mercoledì 3 settembre 2014

Il mondo di Schopenhauer

Nel 1820, l'allora trentaduenne Arthur Schopenhauer iniziò l'attività di libero docente all'università di Berlino fissando le proprie lezioni in contemporanea con quelle dell'odiato Hegel. Non si può dire mancasse di personalità, ma tatticamente non fu una grande idea: la sua aula rimase desolatamente vuota. Neppure il tempismo era stato perfetto se si considera che l'anno precedente Il mondo come volontà e rappresentazione aveva subito diverse stroncature. Pochi in quel momento lo immaginavano, ma quell'irriverente filosofo che aveva osato sfidare Hegel, di frecce al proprio arco ne aveva parecchie e quell'opera troppo frettolosamente stroncata senza appello era destinata a lasciare un'impronta indelebile nella storia della Filosofia. 
Schopenhauer non era tipo da mostrare gratitudine, ma in cuor suo sapeva bene di dovere molto a Kant, che aveva subordinato il processo conoscitivo al soggetto piuttosto che all'oggetto, sostenendo contemporaneamente la distinzione tra tra una realtà apparente ( il "fenomeno" ) e una realtà oggettiva ( il "noumeno" ). Schopenhauer parte dall'assunto che il mondo sia una rappresentazione del soggetto e che i sensi giochino un ruolo fondamentale nel processo conoscitivo, in quanto è grazie ad essi che il soggetto si rapporta alla realtà, che dunque, in virtù di ciò, non "è" ma "appare". Tuttavia, il suo pensiero non ricalca fedelmente quello di Kant, che ammetteva l'esistenza di un'oggettività residua indipendente e impercepibile dal soggetto ( il "noumeno", appunto ), ma se ne discosta escludendo la possibilità di un'esistenza noumenica indipendente dal soggetto, sostenendo che la realtà esista soltanto in relazione a chi la percepisce, subordinandola di fatto al suo essere percepita. In altri termini, è il soggetto a determinare l'esistenza della realtà, che senza di lui non esisterebbe indipendentemente, e che dunque altro non è se non una sua "rappresentazione" perchè ciò che esiste, esiste per il soggetto e nulla può esistere se non in relazione ad esso. Secondo Schopenhauer quindi, la realtà, in quanto rappresentazione del soggetto, è apparenza o, riprendendo l'amata cultura indiana, è "velo di Maya".
Ammettendo ciò però, ci si potrebbe chiedere perchè non esistano tante realtà quanti sono i soggetti percepenti, ma Schopenhauer, attingendo ancora una volta a piene mani al pensiero kantiano, secondo cui la conoscenza avverrebbe attraverso le universali forme a priori della coscienza ( "spazio" e "tempo" ), esce dall'impasse affermando che il mondo sia uno soltanto, proprio perchè i soggetti lo percepiscono attraverso le medesime forme. La realtà nasce nel momento in cui l'intelletto congiunge "spazio" e "tempo" attraverso quella che Schopenhauer ritiene a tutti gli effetti l'unica categoria, ovvero la "causalità". Neppure lui però, può esimersi dal riconoscere che vi siano contemporaneamente entità in grado di sottrarsi allo "spazio", al "tempo" e alla "causalità", ossia quelle stesse entità eterne e universali che Platone aveva chiamato "idee". Configurandosi come gli insiemi fungenti da categoria per i casi particolari ( l'idea di cane è la categoria che include i singoli cani esistenti ) ed essendo gerarchicamente ad essi superiori, esse non saranno percepibili attraverso le medesime forme della conoscenza con cui vengono percepiti appunto i casi particolari, ma il soggetto, elevandosi al di sopra della propria individualità e rinunciando alla "causalità", le riconoscerà ugualmente come proprie rappresentazioni.
A questo punto, il discorso potrebbe sembrare concluso poiché tutto parrebbe risolversi nell'illusione, ma Schopenhauer, poco incline all'arrendevolezza, nel riconoscere l'illusorietà del mondo, rovescia clamorosamente la prospettiva della tradizione filosofica, indicando nel corpo lo strumento per sollevare l'ingannevole "velo di Maya". Il corpo infatti, altro non è se non pura volontà. Ma questa, è un'altra storia.

Matteo Andriola

Nessun commento:

Posta un commento