lunedì 11 agosto 2014

Sulla pena capitale

Dopo aver pugnalato a morte Marat nella vasca da bagno, Charlotte Corday dichiarò di aver ucciso un uomo per salvarne centomila. Mi ha sempre affascinato questa fanciulla che, ironia della sorte, perse la vita quattro giorni dopo aver ottenuto l'immortalità storica per aver compiuto un gesto sicuramente "più grande di lei". La lama della ghigliottina, infatti, sentenziò senza condizioni la sua colpevolezza. Pur non condividendolo, posso tranquillamente dire di comprendere il gesto della Corday, che doveva certo nutrire profondo odio verso Marat, ma ancor più doveva avere a cuore quei "centomila" che col suo gesto intendeva salvare. Più o meno direttamente, Jean Paul Marat era stato il responsabile di moltissime esecuzioni e la Corday non aveva a disposizione molti mezzi per rendere inoffensivo quello che ai suoi occhi doveva apparire né più né meno di un assassino. Al contrario, alla sua esecuzione esisteva l'alternativa del carcere, che però non venne neppure contemplata.
La ghigliottina è oramai un oggetto da museo, ma la pena capitale continua ad essere in vigore in diversi Paesi e il dibattito generato dalla legittimità di uno strumento di giustizia che impone una morte "non necessaria" ha prodotto una letteratura così vasta da far scricchiolare gli scaffali più resistenti delle biblioteche. Non entrerò in questa sede nell'analisi dei casi specifici, in quanto è ora mio interesse analizzare la problematica nel suo complesso, focalizzandomi esclusivamente sull'esercizio di una pratica che ritengo illegittima senza condizioni. La questione presenta certo numerose implicazioni etiche, ma quando mi viene chiesto di indicare il motivo per il quale io sia drasticamente contrario alla pena capitale, senza esitazioni indico nella sua concettuale contraddittorietà la motivazione predominante. Essendo la vita un diritto inalienabile, non esiste oggi società regolamentata da leggi scritte ( incluse quelle in cui vige la pena capitale ) che non annoveri fra i reati l'omicidio volontario, e alla Giustizia si riconosce, tra gli altri, l'ingrato compito di comminare sanzioni proporzionate ai reati commessi, affermando la superiorità della Legge sul singolo individuo. Non si può negare che le sanzioni concorrano a rendere solide le fondamenta di una società che si è irrimediabilmente spogliata dell'etica, ma la pretesa di adottare la pena capitale facendone un esempio di giustizia, a ben vedere, non può che sconfinare nel territorio della contraddittorietà. Se da un lato infatti si dovrà obbligatoriamente riconoscere alla Legge un razionale primato gerarchico sul reato, dall'altro non si potrà fare a meno di negare la razionalità di un provvedimento che "legalmente" punisca un crimine ricorrendo a un altro crimine. Permeata di contraddittorietà e irrazionalità, la pena capitale testimonia l'irrimediabile fallimento civile della società che la applica. 
Ho perso da tempo la stima nel genere umano per illudermi che le leggi vengano rispettate per ossequio, perciò non esiterei a scommettere parecchi soldi sul fatto che gli uomini, nella stragrande maggioranza dei casi, non delinquano soltanto per paura delle conseguenze. In considerazione di ciò, piuttosto che come strumento di giustizia, la pena capitale si configura come strumento deterrente, barbaro ammonimento di ciò che potrebbe accadere ai responsabili di determinati crimini. Nella sua funzione deterrente che la relega a mero strumento punitivo e intimidatorio, non posso fare a meno di individuare un intrinseco potere disgregante, capace di far decadere il compito più nobile che alla Legge si dovrebbe riconoscere, quello educativo. Non è accettabile che la Giustizia, peraltro contraddittoriamente, violi l'inalienabile diritto alla vita e se, pur non giustificandolo, non fatico a comprendere le motivazioni di un genitore che impulsivamente decide di farsi giustizia uccidendo l'assassino della figlia, non riesco a concedere attenuanti a un'istituzione che, ergendosi sui singoli, per sua stessa essenza dovrebbe esercitare le proprie funzioni razionalmente e nel rispetto di quella morale di cui per sua natura dovrebbe essere il più affidabile garante. Sostituendosi a una punizione che non contempli la lesione del diritto alla vita ( come ad esempio, la detenzione ), la pena capitale non ha funzione riparatrice, non ristabilisce lo status quo precedente il delitto per cui è stata comminata, ma punendo con la morte il condannato, sostituisce soltanto un crimine con un altro. Il perverso sollievo che genera in coloro che la sostengono poi, rende la pena capitale una cartina tornasole utile per comprendere la reale natura dell'animo umano, che non è affatto desideroso di giustizia come invece si potrebbe pensare. Sono infatti sempre più convinto che l'individuo, oggi più di ieri, non brami realmente il trionfo della Legge, ma senta soltanto l'esigenza di illudersi che ciò avvenga. Nell'immaginario collettivo, il cattivo deve perdere e la sua sconfitta definitiva può essere sancita soltanto dalla morte, che in realtà altro non è se non l'emblema di una clamorosa sconfitta etica. La collettività, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, non desidera la giustizia, in quanto, se così fosse, non esiterebbe a proclamarsi unanimemente contraria ad una pratica eticamente ingiusta e concettualmente contraddittoria, e caldeggerebbe la sua abolizione auspicandone la sostituzione con la detenzione. Quest'ultima, la cui durata dovrebbe certamente essere regolata dal diritto, punirebbe ugualmente il colpevole, e lo renderebbe inoffensivo senza ledere l'inalienabile diritto alla vita. La "non necessaria" morte del condannato, invece, appaga soltanto il desiderio di una folla irrazionale che si convince che un efferato criminale possa ottenere ciò che merita soltanto salendo sulla forca.
Se mi venisse offerta la possibilità di invitare a cena un personaggio del passato, senza esitazioni inviterei William Shakespeare, per potergli chiedere come sia riuscito a conoscere così perfettamente la natura umana. Nessuno meglio di lui infatti è riuscito a rappresentare i reconditi meandri dell'animo umano e certo non è ricorso a molta immaginazione quando, scrivendo Il mercante di Venezia, ha caratterizzato il personaggio di Shylock, il degenere usuraio che accetta di prestare del denaro a Bassanio, a condizione che Antonio, garante del suo debitore, gli conceda una libbra della propria carne in caso di mancato pagamento del debito; con le tasche vuote ma moralmente appagato dal solo sacrificio umano. La libbra di carne Shylock non la otterrà, ma se ipoteticamente potessimo invitarlo ad esprimere un parere sulla legittimità della pena capitale, certamente deciderebbe di sedersi "dalla parte del torto", per citare Brecht. Purtroppo, rischierebbe di non trovare posto.

Matteo Andriola

Nessun commento:

Posta un commento