venerdì 27 maggio 2016

Per uno studio su Giacomo Leopardi

I tentativi di ascrivere il pensiero di Giacomo Leopardi entro una determinata categoria filosofica risultano del tutto impossibili, un'impresa destinata a risolversi in completo e misero fallimento. Del resto, quale potrebbe essere la ragione per pensare soltanto di delimitare entro predeterminati confini un simile potenziale intellettuale, sapendo di trovarsi di fronte all'ingegno di quello che è indubbiamente uno dei maggiori e più completi pensatori che la Storia possa ricordare? Non può sorprendere che Giordani avesse intravisto uno smisurato talento in quel giovane certo al tempo ancora acerbo ma che, pur nella reclusione del "natio borgo selvaggio", iniziava a dar prova di una clamorosa conoscenza del mondo e soprattutto di una società che evidentemente comprendeva benissimo pur senza averla direttamente mai conosciuta. Soffermarsi su tale aspetto dell'analisi leopardiana è indubbiamente interessante e al contempo sorprendente, poiché uno sguardo attento può già notare negli scritti del giovane Leopardi una precocissima capacità di analisi di ciò che in effetti ancora non poteva conoscere, clamorosamente lucida e lungimirante al punto da risultare fin da subito talvolta addirittura profetica.
Senza lo Zibaldone, oggi non avremmo la fortuna di conoscere Giacomo Leopardi quanto effettivamente lo conosciamo, ma l'idea di questo diario, di questo "caos ordinato", pur ispirata dall'acuto consiglio del Vögel, deve aver attecchito immediatamente in un terreno che evidentemente doveva risultare fertile al punto da risolversi in un'enorme esternazione di ciò che il suo autore provava, e in definitiva di ciò che egli intrinsecamente era. Chi ritenesse le quasi cinquemila pagine di questo monumentale scritto alla stregua di una mera raccolta di pensieri "in libertà" commetterebbe un errore madornale, poiché nelle trame di un apparentemente caotico groviglio intellettuale si riscontra un'innegabile coerenza in grado di travalicare l'ordine strettamente cronologico di eventi e sensazioni, capace di configurarsi come vera e propria rappresentazione di un'interiorità desiderosa di esondare da quegli argini che la cattività familiare gli aveva forzatamente imposto e che la favola puerile L'Ucello, pur filtrata dai naturali limiti di una giovinezza non solamente anagrafica ma anche è soprattutto letteraria, inequivocabilmente tradiva. Il giovane Leopardi è proiettato all'infinito pur nella certezza di doversi continuamente confrontare con il limite invalicabile della crudele realtà, e non si rischia certo di cadere in contraddizione sostenendo ciò, in quanto la potenzialità del giovane è fin da subito destinata a fare i conti con una realtà che in tempi brevissimi gli presenta un dazio molto salato da pagare, e di conseguenza ciò che ci si ostina a considerare pessimismo è semmai un eccesso di realismo, ciò che oggi molti definiscono in maniera troppo sbrigativa "cinismo". La vicenda umana di Giacomo Leopardi non può essere sottovalutata, né si può azzardare un'analisi di ciò che il suo intelletto ci ha lasciato senza contemplare gli aspetti strettamente umani che soprattutto negli anni giovanili hanno scavato un solco profondissimo tra Leopardi e tutto ciò che si collocava al di fuori di lui. I Puerili in questo senso costituiscono almeno in parte un grido d'aiuto che però a Recanati nessuno poteva né voleva ascoltare, e analizzando la sconfinata letteratura leopardiana si dovrà convenire sul fatto che in ogni singola riga vi sia sempre e comunque l'autore al centro di un disegno ( qualunque esso sia ) in continua evoluzione e in perenne movimento. L'interiorità di Leopardi dunque, intimo palcoscenico in cui la Natura ha sconfitto senza difficoltà la divinità, è la pietra angolare di un percorso che si sviluppa seguendo linee direttrici inscindibili e indivisibili: quella letteraria e quella umana, salde in un rapporto simbiotico in cui la seconda sostiene la prima quasi fosse il suo scheletro portante. Non è ardito considerare dunque le opere della maturità ( soprattutto quelle in prosa ), prime fra tutte le Operette Morali, figlie di una gestazione lunga e complessa, iniziata in un periodo in cui Leopardi era soltanto un giovane di Recanati, colui che il Giordani chiamava affettuosamente "Contino".

Matteo Andriola

Nessun commento:

Posta un commento