilità che il papa destituisca un sovrano temporale divenuto pericoloso, i due pensatori, troppo acuti per cadere in errore, non faticano a riconoscere nel papato una subdola macchina politica e tentano encomiabilmente di riportarlo entro i ranghi attraverso le proprie teorizzazioni. Marsilio infatti, consapevole del fatto che la Chiesa ricorra troppo spesso a Dio come strumento persuasivo, ridimensiona la forza terrena della legge divina, negando che essa possa risultare vincolante nell'esistenza temporale degli individui; essa infatti, per natura eterna e infallibile, non può né potrà mai possedere nel mondo terreno quella forza coercitiva necessaria per renderla effettivamente valida. Il potere spirituale, che né Marsilio né Ockham negano, può trovare la piena realizzazione soltanto esercitando un ruolo per così dire didattico, educando religiosamente i fedeli in maniera non coercitiva.
Testi come il Defensor pacis e il Dialogus, a conti fatti, non meritano di giacere impolverati dimenticati su uno scaffale, ma il loro contenuto, straordinariamente lungimirante, necessita più che mai di una riscoperta in grado di rinvigorirne freschezza e vitalità.

Matteo Andriola

mercoledì 22 ottobre 2014

Wittgenstein e il "Tractatus logico-philosophicus": il potere del linguaggio

È quanto meno anomalo che un ingegnere aeronautico si converta alla Filosofia, e per questo, lo studio del pensiero di Wittgenstein deve essere affrontato con estrema cautela, tentando un approccio diverso e trasversale. Non si tratta di un filosofo come tutti gli altri, e credo che i profani della materia si debbano avvicinare a lui con estrema prudenza. Molti si aggrappano alla storiella del leone, altri lo citano, ma pochi lo conoscono e sono ancor meno quelli che lo capiscono. Non credo sia giusto scindere Ludwig Wittgenstein dagli studi scientifici inizialmente intrapresi e la sua filosofia, per quanto ci si sforzi di negarlo, non è altro che la svolta umanistica di uno scienziato pienamente formato. Ho sempre diffidato delle illuminazioni improvvise, ma al contempo non posso negare che esse esercitino sempre uno straordinario fascino su di me.
Nella prima parte del Tractatus logico-philosophicus, quella che ora mi preme analizzare, Wittgenstein individua nel linguaggio il fulcro centrale della Filosofia, e ciò che più gli interessa è la capacità dello stesso di rappresentare il mondo. La ricerca relativa a quella che potremmo chiamare "essenza della proposizione", è un percorso complesso e impervio e, per molti aspetti, si alimenta dalle ceneri del pensiero di quel Kant che in molti, a ragione, ancora prendevano come saldo e imprescindibile punto di partenza per le proprie teorizzazioni filosofiche. Nel Tractatus logico-philosophicus, opera tanto ambiziosa quanto controversa, Wittgenstein parte dall'assunto, a mio giudizio mai troppo convincente, che la proposizione sia "letteralmente" un'immagine logica della realtà. All'interno di una proposizione, sostiene, i nomi fanno le veci degli elementi, ed esprimono quelle relazioni che nella realtà vigono tra gli oggetti; ora però, e Wittgenstein lo sa bene, riesce difficile scorgere il nesso immediato tra gli elementi della proposizione e la situazione che essi vogliono rappresentare, e per uscire da quest'impasse, il filosofo chiama in causa il pensiero, il quale, a suo dire, contiene intrinsecamente quei simboli necessari per concepire il nesso che mette in relazioni i nomi costituenti la proposizione. In altri termini, il linguaggio rappresenta logicamente la realtà, ma lo può fare solamente grazie al pensiero, che contiene quei simboli che il linguaggio può soltanto sottintendere. Attingendo in maniera forse troppo rigida alle proprie conoscenze matematiche, Wittgenstein giunge a considerare la proposizione come "immagine logica della realtà", in quanto essa, esattamente come avviene nella realtà visibile, presenta una struttura i cui elementi presentano effettive possibilità combinatorie. In quanto immagine della realtà, ogni proposizione "sensata", sarà caratterizzata dalla "bipolarità", ovvero dalla possibilità di essere vera o falsa, in relazione alla realtà che rappresentano. In altri termini, la validità di una proposizione si dovrà verificare, sottoponendola al severo esame della realtà, e fino a quel momento essa sarà equidistante dalla verità e dalla falsità.
Per il Tractatus, Wittgenstein non poteva fare a meno di appoggiarsi al filosofo che prima di tutti aveva sostenuto l'indissolubile legame tra realtà e linguaggio, ossia Aristotele. Era stato lui il primo, infatti, a vincolare la veridicità di una proposizione al suo riscontro nella realtà. Per mille motivi, Wittgenstein non è Aristotele, e gli strumenti a sua disposizione gli consentono un'analisi filosofica per così dire "matematica", che il filosofo greco poteva al più soltanto desumere. Tuttavia, non possiamo negare che il Tractatus logico-philosophicus sia un testo molto tecnico, dei più complessi mai scritti, e Bertrand Russell ha il grande merito di averlo compreso prima degli altri. L'analisi di Wittgenstein diviene quasi matematica nel momento in cui si concentra sui connettivi logici ( "non", "e", "se" ) e sul loro "non essere rappresentanti". Ricorrendo all'esempio concreto, la proposizione "non piove" non è rappresentativa di nessuna realtà, in quanto non esiste una realtà che corrisponda a tale proposizione, semmai soltanto realtà che neghino la proposizione "piove"; semplificando la questione, la proposizione "non piove" è resa vera esattamente dal medesimo fatto che la rende falsa, ossia dalla proposizione "piove".
Wittgenstein introduce i cosiddetti "fatti atomici", che possono darsi assieme oppure no e che, combinati, originano quelle che definisce "proposizioni atomiche", altrimenti dette "elementari". Eredità dell'impostazione matematica, è lo schematismo il grande limite del Tractatus,  e Wittgenstein, riprendendo Russell e soprattutto Gottlob Frege, elabora le "tavole di verità" ( a mio giudizio poco filosofiche e molto scientifiche ) come strumento necessario per determinare la verità o la falsità di quelle che chiama "proposizioni molecolari", ossia quelle proposizioni ottenute mediante il ricorso ai connettivi logici. Pur non trovando sempre concreta rappresentazione nella realtà, le "proposizioni molecolari" possono anche configurarsi come vere ( "Se piove allora piove" ) e in questo caso si tratta di "tautologie", alle quali si contrappongono le proposizioni sempre false, ossia le "contraddizioni" ( "piove e non piove" ). Prive di bipolarità, collocandosi necessariamente o dalla parte del vero o da quella del falso, tutte le "proposizioni molecolari" risultano agli occhi di Wittgenstein "prive di senso" in quanto, contrariamente alle "proposizioni sensate", non possiedono alcun contenuto rappresentativo ( ed infatti, non vi è possibilità che nel medesimo istante e nel medesimo luogo piova e non piova ). A ben osservarle però, Wittgenstein lo sa benissimo, tanto le "tautologie" quanto le "contraddizioni", tradiscono inequivocabilmente gli insuperabili limiti del parlare e del pensare, in quanto, pur sforzandoci, ci risulta impossibile rappresentarci un mondo contraddittorio esattamente quanto ci risulta ci risulta impossibile rappresentarcene uno tautologico. 
Forse Wittgenstein sarebbe stato un ottimo ingegnere, ma probabilmente la Filosofia aveva più bisogno di lui di quanto non ne avesse l'ingegneria.

Matteo Andriola

mercoledì 15 ottobre 2014

Kierkegaard e la "verità del singolo"

Se l'avessi incontrato a un evento mondano, probabilmente l'avrei invidiato per la sua aria scanzonata e sovente guascona; l'eleganza mescolata allo snobismo che di consuetudine sciorinava in pubblico faceva di Søren Kierkegaard un perfetto mentitore, un dissimulatore capace di nascondere la propria reale condizione a quella che era solito chiamare "folla bestiale". Senza remore, oggi posso dire di essermi convinto che fosse un bugiardo, e la sua maschera era senz'altro piuttosto ingannevole se si considera che dietro di essa si celava uno degli individui che non è esagerato annoverare tra i più tormentati dell'intera Danimarca. Nato nel 1813, ricevette una rigida educazione religiosa che personalmente credo l'abbia condizionato più di quanto si voglia ammettere; nell'arco di circa sette anni perse il padre e cinque fratelli, in quella che interpretò come un'autentica punizione divina per una colpa a noi ignota commessa dal genitore. Sentimentalmente non si può dire che il giovane fosse meno inquieto, se si considera che interruppe il fidanzamento con Regina Olsen, a causa di un mai specificato turbamento interiore che funestava il suo animo senza dargli tregua. Che Kierkegaard fosse un animo profondamente turbato non è in alcun modo opinabile, ma non sono mai riuscito a giudicarlo instabile o illogico, e il frequente ricorso agli pseudonimi fa di lui un filosofo tanto grande quanto sfuggente. La questione degli pseudonimi è in realtà più complessa di quanto si pensi, e il ricorso ad essi non è altro che un geniale stratagemma per responsabilizzare il lettore, privandolo di qualunque condizionamento.
Alla luce di quanto accadutogli, Kierkegaard doveva sentirsi decisamente in credito con Dio, eppure, sostenendo la "verità del singolo", ci fornisce una delle più alte e pure dimostrazioni di fede che la Filosofia ricordi. Secondo lui, è il "singolo" ad elevarsi sulla collettività, anche e soprattutto in materia di fede, e la verità ha come proprio compito l'affermazione assoluta dell'individualità. Attaccando Hegel, Kierkegaard si scaglia contro le ricerche metafisiche indirizzate alla ricerca di verità universali e concetti assoluti ( quali ad esempio la coscienza ) che non possono avere senso a meno che non vengano rigidamente contestualizzati alla soggettività del singolo individuo. Una conoscenza che scavalchi l'individualità è un'assurdità, in quanto tale individualità si concretizza proprio in relazione ad altre singolarità, e non in rapporto all'umanità intesa come entità autonoma dotata di vita propria. Una simile concezione dell'umanità negherebbe in assoluto la singolarità dell'individuo, potendo peraltro perpetrare crimini orrendi, semplicemente celandosi dietro la spersonalizzante maschera della moltitudine; ed infatti, è la folla ad aver ucciso Gesù Cristo, non il singolo. Paradossalmente, in materia religiosa, la conoscenza diviene secondo Kierkegaard uno strumento fuorviante, in quanto essa nulla ha a che vedere con la fede, ma al più con un nozionismo fine a se stesso. Il singolo individuo può e deve ricercare la salvezza, rimanendo però consapevole di poterla raggiungere esclusivamente attraverso la fede, e la conoscenza storica del Cristianesimo, in questo senso, può tranquillamente valere molto meno della totale ignoranza in materia. È in Cristo soltanto che si trova la chiave della salvezza, e non nei proseliti di una Chiesa come quella danese che Kierkegaard non ha remore nel definire "pagana". Il rapporto con Gesù è intimo e personale e tale intimità rappresenta agli occhi del filosofo l'unica strada possibile per la salvezza; ogni uomo, inteso nella propria individualità, instaura con Cristo un rapporto esclusivo che di fatto costituisce, e non potrebbe essere altrimenti, l'unico viatico possibile per ottenere la salvezza. 
A ben vedere, al di fuori di questo privilegiato rapporto, la religione può addirittura risultare contraddittoria nella sua incomprensibilità. Che Dio, a cui sarebbe sufficiente una parola,  si faccia uomo e decida di morire per salvare l'umanità, è un controsenso dal quale è impossibile uscire per mezzo della ragione; la storia di Cristo è propedeutica alla fede, ma non indispensabile per la salvezza. Il rapporto dell'uomo con Dio è un mistero che accomuna tutti i singoli, affermandone l'individualità. Ecco perchè, secondo Kierkegaard, la verità può risiedere soltanto nel singolo.

Matteo Andriola

lunedì 6 ottobre 2014

Thomas Hobbes e la teoria dello Stato

Verità e leggenda spesso riescono a fondersi armoniosamente, ma pare tutto sommato verosimile che la madre di Thomas Hobbes, il 5 aprile del 1588, abbia dichiarato di essere in preda alle doglie a causa del timore che l'Inghilterra venisse invasa dagli spagnoli. L'Invincibile Armata, di invincibile aveva molto poco, e Filippo II dovette chinare il capo di fronte alla superiorità inglese, ma tanto bastò per far maturare nel giovane Thomas la convinzione di essere "figlio della paura". La vicenda è curiosa, sicuramente affascinante, ma l'episodio inserisce il nascituro entro una dimensione per certi versi romanzesca.
Pochi filosofi, a mio giudizio, hanno rivoluzionato la Filosofia quanto Thomas Hobbes, e le sue teorie politiche non possono essere ridimensionate neppure a distanza di secoli. Non posso negarlo, quella del "contratto sociale" è una teoria così illuminante che mai cesserà di affascinarmi, e la teorizzazione consegnataci da Hobbes è talmente straordinaria da risultare attuale sempre e comunque. Egli si interroga sulla legittimità dello Stato, e la teoria contrattualistica secondo cui gli uomini avrebbero creato artificialmente una società stipulando un ideale contratto, diviene per lui lo strumento deputato alla giustificazione di tale legittimità. Con il patto, ci dice Hobbes, gli individui si sono accordati per trasferire i propri diritti naturali a una persona "civile", la cui volontà unica ha soppiantato quella comune e quella singola di ciascuno. Importa poco che l'accordo non abbia fondamento storico, la questione si gioca nel campo della teoria, e proprio per questo è più attendibile e rilevante. Se crediamo alla teoria contrattualistica, siamo costretti a convenire con Hobbes nel ritenere che il principio fondativo di uno Stato affondi le proprie radici nel consenso degli uomini, anziché nella volontà divina. Non credo esageri nel paragonare la forza di uno Stato a quella di un essere mostruoso, e col Leviatano Hobbes, perfettamente consapevole di procedere entro un terreno minato, ci offre uno dei più straordinari testi politici che siano mai stati scritti. Il potere può essere detenuto da un singolo ( monarchia ) o da un'assemblea ( democrazia ), ma in entrambi i casi si tratterà di un potere artificiale e le singole volontà che allo stato di natura risultavano indipendenti, sono destinate a fondersi in quella della "persona sovrano-rappresentativa", ossia la "persona artificiale" che diviene l'effettiva detentrice della sovranità. Essa, sovrana e al contempo rappresentativa, risulta indispensabile per l'esistenza stessa dello Stato, che in sua assenza si ridurrebbe a un disordinato coacervo di individui privi di una qualunque volontà politica. La nuova volontà pubblica dunque, si emancipa da quella del singolo e la volontà dello Stato trova concretezza unicamente nel suo rappresentante, appunto la "persona artificiale". La chiave della teoria hobbesiana sta proprio qui, ossia nell'affermare che la rappresentanza non consista nella mera rappresentazione della volontà dei molti, quanto piuttosto nella creazione di una nuova volontà del tutto indipendente. Alla luce di ciò, che la "persona artificiale" sia un monarca o un'assemblea, poco cambia, ciò che conta è che i poteri siano assolutamente unificati in una sovranità "assoluta", "indivisibile" e "irresistibile". Nel dettaglio, dovendo rispondere esclusivamente alle leggi naturali, il sovrano risulterà "assoluto" in quanto obbligatoriamente "sciolto" da qualunque legge civile sulla quale si erge, "indivisibile" in quanto detentore unico di tutti i poteri, "irresistibile" in quanto gli individui, nel riconoscergli legittimità attraverso il patto, di fatto negano la contraddittoria possibilità di resistergli. Nella concezione hobbesiana dello stato non può non trovare posto la Chiesa, che però non risulta un'entità indipendente, ma al contrario concorre alla realizzazione di uno Stato al contempo civile ed ecclesiastico, guidato dal medesimo detentore della sovranità. Hobbes infatti, nega con veemenza l'opportunità della separazione tra potere temporale e potere spirituale, in quanto tale divisione porterebbe i due poteri tentare continuamente di prevaricarsi, obbligando così i cittadini a dover obbedire a due sovrani. 
Forse è ardito ritenere che Hobbes abbia fondato la moderna teoria politica, ma non mi stancherò mai di ripetere che, senza il suo contributo, teorie illuminanti come quelle di John Rawls e Robert Nozick non avrebbero trovato un terreno tanto fertile su cui germogliare e fiorire rigogliosamente.

Matteo Andriola