lunedì 18 agosto 2014

La caverna di Platone è più affollata che mai

Durante le sue lezioni, quello che poi sarebbe diventato il mio relatore di tesi, compiacendosi della grandezza della propria disciplina, era solito ripetere che se non avessimo capito il pensiero di Platone non avremmo capito neppure la Filosofia successiva. Al tempo credevo calcasse volutamente la mano, abbandonandosi ad un aristocratico snobismo accademico di maniera, ma non impiegai molto tempo per ritornare sui miei passi e capire che in realtà aveva ragione lui. Non so se Platone sia stato il più grande filosofo esistito, probabilmente no, ma sicuramente è quello che maggiormente ha condizionato i pensatori successivi: lo ritrovo in Leibnitz, in Kant, in Schopenhauer e persino in Nietzsche. Il fatto che Platone sia stato allievo di Socrate poi, ci impone di considerarlo con riverenza religiosa quasi a prescindere.
La società cui Platone si rivolge, per svariati motivi è una società molto diversa dalla nostra, e il ricorso ai miti aveva molto più senso allora di quanto non ne avrebbe oggi, tuttavia commetteremmo un grave errore se considerassimo il mito alla stregua di una semplice storiella coreografica. Ammetto di non essere mai stato un accanito sostenitore dell'attualizzazione del passato e penso che chi lo sia, molto spesso con il proprio sforzo finisca per travisare ciò che sta inopinatamente tentando di attualizzare. Chiunque abbia studiato la Repubblica di Platone però, giunto al libro VII deve necessariamente aver sussultato almeno una volta di fronte al mistero filosofico del mito della caverna; io non faccio eccezione, ed anzi ancora oggi non posso fare a meno di stupirmi davanti alla sua modernità. Se c'è una cosa che ho imparato dai miti, è che essi hanno sempre un'interpretazione generale indipendente che precede quella particolare, e la seconda necessariamente dipende dalla prima. Platone, che del ricorso al mito è un maestro, lo sapeva bene, ed anzi confidava proprio sul fatto che il lettore fosse consapevole dell'esistenza di differenti livelli interpretativi gerarchicamente ordinati. Ha ragione Nicola Abbagnano quando sostiene che la versione razionale completa di ogni mito sarebbe un controsenso e credo di non sbagliare indicando proprio in questa peculiarità la forza persuasiva dei racconti platonici.
Ritornando nello specifico del mito della caverna, dopo averlo velocemente ripercorso, credo sia opportuno osservarne alcuni aspetti. Platone immagina che alcuni schiavi si trovino incatenati sul fondo di una caverna, rivolti contro la parete e impossibilitati a voltarsi. Davanti a loro si muovono le ombre di alcune statuette mosse alle loro spalle da uomini accovacciati dietro ad un muretto. Dietro di esse, un fuoco proietta le ombre. Uno schiavo, liberatosi dalle catene, riesce a voltarsi e, risalendo la caverna, scopre che ciò che fino a quel momento aveva potuto vedere non era la realtà, ma soltanto una sua fittizia rappresentazione. Uscito dalla caverna, la luce del sole gli si manifesta in tutta la sua luminosità, rivelandogli la verità. Lo schiavo liberato ha scoperto la verità, ma è reticente di fronte alla possibilità di rientrare nella caverna per rivelare a quelli che un tempo erano i suoi compagni di prigionia che fino a quel momento sono stati ingannati da una menzogna e che quelle ombre non sono altro che un'illusione. Teme che questi, non credendogli, dopo averlo deriso lo uccidano.
Esistono diverse letture del mito, che dev'essere obbligatoriamente affrontato tenendo in considerazione la ben nota "teoria delle idee", ma come anticipato è ora di mio interesse concentrarmi sulla sua genericità anziché sulla sua specificità. Platone è troppo intelligente per lasciarsi sfuggire l'occasione di offrire un pronto riscatto alla memoria del suo maestro, ed infatti dietro allo schiavo liberato non possiamo fare a meno di intravedere Socrate, simbolo di un'auspicata emancipazione intellettuale, condannato a morte perchè, intellettualmente libero, rifiuta di scendere a compromessi. In altri termini, tralasciando i diversi piani di lettura, la liberazione dalla prigionia intellettuale diviene una necessità sociale e Socrate più di chiunque altro può rappresentare la coraggiosa scelta di chi rifiuta la costrizione della schiavitù ed esce dalla caverna alla ricerca della verità, anche a costo della vita. Socrate paga cara la propria emancipazione, ma agli occhi di Platone ( ed anche ai miei ) è un vero e proprio eroe perchè rifiuta le catene dell'ignoranza. 
Anche sforzandomi di non farlo, non posso fare a meno di notare come la società attuale abbia incatenato molti schiavi sul fondo di quella caverna, costringendoli ad una cattività forzata che pone davanti ai loro occhi soltanto ombre, subdole menzogne travestite da realtà. Interi popoli ridotti in schiavitù intellettuale, resi incapaci di ribellarsi ad una cattività che troppo spesso viene confusa con la libertà. Oggi, la caverna raccontataci da Platone è più affollata che mai, ed è affollata da schiavi che colpevolmente coltivano la propria condizione come una virtù, convinti che la catena sia il normale prezzo da pagare per vivere in società, una società che addita ogni schiavo liberato con disprezzo, accusandolo di essere un pericoloso sovversivo. Se siamo schiavi politicamente ed economicamente, lo siamo perchè anzitutto siamo soggiogati intellettualmente, felici di ammirare ombre danzanti sulla parete della caverna, protetti dal vincolo della catena. Se solo ce ne rendessimo conto, scopriremmo di aver fino ad oggi creduto a delle menzogne e iniziando a considerare la libertà dell'intelletto come un bisogno vitale, capiremmo come Socrate non sia in realtà il simbolo della ribellione, ma piuttosto il simbolo di quella stessa libertà intellettuale che dovrebbe essere imprescindibile prerogativa di ognuno e che invece, oggi più di ieri, è un'assente ingiustificata all'interno della società.

Matteo Andriola

3 commenti:

  1. Caro Matteo, mai come di questi tempi il tuo articolo mi sembra azzeccato! Viviamo un momento storico strano e, a mio avviso, sociologicamente assai grave. Siamo al paradosso secondo cui chi sa deve quasi vergognarsi di sapere, la cultura fa paura e non è apprezzata, possedere una coscienza critica sembra quasi privilegio di pochi. Non ne parliamo della memoria storica. Credo che questi tuoi pensieri possano assurgere a ruolo di preambolo per una disamina più ampia riguardo il ruolo odierno dell'intellettuale. Purtroppo questa figura - almeno nel senso a me caro, quello teorizzato da Gramsci - sta morendo. L'intellettuale è colui che dovrebbe esporsi, prendere posizione, indirizzare verso sani e giusti principi, dovrebbe insomma fungere da voce critica verso tutti - e sottolineo tutti - gli eventi. Gramsci diceva che la cultura non è il numero di libri letti ma la capacità di vedere la vita, di essere, in sostanza, degli empatici sociali, di soffrire per ciò che avviene nel mondo, dare voce a chi non ce l'ha. Troppo scomodo, di questi tempi, giocare la partita in questo ruolo. Ancora una volta cito il profeta Guicciardini e dico che il "particulare" regna sovrano. Cosa che mi rattrista molto. Cari saluti. Giuseppe Ceddìa

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    1. Caro Giuseppe, ti ringrazio per l'intervento, come di consueto pertinente.
      Il problema della società in cui viviamo è anzitutto culturale, e il nostro Paese è la cartina tornasole di un malcostume purtroppo diffuso ovunque. L'accettazione passiva è oramai un "modus vivendi" e quella coscienza critica cui fai riferimento sembra essere una virtù da coltivare sottotraccia, al riparo dal giudizio del potere e della massa che senz'altro la giudicherebbero rivoluzionaria, sovversiva e dunque pericolosa. Pur sforzandomi, non riesco a trovare attenuanti per una società che è assolutamente colpevole per la propria ignoranza intellettuale, incapace di alzare la testa di fronte all'ingiustizia dilagante. L'ottundimento mentale diviene per molti un brodo nel quale crogiolarsi, coltivando la mediocrità come fosse una virtù. A ragione, citi Gramsci e Guicciardini, ma quella dell'intellettuale è oggi una figura molto rara, vittima di una società che, ritenendola pericolosa, la osteggia relegando volontariamente la cultura a mero orpello ornamentale. Da sempre nemica giurata del potere, la libertà intellettuale genera spavento. Soprattutto in chi non la possiede.

      Matteo Andriola

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  2. .la società attuale abbia incatenato molti schiavi sul fondo di quella caverna, costringendoli ad una cattività forzata che pone davanti ai loro occhi soltanto ombre, subdole menzogne travestite da realtà. Interi popoli ridotti in schiavitù intellettuale, resi incapaci di ribellarsi ad una cattività che troppo spesso viene confusa con la libertà ....affollata da schiavi che colpevolmente coltivano la propria condizione come una virtù, convinti che la catena sia il normale prezzo da pagare per vivere in società, una società che addita ogni schiavo liberato con disprezzo, accusandolo di essere un pericoloso sovversivo. Se siamo schiavi politicamente ed economicamente, lo siamo perchè anzitutto siamo soggiogati intellettualmente.... QUESTI PENSIERI MI HANNO PARTICOLARMENTE COLPITA, E CREDO CHE LE CATENE VENGANO MESSE ANCHE PER UNA AUTOCONSERVAZIONE DA PARTE DI CHI DETIENE IL POTERE. LA DEMOCRAZIA E' IL POTERE DI ILLUDERE I POPOLI, CHE SONO SEDUCIBILI ATTRAVERSO UN SEMPLICE RIFLESSO DI APPARENTE LIBERTA' MA CHE GIACCIONO IN UNA CONDIZIONE DI SCHIAVITU' CONTEMPORANEA DI CUI VANNO ANCHE FIERI MAGARI SI ESALTANO. SE SCOPRISSERO DAVVERO COSA ANCHE MINIMAMENTE COSA VUOL DIRE LA LIBERTA' PROVEREBBERO PUDORE (E IL PUDORE SI PROVA SOLO SE SI HA UN PENSIERO COSCIENTE) A GUARDARSI RIFLESSI IN UNO SPECCHIO. GRANDE MATTEO COMPLIMENTI

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